Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 12 Sabato calendario

Dinastie - La democrazia al tempo delle famiglie

• Dinastie. La democrazia al tempo delle famiglie. La Repubblica 8 gennaio 2008. Dopo la saga familiare dei due George senior e junior, eletti per tre volte alla Casa Bianca, l´America è stata governata per 20 anni da due soli cognomi, Bush e Clinton. Il figlio di Benazir Bhutto, Bilawal, ha accettato a 19 anni di raccogliere l´eredità della madre e promette di vendicare il suo martirio guidando il Partito popolare alle elezioni pachistane. A New Delhi Sonia Gandhi alleva il figlio Rahul come futuro leader del partito del Congresso, perché raccolga l´eredità della nonna Indira e del bisnonno Nehru, il fondatore nel 1947 dell´India moderna. Le dinastie familiari sono protagoniste della vita democratica nel XXI secolo. Le due maggiori democrazie del mondo, India e Stati Uniti, hanno in comune il ruolo di grandi famiglie capaci di occupare la scena politica per generazioni. Anche se oggi la prova del suffragio universale è decisiva per consacrare i leader, il fenomeno dinastico dà l´impressione che l´ereditarietà delle cariche non sia scomparsa con la fine delle monarchie. Ciò che può sembrare un´anomalia o un´aberrazione è un tratto distintivo di grandi paesi liberi che lascia sconcertati noi europei, pressoché immuni da questo fenomeno. Mentre infuria la corsa alla nomination dei candidati americani appare possibile che Hillary Clinton perda la corsa alla Casa Bianca forse anche per una reazione anti-dinastica. Qualora fosse eletta infatti nulla impedirebbe un suo secondo mandato, che si prolungherebbe fino al 2016: in tal caso l´America verrebbe governata per 28 anni consecutivi da due sole famiglie. Troppo è troppo? Il fenomeno dinastico prescinde dall´"incidente" del 2000, la contestatissima elezione di Bush grazie al verdetto della Corte Suprema. Se la vittoria quell´anno fosse andata ad Al Gore avremmo avuto alla Casa Bianca un altro erede di una grande famiglia che ha occupato il palcoscenico della politica americana per decenni. La dinastia dei Kennedy governò l´America solo per i fatidici mille giorni di John, assassinato nel novembre 1963, ma occupa uno spazio smisurato nell´immaginario collettivo, anche per il martirio del fratello Bob che segnò la fine del sogno della Nuova Frontiera nel 1968. La loro storia viene da lontano: l´ascesa al potere fu programmata dal padre Joseph già influente tra le due guerre mondiali. Ted Kennedy resta un leader dell´ala liberal del partito democratico anche perché gli elettori del Massachusetts (uno degli Stati più moderni e laici d´America) da generazioni mandano regolarmente a Washington un senatore che porta sempre lo stesso cognome. La storia delle dinastie riempie gli annali della politica americana dalle sue origini. La più importante resta quella dei cugini Roosevelt. Ted fu all´inizio del Novecento il fondatore di una politica estera con visioni imperiali e un coraggioso modernizzatore del capitalismo. Franklin Delano, unico presidente rieletto tre volte, salvò il paese dalla Grande Depressione e poi portò la libertà in Europa sconfiggendo il nazifascismo. Sua moglie Eleanor fu la prima First Lady con un ruolo politico importante e viene ricordata come un modello per Hillary. Non è necessariamente per continuità con il dispotismo asiatico - controverso stereotipo lanciato nel gergo politico europeo da Karl Wittfogel - che in Oriente fioriscono le dinastie politiche. Certo ci sono caricature grottesche dei satrapi antichi come Kim Jong Il, il monarca rosso che ha ereditato dal padre Kim Il Sung la feroce dittatura comunista nordcoreana. Ma il figlio della Bhutto ha accettato la pesante eredità di Benazir annunciando al mondo: «la migliore vendetta per l´assassinio di mia madre sarà la vittoria della democrazia in Pakistan». La storia si ripete. Il nonno Zulfikar Ali Bhutto, fondatore del Partito popolare, nei primi anni Settanta guidò uno dei pochi governi non militari nella storia del Pakistan. Nel 1977 fu deposto dal golpe del generale Zia ul-Haq che due anni dopo lo condannava a morte. Benazir, fresca di studi a Harvard e Oxford, visitò il padre in carcere a Rawalpindi nel 1979 poco prima della sua impiccagione, e dichiarò: «L´ho giurato davanti a lui nella sua cella di condannato a morte: continuerò la sua opera». Nei seguaci della dinastia Bhutto prevale l´ammirazione per l´eroismo di questi leader, per il loro senso del dovere e disprezzo del pericolo, l´abnegazione agli ideali della democrazia, il sacrificio della vita per costruire un Pakistan laico e moderno. Più scettico, l´osservatore occidentale si chiede quanto entrino in gioco la sete di potere, la logica della vendetta, la mentalità feudale di clan che considerano il governo del paese come una proprietà privata. La dimensione della tragedia sembra inseparabile dall´alone di leggenda che circonda le dinastie: i Gandhi come i Kennedy e i Bhutto sono entrati nella storia per aver versato più volte un tributo di sangue. Indira, prima donna alla guida di un governo nella storia delle democrazie moderne, venne assassinata nel 1984. Suo figlio Rajiv (anche lui premier) fece la stessa fine e sembrava che la moglie di origine italiana volesse sottrarre la prole al martirio: invece alla fine Sonia ha ceduto, il senso del destino e la vocazione familiare hanno avuto il sopravvento, il figlio Rahul ha fatto il suo debutto nella politica indiana. Non bisogna credere però che il potere sia garantito agli eredi. Il consenso popolare se lo devono conquistare. Indira Gandhi fu abbandonata dalla maggioranza dei suoi concittadini quando nel 1975 impose una svolta autoritaria e proclamò lo stato di emergenza sospendendo alcune libertà costituzionali: due anni dopo gli elettori la cacciarono all´opposizione. Il nipote non ha vita facile, il suo esordio nella recente campagna elettorale è stato passato ai raggi X da una stampa indiana severa e impietosa nel sorvegliare i suoi primi passi. Dal fenomeno dinastico non è immune l´altra grande democrazia asiatica, in Estremo Oriente. Il penultimo premier giapponese, Abe, era il discendente di una casata aristocratica che è ai vertici della politica da oltre un secolo, nipote di un leader che fu ministro nella seconda guerra mondiale. Il premier attuale, Fukuda, discende dal ministro degli Esteri che firmò per primo la pace con la Cina 30 anni fa. Se si ricorda che il fenomeno delle mogli in politica ha dei precedenti importanti in Argentina, bisogna concludere che solo l´Europa è refrattaria alle dinastie. Scorrendo gli organigrammi dei governi a Londra, Berlino, Parigi e Roma non c´è traccia dei cognomi di Churchill, Thatcher, Adenauer, Brandt, De Gaulle, Pompidou, Mitterrand, De Gasperi, Moro e Fanfani. Il fenomeno dei figli d´arte che l´Europa conosce in tanti altri campi, dal cinema al giornalismo, sull´arena politica è marginale. Non per questo siamo necessariamente più maturi e meno feudali. La Russia di Putin è più europea che asiatica per l´assenza di dinastie, ma è assai meno democratica dell´India. Conflitti d´interessi, mancanza di ricambio del ceto politico, corruzione e clientelismo hanno afflitto l´Italia senza bisogno che gli stessi cognomi si tramandino Palazzo Chigi. Il fascino delle dinastie non può essere liquidato in maniera sbrigativa. Come dimostrano in contesti tanto diversi i casi dei Kennedy e dei Bhutto, per centinaia di milioni di persone un cognome può diventare un simbolo potente, il deposito di ideali nobili. La democrazia non nasce in un vuoto pneumatico, eredita un contesto storico di valori, un tessuto di legami sociali, rapporti di fedeltà e lealtà, senso dell´autorità: tutto questo bagaglio pesa nel momento in cui l´elettore sceglie di delegare la sua rappresentanza. Il popolo è sovrano anche nella scelta di eleggere un moderno sovrano. FEDERICO RAMPINI
• Dinastie. QUEI RAGAZZI AMERICANI CHIUSI TRA BUSH E CLINTON. La Repubblica 8 gennaio 2008. «Le dinastie in politica sono figlie della nostalgia per il passato, della immediata riconoscibilità di un nome e di un volto, di una rete di rapporti già pronta e della maggiore facilità a raccogliere soldi». Evan Cornog insegna Storia della Rivoluzione Americana a Columbia University e dirige la rivista della scuola di giornalismo, ha una grande passione per la politica, nata quando faceva il portavoce del sindaco di New York Ed Koch, che lo ha portato a scrivere due volumi sulla storia delle elezioni presidenziali americane. «Oggi - sottolinea - l´ipotesi di un ritorno dei Clinton alla Casa Bianca è qualcosa che inquieta, soprattutto visto con gli occhi dei miei giovani studenti». Che cosa dicono i suoi studenti? «Quest´autunno, all´inizio del corso sulla rivoluzione americana, mentre stavamo discutendo del pamphlet Common Sense che Tom Paine scrisse nel gennaio del 1776 alla vigilia della Rivoluzione, nella mia classe è scoppiata una discussione sulle elezioni presidenziali». Che cosa l´ha scatenata? «Common Sense è un testo che ebbe un´importanza fondamentale nel cambiare il punto di vista degli americani nei confronti della monarchia. Fino ad allora tra la gente, anche tra chi guidava la protesta, c´era un grande rispetto per il re, poi arrivò Paine e cominciò a prenderlo in giro. Improvvisamente venne messa in discussione l´idea della monarchia e delle dinastie e questo provocò molto dibattito e molte preoccupazioni sulla nozione di leadership, su quali fossero i suoi caratteri fondanti. Emerse che la leadership post monarchica doveva distinguersi per essere indipendente e per non favorire nessuno, questo segnò i primi cinquant´anni della democrazia americana che fu ideologicamente profondamente scettica sulla possibilità che si creassero dinastie politiche. Eravamo a questo punto del corso, quando uno degli studenti mi ha detto: "Ma noi non abbiamo mai visto nella nostra vita un presidente che non si chiamasse Bush o Clinton, dov´è finito lo scetticismo verso le dinastie?"». E lei come ha reagito? «Mi sono reso conto che nella vita di un ventenne di oggi ci sono stati alla Casa Bianca solo due cognomi e più tardi ne ho parlato con i ragazzi del master di giornalismo, che sono più grandi, ma anche loro hanno memoria diretta solo dei Bush e di Clinton e, attenzione, sto parlando di studenti sofisticati e preparati. Poi hanno cominciato a discutere pensando che se vincesse Hillary allora la situazione continuerebbe oltre i loro trent´anni. Mi hanno chiesto di capire e di discuterne». E come ha spiegato loro questo fenomeno? «Certamente è un tema potente di riflessione, che scatena molte domande e paragoni storici. Sono partito da lì, perché la storia americana non è comunque nuova alle dinastie, basti pensare al secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams, che governò fino al 1801, ma che 24 anni dopo fece a tempo a vedere suo figlio John Quincy Adams diventare il sesto presidente; oppure a William Henry Harrison, presidente per un solo mese per colpa della polmonite presa proprio il giorno dell´inaugurazione del suo mandato, e a suo nipote Benjamin che fu presidente alla fine dell´Ottocento. Certo stiamo parlando di qualcosa di diverso, non siamo di fronte ad un´alternanza così ravvicinata come quella che si è vista in questi anni e che si avrebbe se Hillary Clinton fosse eletta alla Casa Bianca». Poi ci sono stati i Kennedy «Un´altra dinastia americana che continua ancora oggi. Il caso di Bob però non creò nessun tipo di dibattito di quel tipo, perché appariva come la continuazione di qualcosa che era stato prematuramente interrotto». Come è possibile spiegare il passaggio di potere di padre in figlio in una democrazia? «I caratteri che spiegano le dinastie politiche mi sembrano simili a quelli che giustificano le dinastie di attori: celebrità, riconoscibilità del nome, familiarità, nostalgia, a cui in politica va aggiunta la maggiore facilità con cui si possono racccogliere soldi». E´ anche il caso di Hillary Clinton. «Bisogna però riconoscere che con Hillary siamo di fronte ad una donna con una grande preparazione, con una complessità di pensiero e un notevole bagaglio personale che non dipende totalmente dal marito. Più difficile spiegarsi come George W, Bush sia diventato presidente, non ha le abilità politiche della Clinton e nel suo caso ha pesato maggiormente la cerchia di potere del padre. Basti pensare alla quantità di soldi che piovve sulla sua campagna alla fine del 1999 e che chiuse la partita nel campo repubblicano». Vede un pericolo, non pensa che anche se le regole e i caratteri formali della democrazia sono rispettati, la sostanza sia messa in crisi? «No, onestamente no. Non penso che ci sia stato un cambiamento della nostra democrazia, mi sembra che i caratteri fondamentali siano rispettati, a partire dal fatto che la gente va alle urne a votare e lo fa in modo libero e trasparente. Nel caso attuale, anche osservando cosa sta accadendo in questi giorni si potrebbe anzi dire che il tema dinastico stia creando problemi a Hillary Clinton, la lega al passato, riduce le sue possibilità e schiaccia le sue capacità». Nessun pericolo allora? «Il pericolo è nei soldi, ma è un discorso che va al di là delle dinastie, visto che in questo caso Barack Obama ha raccolto tanti finanziamenti quanti la Clinton. E´ qualcosa che parla di condizionamenti dei poteri economici sulla politica. Il processo della raccolta dei fondi non è sano, ma è talmente potente che va ben al di là delle dinamiche padri-figli o mariti e mogli». In questa campagna il tema dei padri illustri è molto presente. «Sì, ci siamo dimenticati di segnalare che il padre di Mitt Romney, il candidato mormone repubblicano, era stato governatore del Michigan e anche lui in corsa per la Casa Bianca nel 1968. C´è poi il caso di John McCain che è il prodotto di una dinastia militare, ma qui entriamo in una sfera diversa che ci parla di tradizioni e di appartenenze che si tramandano nelle famiglie e che investono tutti i campi, ben al di là della politica». MARIO CALABRESI
• Dinastie. QUANTO ARCAICA L´IDEA CHE IL POTERE SI EREDITI. La Repubblica 8 gennaio 2008.  all´opera, nel termine "dinastia", l´idea arcaica che il potere si trasmetta tramite il sangue, attraverso lignaggi selezionati; e che del potere il sangue sia testimonianza e garanzia. La purezza del sangue del potente era la fonte della sua legittimità: la certezza della paternità, la linearità dell´ascendenza e la disponibilità di una discendenza, sono all´origine di infinite lotte, rivendicazioni, sostituzioni in culla, riconoscimenti e disconoscimenti. L´apparentarsi del potente è regolato dalla necessità di conservare la purezza del sangue, di evitarne corruzione o contaminazione; vantare una paternità regale è così importante che ogni re si dichiara figlio di re. E quando, nel solenne risalire di padre in padre, la linea dinastica si interrompe, come fatalmente avviene, nel punto cieco della successione appare dal cielo una divinità che, unita carnalmente o misticamente a un mortale, sta all´origine della dinastia e del suo sangue regale. Al principio di sacralità e di politicità del sangue si sovrappone anche un momento patrimonialistico: il potere è un bene di famiglia, è un comando su proprietà - terra, cose, animali, persone - e segue la linea dell´eredità. Che il potere si erediti dimostra che la famiglia non è solo la cellula base della società, ma lo è anche della politica. Il pensiero politico moderno è nemico di queste narrazioni. La politica non è un affare di famiglia, il potere non è un bene prezioso e sacro che si trasmette col sangue, la cosa pubblica non è proprietà del monarca. Anzi, la sfera politica è composta da uguali; il potere legittimo è costruito e non tramandato, è artificiale e non naturale, impersonale e non dinastico, si giustifica grazie alla ragione e non alla tradizione del sangue, ha i caratteri di temporaneità che ineriscono a un mandato elettivo e non quelli di perennità implicati dal principio dinastico; e la famiglia ha a che fare con la dimensione privata dell´uomo e non con quella pubblica, fondata sull´universale cittadinanza. Locke demolisce, nel Primo trattato sul governo, la tesi legittimistica di Robert Filmer, che voleva i sovrani della terra discendenti di Adamo, e il potere trasmesso per via patriarcale; e la Rivoluzione francese fa cadere le teste del re e della sua famiglia insieme a quelle delle statue dei loro antenati. Così, mentre si formano, nella società moderna, le nuove dinastie che esercitano il potere economico e che nello stile di vita a volte imitano le forme del potere gentilizio, in linea di principio lo Stato continentale europeo e la democrazia che si forma al suo interno (con una parziale eccezione, quindi, per l´Inghilterra che col potere dinastico della casa reale e dei lord è venuta a patti), non ha spazio per il potere familiare. Dove la monarchia permane, essa non detiene più il potere sovrano e diviene titolare di compiti inerenti la rappresentazione simbolica della politica, resta oggetto di vaghe affettività pre-politiche, o fornisce materia di gossip per i rotocalchi. Il familismo in politica fa scandalo, tanto nello Stato quanto nei partiti: la trasmissione dinastica fa pensare alla corruzione del potere, non alla sua purezza. Tutto ciò subisce però molte eccezioni, in contesti molto diversi fra loro. Negli Stati Uniti, ad esempio, il pregiudizio antiaristocratico che pervade la nazione fino dalla sua nascita non ha impedito che, in una società forte e in tumultuoso sviluppo, si formassero dinastie magnatizie - la più celebre è quella dei Rockefeller - e che alcune di queste (i Roosevelt, i Kennedy, i Bush sono solo alcuni esempi, universalmente noti) diventassero vere dinastie politiche. Il che desta sentimenti ambigui, fra un moderato allarme per la tenuta dei princìpi democratici e un moderato compiacimento per questa ulteriore analogia fra l´Impero americano e Roma antica. In Paesi dalla democrazia più o meno imperfetta, un tempo soggetti al dominio inglese, come ad esempio in India e in Pakistan, si constata il grande potere che - in una società ancora prevalentemente organizzata intorno alla famiglia allargata - clan e dinastie familiari esercitano nei partiti e nelle istituzioni. In altri casi, invece, l´affermarsi temporaneo di dinastie politiche deriva da situazioni di crisi dello Stato, risolte con un ricorso a una legittimità carismatico-autoritaria, o populistica, che cerca di perpetuarsi in una discendenza o di legittimarsi con una ascendenza: lo si vede in Napoleone che colloca i familiari su molti troni d´Europa e che fonda un Impero per sé e il proprio figlio, e in Napoleone III che si fa forte del nome del suo grande zio; in Mussolini che individua il proprio successore nel genero Ciano, e in Isabelita che cerca di governare in quanto vedova di Perón. Invece, le dinastie politiche dell´Italia repubblicana (i casi Segni, La Malfa, Craxi, e altri) non hanno una rilevanza tale da potere essere accomunate a queste tipologie, e a queste patologie, e sono semmai da ricondurre a residui di notabilato. Un´affermazione del principio dinastico, soprattutto nelle democrazie europee, potrebbe significare il consolidarsi dei privilegi sociali, lo stabilizzarsi del potere intorno a nuove oligarchie, su base familiare. Eppure, un ritorno dell´arcaico, del potere che passa attraverso il sangue, potrebbe avere successo popolare: il principio dinastico potrebbe soddisfare esigenze profonde di stabilità e di sicurezza, di continuità e di riconoscibilità del potere, di identificazione in una politica dal volto umano. L´esigenza, insomma, che - senza che vengano lesi alcuni basilari principi democratici - alla piattezza della democrazia e all´impersonalità del suo potere si sostituiscano gli elementi di leggenda, di saga, di epica solennità, che il potere dinastico porta con sé. E senza dubbio una deriva oligarchica unita a un´ulteriore spettacolarizzazione della politica, in un contesto formale di democrazia, sarebbero gli ingredienti per una Dynasty piuttosto inquietante. CARLO GALLI