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 2016  novembre 12 Sabato calendario

Vi racconto la rivolta d’Ungheria, Il Giornale, 6 aprile 2006 La rivoluzione ungherese per me non comincia il 23 ottobre 1956, con la grande manifestazione studentesca di solidarietà coi polacchi a Budapest, ma la notte del 5 marzo 1953, quando il redattore-capo di notte della France Presse, mi telefona: «Stalin è morto»

• Vi racconto la rivolta d’Ungheria, Il Giornale, 6 aprile 2006 La rivoluzione ungherese per me non comincia il 23 ottobre 1956, con la grande manifestazione studentesca di solidarietà coi polacchi a Budapest, ma la notte del 5 marzo 1953, quando il redattore-capo di notte della France Presse, mi telefona: «Stalin è morto». «Quante righe?», chiedo. «Trenta». Gioventù, studi di teologia, adesione al marxismo, ruolo accanto a Lenin fino al potere totale nel 1929, terrore, nuova Costituzione, Grande guerra patriottica, Yalta e Potsdam, Guerra fredda, santificazione al XIX congresso del Pcus nel 1952... Tutto in trenta righe! La notizia non m’aveva sorpreso. Poche settimane prima, Arkady Stolypin (figlio esule in Francia del primo ministro dello zar, assassinato dagli anarchici), del servizio ascolti della France Presse, m’aveva segnalato sulla Pravda l’articolo di un luminare della medicina sui progressi che ormai allungavano l’esistenza. Per Stolypin era strano: infatti i «fondi» della Pravda erano sempre direttive per i capi del Pcus. Mai un articolo scientifico aveva avuto tale risalto. Concordo con lui che destinatario dell’articolo è Stalin: ripulito il Cremlino dai medici ebrei, arrestati per il complotto sionista, Stalin va rassicurato da uno dei rari medici non ebrei lasciati da Beria, capo della polizia. Perché? Perché Stalin - che ha appena festeggiato i settant’anni - è malato. Il mio articolo per la France-Presse sarà una voce d’enciclopedia, culminante così: «Stalin il Grande è morto. Lo stalinismo sopravviverà?». Infatti, dalla fine della seconda guerra mondiale, Stalin pareva immortale. La reazione addolorata del popolo russo alla notizia ha stupito gli osservatori. Solgenitsin è testimone che perfino le famiglie delle sue vittime lo piangono e così tanti prigionieri del Gulag. Piangono anche gli ungheresi. Mi viene in mente il racconto di Milovan Djilas. Tito era stato invitato da Stalin alla fine del 1947 per discutere la sorte dell’Albania, ma temeva un agguato e aveva mandato Djilas. Cui Stalin disse: «Ci sono solo due vere nazioni nell’Europa centrale, quelle che hanno avuto una folta aristocrazia tesa a difendere i suoi privilegi contro i re nazionali o stranieri, finendo con l’insegnare al popolo la volontà d’indipendenza dalle autorità centrali. Perciò schiaccerò Polonia e Ungheria». Lieti d’essersi liberati di Stalin, gli eredi pensano alle urgenze, con la neonata Ddr accolta nel patto di Varsavia; con la Polonia retta dal Maresciallo sovietico (ma nato polacco) Rokossovski, dove il malcontento dilaga nella primavera 1953; con l’Ungheria, dove la rivolta contadina serpeggia. Così convocano a Mosca il capo del governo, Matyas Rakosi, e un ex esule a Mosca, Imre Nagy, ministro dell’agricoltura. Eppure Nagy era stato allontanato dal potere nel 1949 come ostile alla collettivizzazione ordinata dal Cremlino alle democrazie popolari. Ed era sfuggito alla purga di Stalin tra i seguaci di Bucharin, fautore di un comunismo che avrebbe dovuto proteggere l’agricoltura e manifestare meno ostilità verso la Chiesa ortodossa, radicatissima nelle campagne. Non ero stato il solo a sorprendermi di Nagy al Cremlino. Agosto 1955, in vacanza a Bohinj, in Slovenia, scopro che Tito è nella tenuta di caccia di Bled, ereditata dagli Asburgo. Telefono al capo di gabinetto di Tito, chiedendo un’intervista per France-Presse e Figaro. Rapida risposta: al ricevimento per il primo ambasciatore sovietico venuto dopo la rottura del 1949, Tito mi parlerà. L’indomani Tito mi chiede se conosco Nagy, appena nominato capo del governo ungherese e aggiunge: «Ho fatto molti viaggi a Mosca dopo la guerra, incontrando tutti i membri della banda ungherese: Rakosi, Gerö, Levai, Farkas, Lukàcs, ma Nagy non l’ho mai sentito dire». Mi conferma così che Nagy non è uno degli esuli che, tornati con Rakosi, si dividevano i posti chiave del Pc e dello Stato in Ungheria. Avevo incontrato Nagy nel 1947, a Parigi, a capo di una delegazione parlamentare ungherese: allora presiedeva il Parlamento. Il suo eloquio differiva da quello criptico dei capi della nuova Ungheria. Nagy sapeva chi ero e rispondeva chiaramente, sinceramente, in un bel magiaro. Che cosa ci faceva uno come lui fra i comunisti? Il discorso di Nagy del 4 giugno 1953 al Parlamento di Budapest avrebbe confermato la mia diagnosi: era stata una requisitoria contro la politica del predecessore, che ne elencava serenamente gli errori criminali, e denunciava la megalomania di una pianificazione che abbassava il tenore di vita. E così via per due ore. Con eleganza, Nagy aveva impresso tono autocritico alla condanna di azioni alle quali era stato contrario. Il discorso anticipava gli eventi russi dopo la morte di Stalin: «il disgelo», per dirla con Ilya Ehrenburg. D’altronde presto s’erano visti i limiti imposti dal Cremlino all’azione di Nagy, presidente del Consiglio. Caro agli stalinisti Molotov, Zukov e Kaganovic, Rakosi restava la guida del Partito e poteva sabotare l’azione di Nagy, sbarazzandosene al momento buono. Almeno sul piano intellettuale l’azione di Nagy era però definitiva. L’apparato culturale del Pc - scrittori, giornalisti, scienziati - era stato scosso da parole e fatti di Nagy nel suo mostruoso mentire per ideologia. Una vera crisi morale. *** Gli intellettuali comunisti avevano una doppia vita: dovevano vedere la realtà, come tutti, ma volevano credere colpevoli Rajk e molti altri compagni, usati come capri espiatori. Ho assistito al crollo di un grande intellettuale, dal 1954 corrispondente da Parigi del quotidiano ufficiale, quando Nagy gli rimproverò: «Come ha potuto mentire tanto?». Pentito d’avere obbedito al suo direttore, l’intellettuale tornerà in Ungheria e diverrà nel 1955, quando Rakosi destituirà Nagy, suo devoto, per finire come lui condannato a morte nel 1958. Per capire gli eventi ungheresi del 1956, occorre tener conto della penosa conversione - da preti spretati - degli intellettuali comunisti ungheresi (e, dopo la rivolta, degli intellettuali comunisti nel mondo). «Arrestane duecento e tornerà l’ordine», diceva a Rakosi l’albanese Enver Hodja, che lo racconta nelle memorie. Ma, col nuovo corso di Mosca, Rakosi può al massimo espellerli dal Pc e inasprire la censura. Troppo tardi. Lo spirito di resistenza contagiava i comitati del Pc a Budapest e nelle città industriali, piene d’intellettuali. Le notizie da Mosca l’incoraggiavano a ribellarsi: permesso per Solgenitsin di pubblicare il libro sulla prigionia, ravvicinamento all’Ovest, evacuazione dall’Austria e relativo trattato, normalizzazione dei rapporti con la Germania Federale, già bersaglio di propaganda ostile per il riarmo «atlantico». Infine il viaggio a Canossa, cioè a Belgrado, di Krusciov e Bulganin. Inviato di France Presse, ho ascoltato il mea culpa dell’erede di Stalin per la campagna contro Tito, le sue idee, il suo Paese dopo la rottura del 1948. Krusciov, che non citava Stalin e incolpava del dissidio Beria; ma soprattutto che il Pcus ormai riconosceva «più vie al socialismo», legittimando quella jugoslava. Poco dopo il rientro a Parigi avevo saputo che Nagy, informato degli esiti dell’incontro di Belgrado, mandava al comitato centrale del Pc ungherese un memorandum ispirato dagli argomenti di Tito sulla compatibilità fra socialismo e interesse nazionale, che confutava le accuse di deviazionismo. Due anni dopo abbiamo ricevuto - come sezione ungherese dell’associazione per i diritti dell’uomo, allora da me diretta - una copia del memorandum, pubblicandolo poi, preceduto dal mio «Ritratto del presidente Imre Nagy», col titolo Un comunismo che non dimentica l’uomo. Mesi dopo l’incontro di Belgrado, nel febbraio 1956, Krusciov pronunciava il famoso lungo discorso il cui testo integrale sarà noto solo più tardi, un po’ alla volta. Conoscevo da tempo i crimini rivelati da Krusciov. La biografia di Stalin scritta da Boris Souvarine (Adelphi), dal 1929 ex dirigente bolscevico, ne indicava i principali prima della seconda guerra mondiale, specie la carestia provocata in Ucraina e la deportazione di milioni di contadini ostili alla collettivizzazione agli inizi degli anni Trenta. Ma anche altri dissidenti avevano preso carta e penna: russi come Krivitzki (Sono stato agente di Stalin, Mondadori, 1939) e l’alto funzionario Kravchenko (Ho scelto la libertà, Longanesi, 1947), ungheresi come Koestler (Buio a mezzogiorno, Mondadori, 1946; Il yogi e il commissario, Bompiani, 1947). Tale era però la potenza della propaganda sovietica che non solo milioni di membri dei Pc, ma anche molti intellettuali rifiutavano le loro testimonianze: le credevano ideate dalla Cia. La conferma dei crimini di Stalin da parte di Krusciov fu dunque folgorante per i «devoti». Dal colpo, la «fede leninista» non si solleverà più. Capi di altri Pc non perdoneranno Krusciov, anche perché alle rivelazioni seguirà lo scioglimento del Kominform, teoricamente con sede a Praga, che era stato fondato nel 1947 per coprire la gestione poliziesca e diplomatica dei Pc europei. Era un gesto del Cremlino per riconciliarsi con la Jugoslavia: del resto il Kominform avrebbe dovuto aver sede a Belgrado, ma Tito non voleva agenti sovietici nella sua capitale. Altra conseguenza della svolta era stata la revoca di Rakosi come capo del Pc, tanto attesa dal popolo ungherese, ma decisa da Krusciov. Come constata Pierre Grémion in Intelligence de l’anti-communisme. Le Congrès pour la liberté de la culture à Paris, 1950-1975 (Fayard, 1995), da allora sono divenuto l’uomo del momento fra gli intellettuali parigini come giornalista della France Presse particolarmente ben informato su Ungheria, Polonia, Jugoslavia e collaboratore di testate come Les Lettres Nouvelles (poi La Quinzaine Littéraire) di Maurice Nadeau, il Figaro littéraire, France Observateur di Claude Bourdet e Gilles Martinet (qui avevo sostituito il compagno di strada K.S. Karol), Esprit e Preuves di François Bondy, dopo aver esitato. Infatti - come coglie Grémion - diffidavo dell’atlantismo militante della rivista. Ero infatti ancora neutralista, in linea con Esprit e l’Observateur. Continua
• Uno sparo scatenò l’insurrezione, Il Giornale 8 aprile 2006 La destituzione di Rakosi dalla guida del Pc ungherese mi aveva rallegrato, ma m’era dispiaciuto che lo sostituisse un uomo e un politico peggiore, Ernö Gerö, autore di crimini nella guerra di Spagna contro la sinistra non comunista. Consideravo però effimera la sua nomina. Infatti il ruolo dell’opposizione cresceva e io ne informavo i francesi su Les Lettres nouvelles, col titolo «La Repubblica indipendente degli scrittori ungheresi». Raccontavo la sedizione al loro congresso, con la cacciata dalla direzione dei comunisti ortodossi e il rifiuto della censura. L’articolo veniva ripreso dall’organo ufficiale degli scrittori polacchi e da Tempo presente di Silone. I miei contatti a Budapest erano gli scrittori Tibor Déry, Tibor Tardos e Tamás Aczél. E Julia Rajk, vedova di Laszlo, ex capo della resistenza comunista, ex segretario del Pc, ministro, amico in gioventù, unico comunista col quale, dopo la mia rottura col Pc nel 1934, mantenessi rapporti. Combattente in Spagna, tornato in Ungheria, Rajk era sfuggito alla condanna a morte dei nazisti ungheresi; non a quella dei comunisti ungheresi. Nel 1949 fu giustiziato come complice di Tito e traditore. Era il segnale della completa bolscevizzazione dell’Ungheria, che io avevo denunciato su Esprit nel novembre 1949. Julia Rajk aveva tradotto l’articolo, distribuendolo clandestinamente negli ambienti del Pc. Nell’ottobre 1956 ottenne i funerali di Stato per il marito, presenti migliaia di persone. Nei giorni seguenti, l’Ungheria era attenta ai fatti polacchi. La repressione della manifestazione operaia a Poznan aveva provocato massicce proteste e movimenti di truppe sovietiche verso Varsavia. Così il segretario del Pc, Ochab, lasciò il posto a Gomulka, la cui nomina era reclamata da un’opinione pubblica raramente così unita. Ochab era riuscito a far accettare questa soluzione dal Cremlino. I successi degli antistalinisti in Polonia - allontanamento di Rokossovki, liberazione del cardinale Wyszinsky - fomentava l’agitazione universitaria e intellettuale anche in Ungheria. A Budapest il 23 ottobre era stata organizzata la manifestazione di solidarietà con la Polonia, autorizzata dalla polizia, con tappe alle statue del generale polacco Ben (che era nello stato maggiore dell’esercito insurrezionale nel 1848-1849), poi a quella di Petöfi, poeta nazionale della libertà, caduto sul campo nel 1849 contro le truppe dello zar, venute in aiuto all’esercito austriaco. Il 23 ottobre 1956 i giovani si dirigevano verso la piazza del Parlamento per ascoltare scrittori ai quali s’era aggiunto Nagy, fischiato per avere cominciato con un «Cari compagni». A fine pomeriggio un gruppo di manifestanti affollava ancora via Sándor, dove aveva sede la radio. Qui una delegazione pretendeva la lettura al Paese di un manifesto di rivendicazioni in dieci punti. Al rifiuto erano seguite violente proteste. Così era intervenuto Gerö, appena tornato da Belgrado, dove aveva diretto una delegazione del Pc. Gerö non era Ochab: invece di placare la folla, l’aveva provocata, mettendo in guardia dagli agenti fascisti e controrivoluzionari infiltrati fra i manifestanti, elogiando generosità e amicizia dell’Urss, annunciando la convocazione del comitato centrale per il 31 ottobre. «Il suo discorso è la goccia che fa traboccare il vaso», scrivevo. I manifestanti avevano interpretato le sue parole come un «no» alle loro aspirazioni. Uscito dalla Radio, Gerö aveva rischiato il linciaggio, ma aveva poi raggiunto la sede del Pc e convocato Nagy. Infine aveva preso decisioni infauste. Chi sparò per primo? Un manifestante esasperato dal rifiuto di diffondere il manifesto alla radio o un poliziotto minacciato dai manifestanti? In pochi minuti la manifestazione era diventata un’insurrezione armata, mentre altrove i manifestanti abbattevano la statua di Stalin. A Parigi, fra casa e redazione della France Presse, io vivevo quei giorni come in trance, commentando i fatti grazie anche all’aiuto dell’ambasciatore polacco a Parigi, Gajewski, amico di Gomulka, da poco alla testa della Polonia. Gajewski mi aiutava nella lotta che conducevo contro la propaganda comunista e quella dei «compagni di strada», ascoltando i programmi delle radio ungheresi libere e delle informazioni telefoniche di amici sul posto. Negli articoli sottolineavo gli sforzi di Nagy soprattutto dopo il 29 ottobre, quando aveva occupato l’ufficio lasciato libero da Gerö in fuga e conduceva un doppio negoziato: con i capi dei comitati insurrezionali e con gli inviati di Mosca, cercando di ristabilire l’ordine sotto un governo pluripartitico, sperando di rafforzare la corrente del Presidium sovietico favorevole a un compromesso. *** Solo ora sappiamo che - nei primi giorni del novembre 1956 - la sconfitta di Imre Nagy, posto alla testa del governo ungherese dall’insurrezione del 23 ottobre, è stata frutto della determinazione degli stalinisti al Cremlino d’opporsi alla politica di Krusciov, basata sul discorso al XX Congresso del Pcus nel febbraio 1956: continuarla avrebbe solo condotto a perdere il controllo dei Paesi satelliti. L’intervento di novembre contro l’Ungheria - comandato dal maresciallo Zukov, lo stesso che aveva preso Berlino undici anni prima - aveva dunque un duplice scopo, che all’epoca non si coglieva: oltre a rovesciare Nagy, dimostrare i danni del compromesso di Krusciov con Tito, riconoscendo il comunismo nazionale jugoslavo. Nella mia battaglia anticomunista sulla stampa, devo molto del mio parziale successo in Francia e in Italia all’ambasciatore polacco a Parigi, Gajevski. Fu lui a portarmi Komwicki, il corrispondente da Budapest del quotidiano del Pc polacco Trybuna Ludu, fino all’arrivo delle truppe sovietiche: a Parigi, il giornalista mi raccontava le sue impressioni d’Ungheria, che confermavano il mio punto di vista, cioè che Nagy non voleva l’impossibile. Al momento della decisione sovietica d’intervenire militarmente, Nagy poteva ristabilire l’ordine, imponendo gli obiettivi socialdemocratici della rivoluzione sulle sporadiche manifestazioni di nazionalismo usate come pretesto dai sovietici. In una cena a casa mia durata fino all’alba, ero riuscito - grazie alle spiegazioni di Komwicki - a convincere Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir dell’assurdità delle tesi sovietiche, echeggiate dalla stampa del «partito dello straniero», come l’aveva chiamato un de Gaulle non ancora tornato al potere. Tesi secondo le quali Mosca voleva salvare la democrazia contro la restaurazione in Ungheria del vecchio regime autoritario, se non fascista. Era un successo - Sartre faceva opinione non solo a sinistra - che ha lasciato traccia nella sua lettera pubblicata come prefazione al mio libro Ungheria 1945-1957 (Einaudi, 1957), dove il filosofo mi scriveva: «Sarebbe assurdo pretendere di presentare lei a un pubblico che già conosce la sua Storia delle democrazie popolari e che la considera l’unica opera veramente informativa su questi Paesi così vicini e, da dieci anni a questa parte, così misteriosi. Per tutti noi, che abbiamo apprezzato la sua profonda comprensione dei problemi sociali, che per merito suo abbiamo capito per la prima volta le contraddizioni economiche di quelle società nuove, vorrei dire che la sua più rara dote è l’obiettività. (...). Per un esule è difficile, quasi impossibile, restare imparziale. Ma lei ha voluto e saputo esserlo. Fra tante opere di diversa ispirazione, tutte egualmente sospette, quelle che esaltano i regimi dell’Europa orientale e quelle che li denigrano, incontrare il suo libro è stata una fortuna». Sartre avrebbe proseguito la discussione sul senso della rivoluzione ungherese col numero speciale della rivista Les Temps modernes, dedicato a scritti di scienziati, poeti e romanzieri ungheresi che esponevano la loro intenzione di sostituire al comunismo stalinista un regime socialdemocratico e liberale. Proprio in Ungheria 1945-1957 analizzavo il dramma del mio Paese al di là dell’intervento dell’esercito sovietico, che in meno d’una settimana ne aveva preso il controllo. Constatavo la responsabilità particolare nei sanguinosi eventi della direzione del Pc ungherese, specialmente di Gerö. Persa la speranza di arginare l’insurrezione con la polizia, s’era rivolto alle truppe d’occupazione russe, trasformando il movimento pacifico, originariamente diretto contro un potere screditato, in lotta armata contro l’egemonia sovietica. E l’intervento militare russo derivatone - flagrante contraddizione dell’intenzione di Krusciov d’avvicinarsi all’Occidente - voleva rovesciare il governo di Nagy. Dopo la rapida sconfitta della rivoluzione, pronosticavo che le sue aspirazioni sarebbero state realizzabili quando Nagy fosse riabilitato. successo nel 1989 e si può dire che la liberazione incruenta dell’Ungheria, grazie alla svolta di Gorbaciov, realizzasse le speranze dei «giovani combattenti per la libertà» del 1956 per l’avvenire della patria. Fine François Fejtö