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 2005  ottobre 10 Lunedì calendario

Il cacciatore di falsi

• Il cacciatore di falsi. La Repubblica 14/08/2005. Non posso vantarmi di aver conosciuto bene Pico Cellini, anche se questo si può dire di molti che chiamiamo amici. stata una di quelle scoperte tardive in cui il rammarico per avere mancato un incontro quando era nel suo momento migliore è solo in parte compensato dalla frequenza con cui poi lo sono andato a trovare nel suo studio, un seminterrato dalle parti di piazza Mazzini, a Roma. E comunque la differenza di età e la fama di essere il più straordinario cacciatore di falsi d´arte in Europa non gli impedivano di perdere una parte notevole del suo prezioso tempo a raccontare a un giovanotto, come ero in quegli anni, eccitanti storie che si erano svolte, per la maggior parte, prima o immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. Storie che non riguardavano solo i falsi, ma tutto il variegato mondo legato all´arte e all´antiquariato di pregio. Per una qualche ragione ora dimenticata gli ero stato presentato da Giuliano Briganti ed era bastato il nome riverito di Giuliano per aver la sua totale fiducia. La parte più affascinante dei suoi racconti era quando cominciava a divagare, senza che la sua memoria perdesse uno di quegli infiniti dettagli in cui riusciva a far accomodare i fatti veri e propri: dettagli tecnici di materiali, ma anche notazioni psicologiche, schizzi di ambiente, ricordi che non erano solo personali e che davano alle storie un´attendibilità molto più certa di vicende simili, narrate da altri. Per quattro o cinque mesi, due o tre volte a settimana, a partire dalla fine di una primavera di molti anni fa, di comune accordo mi facevo trovare davanti alla porta d´ingresso del seminterrato. Il pretesto era la ricerca di un soggetto cinematografico che ricostruisse la vita di un falsario senza romanzeggiare troppo e senza incorrere in troppe banalità. Sospettoso all´inizio (del soggetto, non di me), Pico era diventato un sostenitore del progetto, in cui tuttavia voleva inzeppare troppi ricordi. "Sta venendo una pignoccata" disse a un certo punto, rendendosi anche lui conto che debordavamo di storie da ogni lato. Il soggetto non l´ho mai scritto, ma ogni anno dopo la sua morte sono andato a risfogliare il blocco di Yellow Paper per tentare di ricostruire almeno qualcuno di quei racconti che allora mi sembravano magnifici. Ma solo quest´anno li ho completati e lascio ai lettori di giudicare quanto siano ancora tali... * * * Riccardi. Un giorno - era almeno una settimana che non lo vedevo - gli chiesi se conosceva i fratelli Riccardi. Al British Museum di Londra avevo visto una straordinaria mostra di falsi intitolata Fake, the art of deception e come richiamo avevano sistemato di traverso all´entrata principale una biga romana con appeso un cartellino dove c´era scritto: "Fatta dai fratelli Riccardi nel 1930". Pico non era un sentimentale, ma al nome dei Riccardi la sua pelle diventò rosea come quella di un bambino: "Quali Riccardi? Amedeo? Teodoro, che era il cugino? L´altro cugino, che forse era il migliore? Io ero fidanzato con Flora, la figlia di Amedeo che viveva a Firenze. Ero arrivato da Siena solo l´anno prima, a quattordici anni, per guadagnarmi il pane. Mio fratello era ritornato dalla guerra con la tubercolosi, il babbo si era indebitato e toccava a me fare l´infermiere, iniezioni di sodio per stuccare i buchi che aveva nei polmoni". "Quando mio fratello morì, sono partito per Firenze, avevo trovato un posto di restauratore a cinquanta lire al giorno. L´anno successivo, a quindici anni ero simpatico e frequentavo due o tre ragazzine. Una era Elsa De Giorgi, che chiamavo la contessa frittellara perché riusciva a macchiare anche la sottoveste... L´altra era Flora Riccardi, veniva da una sana, grande famiglia di falsari. Questi Riccardi avevano iniziato come orefici da fiera, specializzati in orecchini d´oro e coralli per le balie... Poi aprirono un negozio di roba a Tordinona, a Roma, accanto a un locale di balie gestito da una sensale che chiamavano la manderina". "Quando veniva qualche cliente, la manderina faceva un fischio a una di quelle ragazzone ciociare che stavano sopra le panche come a covare l´ovo e diceva: "Bella Mora, fa vedere quanta roba tieni". E quella tirava fora la zinna e faceva uno schizzo di due metri. Queste balie erano tremende, avrebbero fatto qualsiasi cosa per un paio di orecchini di corallo. Quando il padrone era in casa e la moglie non vedeva, se era un maschietto gli prendevano il piselletto in bocca per farlo diventare duro e poi dicevano: "Che bello cazzo che tien ’sto pupo, è come il padre". E naturalmente il padre era contento e gli regalava i coralli. Insomma una mercanzia complicata". "La loro carriera di falsari iniziò quasi subito. Un certo Fuschini di Acquapendente, che aveva sentito parlare della loro bravura, gli aveva portato delle mattonelle medievali spezzate, per vedere se loro erano capaci di rifare le parti mancanti. Questo Fuschini dirigeva il carcere di Acquapendente, dove qualche mese prima erano iniziati lavori di restauro. E dal pozzo prosciugato erano venute fuori migliaia e migliaia di mattonelle in frantumi, d´epoca medievale, di un tipo molto raro, a tre colori, chiamate a goccioloni. Una volta quando si rompeva un piatto, i cocci venivano lavati e gettati nel pozzo, perché si diceva che in questa maniera filtrasse meglio. E c´era anche roba più antica, le mezze maioliche con la terra sotto. Una terra gialla, che si bagnava con una terra bianca e si graffiava, motivi generalmente astratti, poi si coloravano con la ferraccia per il marrone e con la ranina dell´ossido di rame per il verde". "Si cominciò col falsificare i pezzi mancanti e poi si continuò con la falsificazione dell´intero pezzo. Il Fuschini, che io ho conosciuto, era un uomo secco secco e pieno di intraprendenza, prendeva le maioliche e le andava a vendere a Londra. Al South Kensington Museum ci sono maioliche rifatte e quelle completamente false vendute da Fuschini, che diceva al ritorno: "Sono stato a Lontre", proprio così. Di coccio in coccio passarono alla roba etrusca. Uno dei primi acquirenti fu Marshall, che allora dirigeva il Metropolitan di New York, ed era aiutato dalla sua segretaria, la Ritter. A Marshall, avevano venduto un pezzo autentico, comprato dai tombaroli della zona di Orvieto, un piccolo balsamario a forma di testa di guerriero, protocorinzio, una cosa rara. Il pezzo era piaciuto molto all´americano, che l´aveva comprato subito, e poi aveva detto: "Questi reperti sono belli, ma per un grande museo come il nostro non bastano, sono noccioline. Noi vogliamo cose grandi" e i Riccardi a sentire queste proposte gongolavano. E così fecero due guerrieri etruschi, due mammozzoni che erano un castigo di Dio". "La Ritter, che era una cretina, nel suo paper illustrativo, ha scritto che quei colossi, alti due metri e mezzo perché i Riccardi li avevano fatti grandi, li volevano imponenti, dunque che quei colossi erano un miracolo di tecnica, oltre che di arte. "Noi non saremmo in grado oggi di cuocerli alla stessa temperatura in tutti i punti", diceva. Ma i Riccardi non avevano cotto il bove intero, avevano cotto le bistecche. Non capisce? Prima avevano creato i mammozzoni prendendo come modello un bronzetto greco, poi li avevano fatti a pezzi e cotti così, come bistecche e solo dopo avevano ricostruito le statue". "Con gli anni i Riccardi si allargarono ad altri campi: forse si erano un po´ montati la testa e pensavano di poter contraffare tutto. Ma i bronzi erano la loro specialità perché erano nati orafi e nella fusione ritrovavano la loro anima di metallari. Il materiale primo se lo procuravano andando in giro la domenica mattina: come altri cercavano lumache o funghi tra le radici dei faggi dell´Amiata, loro avevano occhio solamente per rottami di bronzo o di rame, vecchie caldaie scoppiate, lamierini contorti e abbandonati negli scarichi ferroviari della Toscana. Rifacevano l´intero pezzo ritagliando le lastre delle caldaie con le sfoglie di un lamierino messe una sopra l´altra e battendole su un´anima di legno con dei martelletti di loro invenzione. Dal toc toc di quei martelletti nacque una biga intera, quella esposta al British Museum e a lungo ritenuta autentica. La stava per comprare il Museo etrusco di Valle Giulia a Roma". "Se ripenso a quegli anni felici, il pranzo la domenica con la ribollita e poco altro, posso dire che sono stato fortunato. Erano i migliori del ramo e parlavano liberamente, perché erano orgogliosi del loro mestiere e se ne vantavano. Incominciava uno a raccontare delle grattacacio di bronzo, di come fossero utili per ricostituire i pezzi mancanti dei vasi romani. E un altro chiedeva: "O tu come ha fatto a mascherare i buchi?". "Semplice, ho lasciato cadere una goccia di stagno su ogni buco e poi ho passato la patina per nascondere meglio". Sono rimasti sempre degli artigiani, non sono diventati ricchi con i falsi, e in fondo hanno solo fatto quel che il mercato chiedeva. Non avevano l´anima del truffatore ed io ho imparato tutto da loro". * * * La leccata. Nel dopoguerra, la prima esposizione in un Palazzo Venezia rinnovato e adibito alle mostre doveva mostrare i migliori pezzi di marmo provenienti dalla Grecia e Magna Grecia. A detta degli esperti, una delle opere più pregiate era una nuova acquisizione, una stele attica giudicata magnifica anche dal direttore delle Antichità e Belle Arti di allora, Bianchi Bandinelli. Ma a Pico non era piaciuta, durante l´anteprima per giornalisti e critici della mostra si era avvicinato alla stele, scoprendo una vecchia conoscenza. "Era una vecchia cosa, risaliva almeno a dieci anni prima ed era stata rifiutata persino dai tedeschi. Con il Patto d´Acciaio era diventato d´obbligo dimostrare un certo cameratismo verso gli arroganti nazi scesi a Roma a razziare quante più statue antiche possibili, da sistemare negli atri di quegli orrendi palazzi disegnati da Speer. O nei castelli di cui si era impadronito Goering, che si atteggiava a principe rinascimentale mentre non era che un lardoso criminale nazista. Questo non voleva dire che i tedeschi non pagassero. Pagarono fino all´ultima lira anche certe patacche, e per il discobolo Lancellotti il prezzo fu di un milione. Poi Siviero, quello dei servizi americani incaricato del recupero delle opere d´arte, disse che i tedeschi non avevano pagato una lira, ma non era vero. Ci fu solo una certa resistenza da parte di alcuni membri delle Antichità e Belle Arti, durata poco, perché intervenne personalmente Bottai, urlando che la scienza non bastava, ci volevano i coglioni per stare in quei posti. E così il discobolo partì per la Germania. Uno dei due o tre pezzi che rifiutarono fu proprio quella che veniva chiamata la stele attica. Un noto falsario di Roma aveva fatto rubare il coperchio di un sarcofago abbandonato per decenni lungo il Decumano Massimo negli scavi di Ostia antica, e l´aveva trasformato in un abbastanza rozzo bassorilievo". "La mostra poteva essere un´ottima occasione per riciclarlo. La stele nuova versione era più curata, più levigata della vecchia, ma non ci si poteva sbagliare: era lei e lo dissi a Bianchi Bandinelli. Ma la presentazione - il tappetino come io lo chiamo - era stata abile, si erano inventati anche un pedigree e Bianchi Bandinelli mi rispose che oramai i falsi mi avevano dato alla testa, li vedevo dappertutto. Ma questo non era il caso. Ci rimasi male, perché era un signore toscano per bene e avevano messo in mezzo anche lui. Così decisi di fare un gesto, un´azione spettacolare e memorabile, in modo che restasse il ricordo". Ma per uno strano pudore, Pico non riuscì mai a parlare con precisione di quello che era stato uno dei momenti decisivi della sua vita, a partire dal quale la sua fama dilagò incontrastata. Questa versione dei fatti è ricavata da tre testimonianze, molto simili, tra i pochi che ricordavano dopo quasi mezzo secolo: "Era difficile riconoscere Pico in quel signore piccolo e ipervestito che, davanti al ministro, si era come tuffato sotto il cordone rosso posto davanti all´opera, aveva abbrancato il marmo e tirando fuori una lingua lustra come una foca ammaestrata, dava colpi che sembravano vere e proprie leccate. Ma i carabinieri in alta uniforme erano stati così abili e lesti nell´agguantare il poveretto per la collottola facendolo sparire come avrebbe fatto un prestigiatore con cappello a cilindro e coniglio bianco, ma in sequenza al contrario". Pico riprese: "Mi portarono al commissariato e poi mi rilasciarono. Due giorni dopo ho ricevuto una telefonata di Bianchi Bandinelli: "Lei ha fatto una cosa gravissima mettendo il governo alla gogna. Io ho costituito una commissione, voglio rendermi conto in base a che cosa lei ha giudicato la stele falsa". Cercai di mantenere la calma, era un´occasione d´oro e non me la sarei fatta sfuggire. Il pomeriggio del giorno dopo alle sei in punto stavo in casa di Bianchi Bandinelli. Lui era un gentiluomo ma si lasciava anche fregare e suggestionare. Cominciai a parlare degli acidi, dati al marmo in tempi molto recenti. Il marmo all´inizio li aveva assorbiti e poi risputati in superficie dove stagnavano. Passandoci la lingua sopra non solo si sentivano, ma si poteva individuare la qualità e il tipo. I falsari li avevano certamente usati per modellare più rapidamente, ma esisteva la possibilità, remota, che fossero stati usati per ripulire la lastra". "Mi sentivo magnanimo e passai ad altre prove contro: "Il marmo del bassorilievo è del tipo fasciato chiamato marmo del Peloponneso. Ora questo tipo di marmo, mi permetto di far osservare, presenta delle fasce nere, anche grigie, che alterano la sua purezza. Lo hanno adoperato i romani nel tardo Impero, i bizantini, anche per le statue. I greci dell´epoca classica, mai. I greci cercavano l´assoluto. Scolpivano sempre nel marmo pario o nel pentelico. Se trovavano una macchia, tagliavano il pezzo e inserivano un tassello. C´era anche una ragione pratica, artigianale, in questa ricerca di biancore completo. Il fondo bianco era necessario per l´aganosis, la lucidatura di cera con cui gli artisti greci rifinivano le statue, per renderle come l´avorio e poi dipingerle. I lavori in scultura dell´epoca classica sono policromi a fondo bianco"". Venne servito il tè, poi Pico riprese: "Passiamo a un altro punto. La stele ha un timpano a forma di tetto, con due palmette scolpite ai due spigoli. Si chiamano argoteli. Nell´epoca arcaica e anche in quella classica, la presenza degli argoteli era codificata da una norma. Se si scolpiva una palmetta al vertice del tetto, in posizione centrale, si poteva fare a meno delle palmette laterali. Ma se c´erano le laterali, ci doveva essere anche obbligatoriamente quella centrale. Invece qui manca. Non c´è perché allo scalpellino è venuto a mancare il materiale. Il coperchio del sarcofago aveva dimensioni limitate e la cuspide del tetto arrivava proprio dove il tetto finiva. La superficie rimasta non era sufficiente per scolpire la palmetta centrale e lo scalpellino non se ne era accorto". Alle ultime parole di Pico un archeologo, che fino a quel momento non aveva dato segni di vita, si volse verso il restauratore e con voce quasi strozzata disse: "Ne sutor ultra...". Pico diede un´occhiata al direttore generale, che si era fatto di marmo anche lui. E poi mentre si alzava dalla tavola fingendo di essere mortalmente offeso, pronunciò con voce chiara queste parole: "Anche se non ho la laurea e nemmeno uno straccio di qualsiasi licenza media, un po´ di latino l´ho imparato e ho riconosciuto la citazione. Ho capito che cosa mi vuole dire: "Ne sutor ultra", "il ciabattino non vada avanti", è troppo ignorante. Ma se sono così ignorante perché mi avete chiamato?". L´uscita dalla casa di Pico a piccoli passi, girando intorno a tutti i mobili, una camminata che ne mimava una famosa di Totò, è rimasta per anni nella memoria di chi aveva partecipato alla riunione... Una settimana più tardi la stele venne portata via da Palazzo Venezia. Stefano Malatesta
• Il fascino discreto dei falsari. Repubblica 26/08/2005. Come molti autodidatti, Pico Cellini aveva la tendenza a trasferire in teorie l´immensa esperienza e la sua lunga pratica nel sottobosco del mercato dell´arte, che poi in Italia tanto sottobosco non era. La più sperimentata tra queste teorie che aveva assunto i connotati di una costante antropologica aveva un nome: «Il tappetino» e diceva: «Non era quasi mai la qualità del falso a spingere definitivamente il compratore all´acquisto, ma l´apparato scenico connesso alla vendita, che trasformava l´oggetto in questione in qualcosa di simile ad un mito, sia pure fasullo (ma il compratore non se ne avvedeva che era fasullo)». Stiamo parlando di anni prima della Seconda Guerra Mondiale, quando non esistevano metodi scientifici per accertare l´imbroglio o erano primitivi e non sicuri. L´expertise, un´invenzione geniale di critici e storici dell´arte per guadagnare finalmente dieci volte tanto il loro magro stipendio statale, in realtà certificavano solo se stesse e molte erano dubbie: chi non ricorda i famelici mercanti con le dichiarazioni di autenticità in tasca in attesa dietro la porta della stanza dove il grande Roberto Longhi stava giocando a poker o a un altro gioco d´azzardo? Quando aveva finito le fiches sul tavolo, l´illustre critico era capace di firmare qualsiasi cosa. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale circolavano ancora nel mondo dell´arte personaggi in via di estinzione, già visti in altre epoche, a metà tra i venditori di lozioni e i cagliostri di provincia: inventori e incantatori di attitudini così teatrali che oggi sarebbero insopportabili e provocherebbero l´effetto contrario. Ma che allora affascinavano come i guru del tipo «a me gli occhi» arrivati dal Caucaso o dall´Armenia particolarmente convincenti per tutto un settore femminile. All´epoca Pico non aveva ritrovato e restaurato il Giuditta e Oloferne di Caravaggio e La negazione di Pietro sempre del Caravaggio e non aveva sfidato l´intero corpo accademico di sovrintendenti e conservatori italiani delle Belle Arti, liquidando La Fornarina attribuita a Raffaello, come un falso evidente, mettendo alla gogna due fondioro che stavano ai Tatti, portati addirittura da B. B. cioè da Bernard Berenson. Pochi conoscevano veramente le sue capacità perché aveva una fama che non andava oltre un certo giro e Pico poteva operare con quella libertà che più tardi gli sarà difficile riavere. Tra questi falsari melodrammatici, il più dotato era un levantino: si chiamava Venizelos, come l´uomo politico greco. Era nato a Istanbul e prima di sbarcare in Italia aveva vissuto a Smirne, uno dei due o trecentomila greci discendenti da quelli ionici che abitavano le coste della Turchia da 2500 anni. Nel ´22, quando i duri fantaccini anatolici guidati da Mustafà Kemal presero d´assalto la stupenda città dell´Egeo venne salvato - diceva lui - da un intervento di San Spiridione e imbarcato su una nave inglese. Durante i quattro anni di occupazione alleata di Istanbul, da lui ricordata come il periodo più avventuroso e proficuo della sua vita, era riuscito a mettere insieme una somma non indifferente, taglieggiando gli aristocratici russi bianchi in fuga dai bolscevichi, che viaggiavano vendendo i gioielli e le icone di famiglia. Almeno questa era la leggenda che lui propalava, molto simile a decine di altre e anche molto dubbia: se tutti i gioielli in circolazione sul Bosforo fossero stati veramente di personaggi della corte dei Romanov, questi aristocratici dovevano camminare lungo i saloni del Palazzo d´Inverno piegati sotto il peso di decine di chili di collane di dubbia fattura. A Roma una vittima di Venizelos era un banchiere per bene, una specie rarissima in ogni tempo, che Pico aveva conosciuto casualmente e che cercava di difendere dagli imbrogli dei suoi due figli lazzaroni. «Questi ragazzi, già grandicelli, andavano spesso a Parì a fare lo sci sci, dicendo che uscivano con delle ragazze perbene», raccontava Pico. «Invece erano puttane, che avevano adocchiato i polli e li portavano nei locali per i pranzi "alla russa" che poi i proprietari non erano russi ma georgiani. Certi briganti con baffoni che facevano pagare ogni bicchiere di "cristallo" gettato nel caminetto. Finiti i quattrini i lazzaroni andavano dai rigattieri a comprare un "Perugino" o un "Canaletto", avendo come unica autentica quella di Venizelos. La galleria del banchiere, sistemata in una villa dalle parti della Stazioni Termini, era composta tutta di falsi. Non c´era nemmeno un dipinto autentico, avrebbe stonato. Veniva regolarmente visitato solo da altri banchieri e da uomini politici che conoscevano solo un nome, Bouguereau, il re dei pompiers. Così molti dicevano: "Bello bello, sembra Bouguereau". «Venizelos abitava vicino a Piazza della Libertà in un villino liberty in compagnia di due ragazze, lui diceva due nipoti. Una si chiamava Fifì, bruna, carnale portava i capelli come la Turandot a giri concentrici in modo da formare una torre. Si faceva chiamare contessa. Un giorno le dissi: "Contessa, sembra proprio la Turandot" e lei: "Sì perché semo orientali". Disse proprio così: "Semo orientali". Ad oriente di Frosinone. Lo zio, cioè Venizelos, aveva tra le mani una copia di Leonardo, restaurata più volte. I restauratori li conoscevo tutti e stavano sempre lì a dipingere modifiche sotto i comandi suoi: "Tiri giù, tiri su, più morbido, più sfumato". Una volta uno gli rispose: "Se sapessi fare come Leonardo mi metterei in proprio". La copia era collocata su un cavalletto coperto da una tendina in fondo a un salone. Quando il cliente entrava, se non era accompagnato dalla moglie, compariva anche Fifì adorna di veli trasparenti. Ho saputo poi che nel quartiere non la chiamavano contessa, ma "la bajadera". Girava a piedi nudi, faceva tremolare i seni sotto i veli, accendeva l´incenso, poi si accosciava per terra alla turca. Come genere eravamo tra il casino e D´Annunzio. «Verso le 4 e mezzo del pomeriggio veniva servito il tè. Era a quel punto che i clienti cominciavano a guardare le opere esposte: Susanna e i vecchioni, ratti d´Europa, ninfe e baccanti, vergini sacrificali e moltissime schiave incinte che attingevano l´acqua dalle fontane con le brocche, mostrando dei culi glorious, come dicevano gli inglesi. Se qualcuno chiedeva modeste informazioni di qualsivoglia genere alla Fifì questa mandava un trillo troppo acuto dalla gola e non diceva nulla. Venizelos comunque arrivava subito dopo, alto, bruno, con gli occhi chiari, con un viso atteggiato a sognatore che manteneva sempre fino alla fine. Sembrava un tipo capitato lì per caso e serviva a rassicurare. Poi cominciava a parlare, ininterrottamente, con un tono basso, sempre uguale, con una voce liquida come una nenia e poteva andare avanti all´infinito, non conosceva pause ed esitazioni e dopo un paio d´ore il cliente si adagiava su questa voce pronta a tutto. «Il colpo finale veniva assestato da Fifì che andava ad aprire d´improvviso la tendina del Leonardo. Chi aveva in casa un Leonardo o supposto tale o anche una copia non poteva non avere roba di pregio di casa. Il fatto che non fosse in vendita ne garantiva l´autenticità e Venizelos aggiungeva che lo aveva promesso a Goering. Il fatto curioso fu che alla fine i tedeschi comprarono realmente la Venere, attraverso la mediazione del principe d´Assia. Chi avrebbe osato dire a Goering che si era andato a scegliere un falso? Con i quattrini della vendita il greco si comprò un´abbazia abbandonata sul Canal Grande a Venezia che restaurò completamente». [***] «Il direttore del Museo cristiano del Vaticano era un uomo di straordinaria intelligenza e cultura, tedesco per metà ebreo da parte di madre ma era quella che contava in Germania durante il nazismo e così lasciò la direzione del museo di Berlino, settore medievale, e venne a Roma su invito di Papa Ratti. Era un mio grande amico, mi ero rivolto a lui per avere un parere definitivo su alcuni pezzi importanti come la croce chiamata "Il re dei confessori" sulla quale Thomas Hoving scriverà un libro che gli costò la direzione del Metropolitan. Un giorno F. il direttore del museo cristiano mi chiamò con voce disperata dicendomi che si erano fregata la croce del Sancta Sanctorum che conteneva il prepuzio del bambino, ossia il prepuzio di Gesù Cristo. «Il Sancta Sanctorum è un´ex cappella papale dell´ex palazzo pontificio del Laterano, in questo luogo sacro, per secoli, era stata custodita una reliquia medievale protetta e incapsulata da tre involucri, tre teche simili alle scatole cinesi. La prima era una scatola d´argento a forma di croce, la seconda aveva un coperchio smaltato di tipo cloisonné, la terza era gemmata con pietre dure, la maggior parte ametiste non lavorate o lavorate a ciottolo, di gusto barbarico o tardo romano. I cristiani avevano mille volte maledetto il lusso ostentato degli imperatori pagani, ma si ritrovavano ad ostentare lo stesso lusso per gli oggetti a loro più sacri. «In questa terza teca erano raccolti alcuni frammenti nella Vera Croce ridotti in polvere secondo la tradizione. Già a suo tempo Calvino aveva detto che le reliquie della Vera Croce erano così numerose che non sarebbero bastate trecento persone a trasportarle. Solo a Roma parti della Croce sulla quale era morto Gesù Cristo si trovavano a Santa Croce, a San Pietro, a San Marcello, a Santa Maria in Trastevere, a Santa Sabina, a San Paolo. Il popolino diceva che un frammento era stato murato dentro l´obelisco di San Pietro. Altri se ne trovano a Parigi nella Saint Chapelle, a Saint Germain des Prés e in altri posti compresa la camera del tesoro della regina d´Inghilterra. Ma la terza teca conteneva una reliquia ancora più rara e preziosa. Sollevando la gemma centrale di forma ovale incastonata al centro della teca si scopriva il santo prepuzio di Gesù Cristo. «La reliquia era stata rubata da un soldato dell´armata di Carlo V nel 1527, durante il sacco di Roma, recuperata miracolosamente, perduta di nuovo, ritrovata ancora e sistemata in Laterano e infine messa sottochiave nel museo cristiano del Vaticano. Una volta, in determinate occasioni, il papa apriva questa scatola e ci versava sopra un balsamo fatto di cera e profumi. Questo balsamo formava una crosta bianca sopra le gemme di tipo barbarico. E ora la scatola, reliquia preziosissima, non si trovava più. F. non si dava pace perché in termini razionali era impossibile che qualche ladro fosse venuto da fuori a rubarla. Infatti stava dentro una vetrina infrangibile fatta fare in Germania appositamente e la chiave era riposta dentro uno sportellino nello studio del conservatore. Il ladro doveva forzare lo studio, scansare un quadro dalla parete, scassinare lo sportellino, prendere la chiave, con questa andare ad aprire la vetrina e uscire fuori dal Vaticano». Diceva Pico che nemmeno Mandrake, con l´aiuto di Lotar, sarebbero riusciti in un´impresa simile. «F. pensò subito che il furto era stato progettato all´interno del Vaticano. Erano in molti a non amare le reliquie. Io non sarei così sbrigativo nell´eliminarle tutte. Se avessi avuto un nonno, sarebbe stato bello ritrovare, quando lui non ci fosse stato più, il suo bastone, la sciarpa, un paio d´occhiali. Sono cose che suscitano un ricordo vivo e alle quali uno rimane affezionato. Poi ci sono le reliquie come il fiato del bue e del somaro in due ampolle e allora non c´è neppure bisogno di commento. Per qualche misteriosa ragione le reliquie dei prepuzi sono particolarmente diffuse in Francia. Numerosi anni prima F. aveva avuto un´interessante conversazione con l´abbate di Charroux, nel Poitiers che aveva parlato di un culto non ortodosso. «Ma l´idea che fosse stato un furto pensato all´interno del Vaticano era solo un´illazione, vagamente blasfema del mio amico F. Due giorni più tardi mi fece un´altra di quelle telefonate concitate alle quali mi ero abituato negli ultimi tempi. "La vetrina è stata rimessa a posto da qualcuno. E´ impeccabile, ma senza la teca" disse. Gli chiesi se non si ricordava di aver dato lui l´ordine. "Non ho mai dato un ordine del genere" aggiunse, chiedendomi se era possibile vederci di nuovo. Questa volta lo trovai calmissimo, quasi gelido."L´ordine è venuto dall´alto credo. Non sanno che farsene di una religiosità devozionale, biascicante affidata non alla fede ma all´ignoranza delle plebi. I gesuiti del Seicento che andavano in Cina attraverso i passi himalayani, al confine con il grande impero di Mezzo furono fermati da un ordine perentorio dell´imperatore e non sarebbero mai passati in Cina con tutte quelle reliquie che si trascinavano dietro. Se volevano arrivare a Pechino dovevano prima sbarazzarsi di tutte quelle ossa infette, altrimenti in Cina non sarebbero mai entrati. Quella del prepuzio è una storia simile". Gli chiesi se a questo punto sapeva anche chi materialmente avesse fatto il colpo. "Non lo posso dire, ma le manderò un libro"». Un paio di settimane più tardi Pico trovò in portineria un vecchio libro di Mario Soldati. Si intitolava L´amico gesuita. Stefano Malatesta (2. Continua)