Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 novembre 2016
Il Rapporto Censis 2007
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La Repubblica 8/12/2007.
ALBERTO STATERA
Foto impietosa.UN´OFFERTA politica «taroccata» che cala su un paese afflosciato in una «poltiglia di massa», in una «mucillagine sociale», una «paccottiglia di coriandoli» senza orientamento collettivo.
Quasi una nuova malattia dell´anima che ha colpito il paese. Si sa, Giuseppe De Rita è sempre stato lessicalmente immaginifico, ma quest´anno nel quarantunesimo rapporto del Censis, ogni parola, ogni immagine, ogni neologismo concorre a dipingere un´antropologica inclinazione al peggio proprio dell´uomo che era stato il cantore della «molecolarità» come forza di sviluppo economico, imprenditoriale, civile.
Non è solo una «botta di malumore», come De Rita la definisce lamentando gli acciacchi della sua schiena, ma «la conoscenza del peggio», come la chiama Manlio Sgalambro, fino a giungere alla conclusione che «l´intera società civile non è meglio della sua politica né della sua economia». Ciò che da tempo sospettavamo, ma che il Censis aveva sempre addolcito rifiutandosi all´innamoramento per il «declinismo» dell´intero paese.
La vulnerabilità delle famiglie, la litigiosità patologica (non più: «papà non mi hai capito», ma «papà sei uno stupido»), lo sballo dei giovani, il bullismo, la scuola che non insegna e il dileggio degli insegnanti; la scorrettezza dilagante in tutti i campi, dall´economia agli ospedali, fatta di astuzie, illegalità, connivenze, in un paese ormai troppo indulgente con sé stesso; la criminalità organizzata, con cui vive a braccetto il 77 per cento della popolazione di quattro regioni meridionali e il 22 per cento dell´intera popolazione italiana; la volgarità della politica giunta ormai al «vaffanculo». Ecco la fotografia di un corpaccione psicologicamente debole, ormai antropologicamente incapace di «fare tessuto sociale», con un´esclusiva vocazione all´impulso, non più alle passioni.
Il Censis della «nuvola nera» che ci sovrasta alla fine dell´anno «di disgrazia» 2007 documenta con i numeri interpretati da Giuseppe Roma l´umor nero di De Rita.
Quattrocentomila famiglie in difficoltà, 100 mila insolventi, l´occupazione che aumenta, ma non i salari, lasciando a casa le donne, con un tasso di occupazione femminile che ci pone al ventisettesimo posto in Europa, dopo la Grecia; i laureati che vanno all´estero, 12 mila in un anno: prima era la fuga dei cervelli, adesso semplicemente la fuga; i pendolari che aumentano di milioni e maledicono le strade intasate e il trasporto pubblico da terzo mondo. E la politica che raccoglie la sfiducia – ed è dir poco – dell´85,9 per cento degli italiani.
Qualcuno crede forse veramente nelle nuove formazioni nascenti, il Pd di Veltroni, il Pdl di Berlusconi, la Cosa Bianca, la Cosa Rossa? No, perché l´offerta politica taroccata «ruota nella banalità» e perché è improbabile riproporsi come chi vuole impostare un processo complessivo: da una parte il vecchio schema cattocomunista, dall´altra il populismo deteriore, il populismo di piazza alla Chavez. Ma così – vaticina De Rita – il popolo non lo prendi perché, parafrasando la psicanalista viennese Melanie Klein, si può dire che è in corso un´inversione del processo di simbolizzazione, una «de-sublimazione» dei grandi riferimenti simbolici: la patria diventa interesse collettivo più che identità nazionale; la religione religiosità individuale; la libertà imperfetto possesso di sé; il popolo moltitudine di massa; la famiglia contenitore di soggettività a moralità multiple; la ragione «petit raison»; il lavoro un optional rispetto all´arricchimento facile; l´etica e la cultura un fastidio. Nella povertà psicologica, la gente aspira soltanto alla «presenza», al momento glorioso della «piece».
Ma non c´è proprio nulla che si salva in questa vischiosità mucillaginosa sotto la nuvola nera del Censis 2007? Sì, c´è. C´è il «silenzioso boom» della «minoranza industriale»: cresce l´export manifatturiero, il fatturato delle imprese, la salute dei conti aziendali, cresce il Pil, cresce l´economia reale e l´orgoglio imprenditoriale rispetto alla politica e anche alla finanza. Ma questa minoranza industriale forte – eppur lamentosa – non riesce ad essere trainante a far «percolare», a far filtrare lo sviluppo nel sistema, innescando diffuse energie collettive nella poltiglia di massa.
E´ vero che i big players si sono mossi verso clamorose concentrazioni: nel solo sistema bancario la quota di mercato detenuta dai primi cinque gruppi, con l´incorporazione di Capitalia da parte di Unicredit e con l´acquisizione dell´Antonveneta dal Monte dei Paschi, è passata in un anno dal 45 al 53 per cento, come è capitato nel sistema assicurativo, dove la quota dei primi cinque gruppi nel ramo danni è cresciuta dal 68 al 73 per cento.
Ma De Rita si chiede se il processo di concentrazione del potere, che è in corso anche tra i big players industriali con le acquisizioni dell´Eni e dell´Enel, ha effetti positivi sul segmento finale del circuito economico, cioè le famiglie. Perché l´impressione è invece che sia soltanto un risiko tra grandi gruppi, roba tra Profumo e Passera, tra Conti e Scaroni, che per ora non ha portato recuperi di efficienza nel sistema bancario, né in quello energetico. D´altra parte, Moretti Polegato e Della Valle sono bravissimi, con Geox e Tod´s producono bene le scarpe, esportano, fanno un sacco di soldi, come tanti altri loro colleghi in tanti settori, ma non sanno farsi minoranza trainante.
Cos´è quello di De Rita, un invito a Luca Cordero di Montezemolo a fondare la sua «Cosa» politica, di fronte alla banalità dei progetti di nuovi partiti a destra e a sinistra? Troppo semplice. Tanto più – aggiunge – che «le minoranze ci salveranno se non vorranno diventare maggioranze».
Antico cantore dei «coriandoli», De Rita invoca piuttosto tante minoranze vitali come quella imprenditoriale, una loro moltiplicazione per affrontare quel «monstrum alchemicum» che il benessere piccolo borghese ha creato e che ci rende poco vitali, impotenti, come di fronte a una generale entropia della società. E a supporto della sua idea di minoranze cita Leopardi del 1924: in Italia non c´è e non ci sarà vera civiltà perché non abbiamo «coscienza stretta».
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Il Sole 24 Ore 8 dicembre 2007.
Rossella Bocciarelli
L’Italia non è in declino ma resta ingessata. La ripresa c’è, il boom silenzioso continua, il Paese non declina. Ma, intanto, sembra essersi giocato l’anima e la società pare quasi ridotta a poltiglia.
«C’è il debito pubblico a pesare come un macigno non solo sui conti, ma anche sulla libertà psicologica dei cittadini, i quali sanno di pagare ogni anno interessi per decine di miliardi di euro, sottratti alla loro voglia di fare», afferma il Rapporto Censis.
E per la prima volta, in più di quarant’anni di istantanee del costume degli italiani, il rapporto, invece di elogiare soprattutto l’effervescenza e la vitalità della società civile, non nasconde affatto la delusione e la preoccupazione per la crisi dei valori, al termine di un anno nel quale, come osserva Giuseppe De Rita nell’introduzione, «non ci è stato risparmiato niente» con evidente riferimento anche all’overdosedi cronaca nera e di racconti gotici trasmessi a ciclo continuo dai tg negli ultimi mesi.
Così nella società italiana del 2007 c’è una minoranza, ben collegata al resto del mondo e in grado di giocare il gioco della globalizzazione, che è vitale e fautrice di una ripresa «ormai da tempo provata da un’apprezzabile crescita degli indici di fatturato industriale e del terziario e dalla crescita sostenuta delle esportazioni». Inoltre, il Rapporto mette in evidenza l’emergere di nuovi protagonisti nell’industria e nella finanza, come i famosi "big players" del credito nati dalle fusioni bancarie.
Dall’altro lato della società, però, c’è una maggioranza che spesso e volentieri dà il peggio di sé, compresi gli aspetti di degenerazione antropologica (la violenza in famiglia, l’aggressività come modalità quotidiana d’espressione). Compreso il dato di fatto, sul quale sembra scesa una sorta di fatale rassegnazione, che il 22% della popolazione si trova a vivere in Comuni nei quali è rilevante il fenomeno della criminalità organizzata. «In ogni settore – afferma il Rapporto – è tutto un tessere di astuzie, piccole illegalità, convivenze. Salvo poi, con l’esercizio antico di una doppia morale, scandalizzarsi per furberie più altisonanti. Perché l’Italia continua a essere un Paese troppo indulgente con se stesso». Insomma, si rischia l’inerzia, la perdita di vitalità, perché poco di quella cultura innovativa delle minoranze filtra verso la società di massa. Che, nel frattempo, si arrangia come può.
Consumatori selettivi e low cost
Dato il persistente ristagno del reddito disponibile, ad esempio, la gente cambia modello di consumi. Ormai c’è poca voglia di consumare sempre e comunque qualunque cosa venga proposta; anche se, ricorda il Censis, gli italiani, prendendo l’onda dei prezzi rapidamente decrescenti, sono stati tempestivi nel massificare consumi innovativi: le apparecchiature e i servizi per la telefonia sono cresciuti di quasi il 50% in termini reali nel periodo 2001-2006 e l’86,4% della popolazione italiana ne possiede; una percentuale che si è molto avvicinata a quella di chi possiede un televisore (92,1). Nei primi tre mesi del 2007, 5 milioni di utenti hanno speso oltre 91 milioni di euro per comprare musica, giochi e videoclip scaricati direttamente sul cellulare.
Del resto pur all’interno di uno stile molto più selettivo i consumi hanno ripreso a crescere: +1,6% nel 2006 e +2% nel 2000. Però il potere d’acquisto dei salari è quello che è. E allora vai con la vita low cost: si comprano i mobili all’Ikea, ci si assicura online, si vola Ryanair, ci si veste all’outlet e così via.
Le spine del lavoro
Quanto al lavoro, si sa, è più flessibile che nel passato, anche se il tasso di flessibilità di quello giovanile continua in Italia ad attestarsi ancora al di sotto della media europea. «Quella che invece appare come un’insopportabile eccezione del caso italiano – osserva il Rapporto – è che i giovani costituiscano, anche grazie al carattere prevalentemente temporaneo dell’occupazione, una quota estremamente significativa nei flussi di uscita dal mercato».
L’anno scorso infatti su 902mila lavoratori, che si sono trovati senza occupazione perché l’hanno persa o perché si sono ritirati dal mercato del lavoro, più di 346mila erano persone con meno di 34 anni (38,4%) e il 22,2% dai 35 ai 44 anni. Ma attenzione, sottolineano gli esperti: non sono gli aspetti di flessibilità del lavoro a incidere sulla precarietà (oltretutto la flessibilità non è sempre subita: anzi, il 30% di chi ha un lavoro a termine non vuole la stabilizzazione). Quello che conta, ai fini della precarietà, è la qualità del lavoro, cioè l’assenza di opportunità occupazionali qualificate, all’altezza della maggiore formazione che i giovani di oggi hanno rispetto ai loro padri.
Italia ciao
Il risultato è che chi può, di fronte a tutte le difficoltà e alla scarsa mobilità sociale che oggi caratterizzano il Sistema Italia, sceglie di intraprendere il proprio percorso di studio e di lavoro al di fuori dei confini patri. «La sensazione che emerge – dicono gli esperti – è che flussi sempre più consistenti di italiani si stiano ormai indirizzando e riorganizzano le proprie strategie di sviluppo di business e di investimento all’estero». Nel 2006 erano iscritti in facoltà estere 38.690 studenti.
Non basta: nel 2006 erano 12mila il laureati che lavoravano all’estero e e gli italiani che hanno trasferito la propria residenza in altre nazioni sono arrivati a quota 75.230 (di questi, il 42% ha meno di 34 anni). Le nuove generazioni, insomma, emigrano: spesso infatti lo studio all’estero è l’inizio di un percorso esistenziale e professionale lontano dall’Italia.
Come cambia il Paese
Di fronte alla crisi economica, le famiglie si rivolgono al low cost e trovano nuove strategie per i consumi. Privilegiano il credito al consumo (che è aumentato del 78% dal 2000 al 2006) ma non per la spesa quotidiana, piuttosto per l’acquisto della macchina o per il viaggio all’estero. Al supermercato si scelgono marche non note, si privilegia la grande distribuzione rispetto al negozio sotto casa. Gli acquisti, le assicurazioni, si fanno sempre di più online. Anche i biglietti aerei si cercano su internet e si confrontano le offerte più convenienti
60%
GLI ITALIANI A BASSO CONSUMO
Sono più della metà gli italiani che utilizzano o utilizzerebbero i servizi o i beni low cost. Non solo i voli aerei, ma anche prodotti a basso costo, sotto marca, privilegiando gli acquisti nella grande distribuzione
Occupazione e flessibilità
Più flessibilità. Cresce il numero degli accessi al lavoro (+1,5% tra il 2004 e il 2006) con un boom tra i giovani (+6,7% tra coloro che hanno tra i 25 e i 34 anni) e nella fascia dei 35-44enni (+7,3%) mentre faticano i giovanissimi (-3,6%) tra i 15 e i 24 anni. Maggiore, rispetto al passato, il ricorso ai contratti a progetto passati dal 7,3% del 2004 all’8,7% del 2006. Negli ultimi due anni si è registrato un aumento dei lavoratori a termine
75.230
GLI ITALIANI EMIGRATI ALL’ESTERO
Il numero di studenti e lavoratori emigrati è aumentato del 15,5% rispetto all’anno precedente. Un fenomeno di neo-migrazione trasversale che è destinato a crescere
La corsa multimediale
Il telefonino verso il sorpasso della tv. Il numero di telefonini continua a crescere e incalza ormai quello delle tv presenti nelle case. Quest’anno l’indice di penetrazione dei cellulari ha raggiunto quota 86,4%, a un passo da quello della tv che si attesta al 92,1 per cento. I telespettatori però crescono rispetto al 2006 (dal 94,4% al 96,4% della popolazione) e guadagnano peso digitale e satellite. Gli utenti Internet sono il 45,3% della popolazione (l’85% dispone di connessione a banda larga
53%
ATTITUDINE ALLA LETTURA
I lettori abituali, quanti hanno letto almeno tre libri nel corso dell’anno, sono passati dal 39,4 al 52,9 per cento. E il 59,4% di italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno. A favorire il fenomeno le promozioni editoriali e le vendite abbinate di libri e giornali
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IL SOLE 24 ORE 08/12/2007
Franco Locatelli
Minoranze attive oltre le suggestioni. Poltiglia di massa e mucillagine. Questo è diventata per il Censis la società italiana di oggi e questo spiega perché la rassegnazione e il peggiorismo sociale finiscano per annebbiare il boom silenzioso che l’economia sta vivendo e che talvolta viene erroneamente scambiato per un declino che non c’è. Bisogna proprio riconoscere che Giuseppe De Rita è stato di parola perché, come aveva anticipato egli stesso nella sua lettera al Club dell’Economia pubblicata dal Sole-24 Ore di giovedì scorso, non c’è nulla di più antideritiano della impietosa critica alle tendenze prevalenti nella società italiana («Non frequento più il termine di società civile») che affiorano dal 41° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese che, come succede sempre ai primi di dicembre, è stato presentato ieri all’opinione pubblica.
Forse l’Italia non se ne rende conto perché la crisi dei salari e dei consumi fa certamente più impressione del rilancio dei big player o della nascita di nuovi protagonisti dell’economia ma la ripresa è in corso da mesi. Sfortunatamente però, insieme alla ripresa, c’è anche una schizofrenia che frena la società italiana e che impedisce alla ripresa stessa, dovuta alla determinazione di una minoranza industriale virtuosa, di trasformarsi in sviluppo di lungo periodo e di coinvolgere l’intero sistema sociale. Al dinamismo di un’élite si contrappone l’inerzia della stragrande maggioranza degli italiani. Non per caso la sensazione più diffusa è che «dovunque si giri lo sguardo si fa esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcol come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi». Non c’è limite al peggio e tra economia e società o tra economia e politica c’è un abisso. Le ragioni di questo degradante dicotomia sono tante e il rapporto del Censis le esplora con il consueto acume. Ma ciò che più interessa è capire se e come si possa uscire dalla palude in cui s’è infilata la società italiana.
De Rita è convinto che anche la più dinamica e vitale minoranza industriale non riesca a trainare tutti e che lo stato attuale della politica non lasci molte speranze e non possa darci quel grande «collettore collettivo» di cui il Paese avrebbe bisogno per uscire dallo stallo. Secondo il fondatore e presidente del Censis né il Partito democratico né il Partito della libertà riusciranno a trascinare le masse e a diventare veri e propri partiti popolari perché tendono ad aggregare una dimensione di popolo che non trova riscontro nella società. Vuol dire, allora, che dobbiamo prepararci al peggio e che non c’è nessuna speranza di recupero? No, per De Rita la speranza di rilancio del Paese può venire solo dalle nuove minoranze attive. Da quelle che fanno ricerca scientifica e innovazione tecnica a quelle che, sulla scia dell’élite industriale, studiano e lavorano all’estero, dalle minoranze che vivono in realtà locali ad alta qualità della vita a quelle che hanno stabilito un rapporto positivo con l’immigrazione o che fanno esperienze religiose attente alla persona e allo sviluppo o, infine, alle tante minoranze che hanno scelto l’appartenenza a gruppi, movimenti, associazioni come «forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita». Saranno loro ad avviare nuovi processi sociali di lenta ma profonda maturazione che possano aprire le porte alla rinascita del Paese? Il Censis si dice convinto che in questo momento abbiamo bisogno di «coscienza stretta», cioè di culture capaci di incidere sull’inerzia della maggioranza, piuttosto che della «opinione larga» di piazze e arene, anche mediatiche, di cui è fatta la politica.
L’analisi dell’impasse della società italiana è convincente e l’enfasi posta sulle minoranze attive è suggestiva, ma il dubbio è lecito. Dare fiducia a una politica spesso lontana e autoreferenziale com’è quella di oggi è certamente ardimentoso, ma pensare che le minoranze sociali attive siano non soltanto necessarie, come in effetti è, ma anche sufficienti ad avviare la rigenerazione del Paese è anch’essa un’ipotesi audace. Come è successo e succede in altri Paesi dell’Occidente, anche la politica può riformarsi o essere riformata. L’importante è sapere da dove partire e non sbagliare direzione.
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IL SOLE 24 ORE 08/12/2007
Carlo Carboni
Se il ceto medio cede al cinismo. Giuseppe De Rita ha esteso ieri alla società il tono critico adottato dal dibattito in corso sulle classi dirigenti italiane. Non tanto per aderire alle nota tesi della "società complice", che costituirebbe poco meno di una mezza giustificazione, dato che lascia intatta la responsabilità dei ritardi di sistema alla classe dirigente che è al timone: anzi, "dare l’esempio" è indispensabile per creare emulazione e nuova vitalità sociale. Piuttosto De Rita, abbandonate le sue tradizionali ipotesi di autonomia (positiva) del sociale, ci riporta all’amara realtà dualistica del sociale, come cantava De Gregori vent’anni fa: l’Italia "metà galera" e da dimenticare e quella "metà giardino", spesso dimenticata e mai adeguatamente premiata.
Il presidente del Censis con amarezza ha messo in evidenza le degenerazioni antropologiche del nostro tessuto sociale raffigurato come una "poltiglia di massa" con un collante sociale di bassa lega, che in parte ricorda la "società liquida" di Bauman. Ha fatto bene, perché esiste una società cinica, che è il prodotto "scomposto" del declino della società di massa di ceto medio. un’Italia in cui alberga l’individualismo amorale, per cui lo spazio pubblico è visto in funzione di un riconoscimento o di un mero vantaggio individuale. l’Italia in cerca di scorciatoie e che rifà il verso ai furbetti del quartierino. L’Italia che si copre nelle protezioni clientelari e quella che narcotizza le sue aspettative nei comodi automatismi garantiti, scolastici e di carriera. L’Italia che non rispetta le regole approfittando delle lungaggini bizantine della nostra giustizia e l’Italia dei tifosi ultrà e dell’evasione fiscale diffusa. E poi, purtroppo, c’è anche l’Italia che, con cementificazioni abusive, sfigura per sempre la natura che la ospita, l’Italia che vede crescere la violenza contro le donne e la famiglia, l’Italia che alimenta organizzazioni criminose e mafiose antistato.
quindi inevitabile sottolineare criticamente l’aspetto indolente, cinico e persino torbido del nostro tessuto sociale, mettendo a nudo i suoi aspetti avariati, come è accaduto nel recente dibattito sulle nostre élite e, in particolare, sulla cosiddetta "casta" politica, che, immersa nel bipolarismo televisivo tra destra e sinistra, si è distratta dal vuoto pneumatico che andava crescendo nel rapporto con il Paese: un vuoto a rischio di antipolitica. Un vuoto prodotto dai gravi ritardi del Paese dei quali la società cinica e magmatica è corresponsabile.
De Rita ha citato alcuni di questi ritardi, come la mancata manutenzione del nostro sistema di istruzione e formazione, la compressione degli investimenti fissi lordi delle pubbliche amministrazioni, le infrastrutture programmate e mai portate a termine. Certo una società orientata al cinismo individualistico stona con quello spirito di squadra che ci vorrebbe per il Sistema Paese. Dunque, tutto buio?
De Rita, a questo punto, ci propone l’Italia che si distingue per le sue "minoranze vitali", motori di un boom silenzioso che ha caratterizzato la recente ripresa economica, mostrando di essere approdato a una visione dualistica della nostra società. Dal declino e dalla frammentazione della società di massa di ceto medio, emerge non solo una società cinica, pigra per aspettative sociali, immersa spesso nell’individualismo amorale prigioniero delle trappole iperconsumiste, ma anche una società composta di minoranze che fungono da motore dell’Italia che va: dai nostri medi imprenditori a personalità ed eccellenze nel campo della cultura e della ricerca. Aggiungerei che queste minoranze vitali hanno la loro radice in un’Italia civica che sta crescendo e che ha un grado di istruzione superiore e di informazione che gli consente di sviluppare senso di responsabilità, dei propri diritti e dei propri doveri.
l’Italia in cui cresce, e non diminuisce, l’interesse per la politica e per il Sistema Paese. Sarei un pochino più ottimista (o meno pessimista) di De Rita. Sta crescendo quella parte di società che è pronta ad accompagnare un processo di modernizzazione del Paese. Lo attestano non solo la diffusione del "boom silenzioso", ma anche il rinverdito interesse per la politica degli italiani, anche in chiave critica: sono segni di solidità della nostra democrazia e che fanno ben sperare.
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LA STAMPA 08/12/2007
RAFFAELLO MASCI
Tre italiani su quattro considerano il reddito «inadeguato» Boom dei debiti. ROMA. «Dopo tanti anni - ha ammesso Giuseppe De Rita - questa volta non ce la faccio a parlare bene della società italiana». Giunto al 41° Rapporto sulla situazione sociale del paese, anche il Censis si arrende ed è costretto a rilevare che quella che una volta definiva «natura molecolare del paese», fatta di tante piccole realtà attive sta evolvendo in «poltiglia», in «mucillagine»: in qualcosa di putrido, legato ad una sorta di inerzia indotta dalla delusione. Due i macrofenomeni che gravano sulla vita del paese: l’Italia delle famiglie che ha visto ridursi brutalmente il potere di acquisto dei redditi, e che quindi si barcamena tra sconti, low cost e impennate delle spese energetiche. E la «degenerazione antropologica», per cui siamo sempre di più il paese dei furbi, dell’illegalità spicciola ed endemica. Un quadro tetro, perfino troppo, secondo alcuni. Tuttavia, dice il centro Studi, permane una rete di «minoranze» che danno speranza al Paese: medie aziende che puntano su prodotti di nicchia (il lusso, per esempio) e big player della finanza che sanno ancora osare.
A basso costo
Le famiglie, specie nelle grandi città, non ce la fanno più. Tre italiani su quattro considerano «inadeguato» il proprio reddito (il 74% del totale) mentre il 36% dichiara di «essere a rischio povertà». L’abitare sta diventando proibitivo. Negli ultimi dieci anni gli affitti sono aumentati nelle grandi città del 122%, ma anche nei piccoli centri sono a più 103%. L’incidenza delle spese per la casa sui consumi complessivi è passata dal 20,6% al 26% ma, se si aggiungono i salassi delle bollette e i combustibili, si arriva al 31%. Per fare fronte alla spesa si è dilatato il credito al consumo - sono più di mezzo milione le famiglie che faticano a onorare i debiti e ci si industria con i low cost, i 3x2 e i saldi.
Dopo la flessibilità
La flessibilità, rileva il Censis, è servita «a trainare la crescita occupazionale». Dei quasi 1 milione 900 mila lavoratori che hanno trovato un’occupazione nel corso del 2006, il 38,2% ha un contratto a termine (nel 2004 erano il 32,3%), l’8,7% un contratto a progetto o occasionale (nel 2004 erano il 7,3%) e solo il 36,1% un contratto a tempo indeterminato (nel 2004 erano il 40%)». Però, dopo una serie di contratti precari spesso i giovani si trovano senza niente in mano: il 38% di chi è espulso dal mondo del lavoro ha meno di 34 anni. Un altro 22% è tra i 35 e i 44 anni».
Lo svacco educativo
«I ragazzi in famiglia sostituiscono al ”papà non mi hai capito” direttamente il ”sei uno stupido”». «Gli stadi «diventano luogo catartico dell’aggressività sociale». I ragazzi sono abbandonati acriticamente ad una televisione che fornisce a iosa «fiction seriali sempre più violente». Dopo tutte le campagne salutiste, il 75% dei minorenni fuma (il tabacco solo nei casi migliori). Non pagare l’autobus è considerato «normale» dal 50% dei teenagers. Il 73% degli studenti delle superiori non ha voglia di studiare. Senza dire che «chiediamo raccomandazioni, evadiamo il fisco e la scorrettezza viene percepita quasi come una risposta fisiologica e sana: e allora, in ogni settore, dall’economia ai media, dalla medicina all’università, è tutto un tessere di astuzie, piccole illegalità, connivenze». «I comuni del Sud in cui sono presenti sodalizi criminali sono 610 su 1.608»: il 37% del Meridione è ai limiti della legalità.
Via di qua
In questo contesto chi può se ne va. Nel 2006 38.690 studenti si sono iscritti in facoltà straniere. 16.400 hanno partecipato a programmi di mobilità studentesca (tipo Erasmus). Il sogno di questi studenti - ha rilevato Il Censis - è quello di non tornare più indietro, tant’è che lo scorso anno 11.700 laureati (pari al 3,9% del totale) hanno trovato un lavoro all’estero. E un discorso analogo vale per il mondo produttivo: oltre 17 mila sono le aziende straniere partecipate da imprese italiane, per un volume di addetti pari a 1 milione e 120 mila lavoratori. 233 mila aziende intrattengono rapporti commerciali con l’estero. Nel 2006, inoltre, il numero di italiani che hanno trasferito la loro residenza all’estero è aumentato del 15,7% rispetto all’anno precedente e del 52,3% rispetto al 2002, toccando quota 75.230. Il rischio serio, sottolinea il Censis, è che ad emigrare sia la parte più preparata e dinamica della popolazione.
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CORRIERE DELLA SERA 08/12/2007
Alessandra Arachi
Crescono debiti e sfiducia: il Paese è una «poltiglia». Corriere della Sera 8 dicembre 2007. ROMA – Ancora una volta: veniamo dopo Grecia, Ungheria, Romania, Polonia, Croazia. In due parole: siamo gli ultimi. Nella classifica del lavoro delle donne l’Italia è il fanalino di coda dell’Europa. E poco importa che fra il 2000 e il 2006 siano stati creati un milione di posti di lavoro delle donne: il tasso di attività è cresciuto di meno del 2%, arrivando a quel 50,8% che ci mette in fondo alla classifica del nostro continente.
Ce lo racconta il Censis, nel suo ultimo rapporto annuale (il quarantunesimo) presentato ieri mattina. Quasi settecento pagine di tabelle, numeri e considerazioni: l’istituto sociale non ha dubbi, il nostro Paese è una «poltiglia di massa» dove parole come «popolo» o «cultura» non hanno più alcun valore, dove impazzano i telefonini, le famiglie faticano ad arrivare con i soldi alla fine del mese. E le donne rimangono ancora al palo.
PROFONDO SUD
Lavorano poco le donne in Italia. Meno che in tutta Europa. Il tasso di inattività ha picchi negativi soprattutto nel Sud e fra le giovani (dai 25 ai 34 anni): è cresciuto di oltre 2 punti percentuali, arrivando al 52,2%.
Non lavorano le donne perché non ce la fanno con i tempi e non hanno servizi pubblici: quasi il 75%, infatti, andrebbe a lavorare se avesse il part time e il 69,7% vorrebbe un orario flessibile, mentre quasi il 55% (54,8%) lamenta una mancanza di asili nido o di servizi per gli anziani.
LA FATICA DELLE RATE
Le rate. Ovvero: il credito a consumo. Un giro di soldi che in quattro anni è aumentato del 78%, arrivando al 85,6 miliardi di euro. Oggi in Italia è usato nell’economia domestica di 8,4 milioni di famiglie (circa il 35% del totale). E sono circa 530 mila di queste famiglie che ammettono di far fatica a pagarle queste rate. Oltre 140 mila (143 mila, per la precisione) sono invece quelle che di queste rate non ne hanno pagata nemmeno una.
SFIDUCIA POLITICA
Sono implacabili gli italiani intervistati dal Censis: oltre otto su dieci (l’85,9%) non si fidano dei politici. Meglio: non si fidano di nessun politico. E quando vanno a votare, il leader del Paese lo scelgono per esclusione o necessità, non per altro. infatti soltanto il 13,7% che ha dichiarato al Censis di aver scelto un leader perché lo riteneva il più adatto a guidare il Paese (era il 19,1% nel 2001). In fondo il punto è molto semplice: il 76,1% degli italiani è convinto che nei Palazzi «nessuno si occupa di ciò che accade agli altri».
PI LIBRI
la prima volta che succede: aumentano gli italiani che leggono i libri: dal 55,3% del 2006 al 59,4% del 2007. Sono le donne che fanno alzare i picchi di vendita: la percentuale di lettrici è passata dal 53,1 al 61, contro lo scarso aumento dello 0,2% dei lettori maschi. Ma c’è di più: non solo aumentano i lettori di libri in generale. Sono i cosiddetti lettori abituali (ovvero quelli che leggono più di tre libri l’anno) che affollano le librerie: sono passati dal 39,4% del 2006 al 52,9% del 2007. Con un picco fra le persone anziane (ovvero sopra i 65 anni), passate dal 25,7% al 47,4%.
ON LINE E IN LINEA
Quasi 9 italiani su 10 hanno in tasca un cellulare (l’86,4% per la precisione). E il Censis non fa a meno di farci notare che il prezioso apparecchietto ha quasi raggiunto l’invasività della tv nel nostro Paese (ferma stabile sopra il 90% da molti anni, ormai). Ma c’è un’altro boom che l’istituto sociale ci fa rilevare nel suo ultimo rapporto: internet. Un’impennata di utenti che nell’ultimo anno ha fatto superare il 10%. Ed è così che si contano oggi il 45,3% di utenti internet, il 68,3% dei quali è costituito da giovani di età compresa tra i 14 e i 29 anni.
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Le considerazioni generali.
Per uscire dall’attuale stato di ”poltiglia” sociale dobbiamo puntare sulle tante minoranze attive nell’economia, nella società e nelle scienze.
In continuità con gli ultimi anni il Censis conferma una sequenza positiva di lungo periodo (dal rifiuto dell’ipotesi del declino, alla patrimonializzazione, dall’individuazione di schegge di vitalità economica fino al piccolo silenzioso boom descritto lo scorso anno).
Oggi si può confermare una visione positiva: sia perché cresce nelle imprese la qualità delle strategie competitive (di nicchia, di offerta sul mercato del lusso, di lavoro su commessa, ecc.); sia perché si va allargando la base territoriale dello sviluppo; sia perché abbiamo finalmente anche noi dopo decenni alcuni importanti big-players. Ed è una visione positiva che sembra poter superare anche le turbolenze finanziarie addensatesi negli ultimi mesi.
Tuttavia, le dinamiche di sviluppo in atto restano dinamiche di minoranza, che non filtrano verso gli strati più ampi della società. Lo sviluppo non filtra sia perché non diventa processo sociale, sia perché la società sembra adagiarsi in un’inerzia diffusa, una specie di antropologia senza storia, senza chiamata al futuro. Una realtà sociale che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa. Una realtà sociale che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio. Settore per settore nulla quest’anno ci è stato risparmiato: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. Viviamo insomma una disarmante esperienza del peggio.
Tanto che, quasi quasi al termine poltiglia di massa si potrebbe (con eleganza minore) sostituire il termine più impressivo di ”mucillagine”, quasi un insieme inconcludente di ”elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega.
Pertanto in una società così inconcludente appare difficile attendersi l’emergere di una qualsivoglia capacità o ripresa di sviluppo di massa, di ”sviluppo di popolo” come si diceva una volta; e le offerte innovative possono venire solo dalle nuove minoranze attive, ovvero:
- la minoranza che fa ricerca scientifica e innovazione tecnica è orientata all’avventura dell’uomo e alla sua potenzialità biologica;
- la minoranza che, nella scia della minoranza industriale oggi rampante, fa avventura personale e sviluppo delle relazioni internazionali (si pensi ai giovani che studiano o lavorano all’estero, ai professionisti orientati ad esplorare nuovi mercati, agli operatori turistici di ogni tipo, ecc.);
- la minoranza che ha compiuto un’opzione comunitaria, cioè ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;
- la minoranza che vive il rapporto con l’immigrazione come un rapporto capace di evolvere in termini di integrazione e coesione sociale;
- la minoranza che si ostina a credere in una esperienza religio-sa insieme attenta alla persona e alla complessità dello sviluppo ai vari livelli;
- e le tante minoranze che hanno scelto l’appartenenza a strutture collettive (gruppi, movimenti, associazioni, sindacati, ecc.) come forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita.
Si tratta senz’altro di una sfida faticosa, che le citate diverse minoranze dovranno verosimilmente gestire da sole. Ma sfida desiderabile, per continuare a crescere forse anche con un po’ di divertimento; sfida realistica, perché non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di mettersi nel solco di modernità che pervade tutti i Paesi avanzati.
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La società italiana al 2007.
Di meno, ma meglio: la revisione strategica dei consumi familiari. Budget risicati, consumi in lieve crescita, rialzo delle spese per la casa e, allo stesso tempo, boom di prodotti e modalità di acquisto innova-tive: è questa l’essenza della revisione strategica dei budget familiari che fa convivere tutela del tenore di vita e accesso a nuovi beni, auto-percezione della propria vulnerabilità socioeconomica e persistente caccia a beni e servizi di qualità. I redditi reali familiari crescono in misura ridotta (+0,5% tasso annuo) e per il prossimo biennio saranno di poco superiori all’1%. Cresce l’incidenza sui consumi delle spese per l’abitazione passate, nel periodo 1996-2006, dal 20,6% al 26%, attestandosi al 31% se vi si includono le spese per energia e combustibile. 2,4 milioni di famiglie hanno un mutuo a carico che comporta un esborso medio annuo di 5,5 mila euro pari a circa il 14% della propria spesa. Per oltre 622 mila famiglie con una spesa media mensile fino a 2 mila euro il peso del mutuo sale a quasi il 27% della propria spesa totale e per i single giovani al 19,2%. Il ricorso al credito al consumo è passato da 48 miliardi circa di euro del 2002 a oltre 85,6 miliardi di euro del 2006, con un incre-mento del +78%. Tuttavia le famiglie insolventi sono solo l’1,7%, e quelle che hanno dichiarato difficoltà nel far fronte alle rate il 6,3%. Il 58% delle famiglie effettua regolarmente acquisti nei mer-cati rionali, il 60% presso gli hard-discount che hanno aumentato il loro fatturato globale del 45%. E’ il 66% delle famiglie con figli a cambiare punto vendita cercando di massi-mizzare le offerte. Il 37% degli italiani associa il low cost a tutte le fasce di popolazione, mentre è il 21% a ritenerlo appannaggio delle sole famiglie a basso reddito; il 60% degli italiani ha dichiarato che ha uti-lizzato o utilizzerebbe il low cost.
La flessibilità fa crescere il lavoro, ma dopo? Dei quasi 1 milione 900 mila lavoratori che hanno trovato un’occupazione, il 38,2% ha un contratto a termine, l’8,7% un contratto di lavoro a progetto o occasionale e il 36,1% un contratto a tempo indeterminato. Tra gli under 35 si registre la più elevata incidenza di contratti atipici. I giovani infatti rappresentano la parte decisamente maggioritaria - il 58,2% - del lavoro atipico in Italia. Ma nel 2006, su 902 mila lavoratori che si sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono ritirati dal lavoro, più di 346 mila erano persone con meno di 34 anni (il 38,4%) e il 22,2% persone dai 35 ai 44 anni.
Riorganizzarsi anche all’estero. 38.690 studenti italiani si sono iscritti in facoltà universitarie straniere, in prevalenza tedesche (il 19,9%), austriache (16,1%), inglesi (13,7%), svizzere (11,6%), francesi (10,4%) e statunitensi (8,8%); e sono stati più di 11 mila e 700 (vale a dire il 3,9% del totale) i laureati che ad un anno dal conseguimento del diploma hanno trovato lavoro all’estero; il numero delle imprese estere partecipate da aziende italiane è arrivato a quota 17.200, per un volume di addetti pari a oltre 1milione 120 mila lavoratori. Sono stati circa 13.368 gli italiani ad elevata qualificazione che si sono spostati, temporaneamente, dall’Italia agli Stati Uniti: di questi, 6.179 (+51,6% tra 1998 e 2006) sono lavoratori altamente specializzati, 5.692 (+51,7%) sono quadri o dirigenti di imprese internazionali, e infine 1.497 (+166,8%) sono in possesso del visto O1, concesso esclusivamente a lavoratori con ”straordinarie capacità o risultati”.
Il ruolo crescente dei global player. Le quote italiane del Pil e dell’export mon-diali appaiono in flessione, ridotte rispettivamente al 2,7% e al 3,4% nel 2006. Ma non si può tralasciare che si tratta di fette più piccole di una torta (la produzione mondiale, l’export globale di prodotti e servi-zi) che nel frattempo si è allargata enormemente. Se oggi il rapporto dell’Italia con la prima potenza economica (gli Stati Uniti) è di 1 a 7, nel 2050 il rapporto con la maggiore potenza mon-diale (la Cina) sarà prevedibilmente di 1 a 21. Il downgrading riguar-da naturalmente tutte le economie occidentali. Ma, le proiezioni al 2050 assegnano alla nostra economia, dall’attuale settimo posto, ancora la decima posizione nel mondo, mentre Spagna e Canada escono dalla top 10.
L’ascesa delle imprese competitive. Le imprese dell’industria in senso stretto con più di 20 addetti sono appena il 7,1% del totale, dunque, una netta minoranza numerica, ma nei fatti capa-ce di sviluppare una forza propulsiva determinante poiché tale nume-ro ridotto di aziende (non più di 37.000 unità) genera quasi l’80% del fatturato industriale ed il 75% del valore aggiunto.
La potenza delle concentrazioni finanziarie. Tra le prime 10 operazioni di fusione e acquisizione realizzate nel 2007, 5 riguardano le banche ed una in particolare, quella della incorporazione di Capitalia in Unicredit, raggiunge un valore estremamente elevato, superiore a 21 miliardi di euro. La quota di attivi-tà realizzate dai primi cinque gruppi bancari italiani è passata dal 45% dello scorso anno all’attuale 53,5%. La quota di mercato del 37% che nel 2006 era distribuita fra quattro dif-ferenti gruppi oggi è realizzata da due soli operatori.
La forza pervasiva della criminalità organizzata. I comuni del Sud in cui sono presenti sodalizi criminali sono 406 su 1.608. Complessivamente 610 comuni in Italia hanno un indicatore manifesto della presenza di criminalità organizzata (clan mafioso o bene confi-scato o scioglimento negli ultimi tre anni). Si tratta di 13 milioni circa di individui su di un totale di 16.874.969, vale a dire il 77,2% del totale della popolazione residente nelle quattro regioni a rischio e circa il 22% della popolazione italiana. In queste stesse aree viene prodotto il 15,1% del Pil nazionale e si registra il 13,2% dei depositi bancari e il 7,1% degli impieghi.
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I processi formativi
I giovani, in accordo con le famiglie, per oltre il 90% dei casi scelgono dopo la terza media un percorso di istruzione secondaria di II grado. La progressione negli studi, a prescindere dal come essa si realizzi (scuola o formazione professionale), costituisce oramai un valore introiettato da giovani e famiglie. necessario rafforzare l’azione dei servizi di orientamento con particolare riferimento al sottosistema della formazione professionale. Sono gli stessi giovani che nel 57,7% dei casi ritengono troppo generiche, se non inesistenti (15,4%), le attività di orientamento erogate in uscita dalle scuole medie, a cui fanno eco i genitori che per il 51,4% reputano insufficienti le informazioni sui corsi dell’istruzione-formazione professionale. La mancanza di consapevolezza può provocare disagio ed insofferenza verso lo studio. Ad un elevato accordo sulla complessiva funzione educativa della scuola si contrappongono opinioni altrettanto condivise dagli stessi giovani sulla scarsa attrattività dei percorsi scolastici perché noiosi e poco attraenti (6,2) o di cui viene sottolineata la sostanziale obbligatorietà (6,3).
In soli cinque anni, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana nelle aule del nostro sistema scolastico è più che raddoppiata: erano 239.808 nell’anno scolastico 2002-03 e nel 2006-07 hanno superato le 500.000 unità. Gli insegnanti da parte loro segnalano, con frequenza analoga per le scuole elementari e per le scuole medie, soprattutto l’esigenza di poter contare su un maggiore supporto da parte di soggetti esterni alla scuola, nell’ordine: esperti e mediatori culturali (83,5%) e istituzioni locali e nazionali (80%). Il 78,4% dei docenti, e soprattutto quelli della scuola primaria, ritiene molto o abbastanza problematiche le difficoltà di comunicazione e di comprensione della lingua italiana da parte degli alunni di origine immigrata; il 77,9% degli stessi segnala la difficoltà di conciliare l’età anagrafica dei ragazzi giunti in età scolare e le conoscenze da loro effettivamente possedute. Tale problema è particolarmente incidente a livello di scuola secondaria di I grado.
In ambito europeo l’Italia registra il più basso grado di accordo (34%) circa l’eventualità che i laureati triennali possano trovare un lavoro in linea con il titolo posseduto (valore medio Ue 27: 49%) ed il più alto consenso (61%) circa l’opportunità che gli stessi laureati frequentino un master programme a completamento del primo ciclo di studi universitari (media Ue 27: 46%). Non stupisce allora che studenti e famiglie siano proiettati verso gli studi universitari post-triennali. In Italia l’offerta dei master è ancora relativamente recente e presenta un elevato tasso di turnover dei corsi offerti (oltre il 30% è rappresentato da new entries). L’analisi dei servizi offerti dai master sembra indicare una sostanziale soddisfazione delle aspettative in termini di qualità/prezzo. Sussiste un rapporto di proporzionalità diretta tra i costi di iscrizione e la gamma di servizi offerti. Il 66,1% dei master con prezzo compreso tra i 5.400 e i 10.000 euro e il 65,6% di quelli che costano oltre 10.000 euro si caratterizzano per un’elevata offerta di servizi di supporto alla didattica. Il 63% di chi ha partecipato ad un master ritiene di averne tratto vantaggio (di questi il 71% ha trovato lavoro dopo ed il restante 29%, già occupato, ha migliorato livello di retribuzione, posizioni contrattuale e professionale).
Oggi, in Italia, gli studenti universitari fuori sede sono oltre 350.000. Questo fenomeno ha una rilevanza economica di non poco conto. La distribuzione degli studenti fuori sede disegna un’Italia nella quale i flussi ”del sapere” sono tutti orientati nella direttrice Sud verso Nord. Per alcune regioni il saldo entrati meno usciti è fortemente positivo (Emilia, Lazio, Toscana, Lombardia) per altre in profondo rosso (Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Se la spesa media mensile di un fuori sede - tasse, alloggi, vitto, tempo libero, mobilità - è stimabile in circa 1.100 euro al mese, ciò si traduce per una regione come l’Emilia Romagna, in entrate annue di circa 800 milioni di euro, per il Lazio di circa 730 milioni e, al contrario, in uscite di circa 500 milioni di euro per la Puglia e circa 400 per la Calabria. La somma complessivamente spesa dalle famiglie italiane ogni anno per lo studio fuori regione è quantificabile in 3,5-3,7 miliardi di euro, ovvero nel complesso doppia rispetto a quanto speso per il pagamento delle tasse universitarie per l’intera popolazione studentesca universitaria.
Per i giovani europei, e gli italiani in particolare, l’Unione Europea rappresenta soprattutto uno spazio dove è ampia la possibilità di viaggiare, lavorare e studiare. Si esprime in tal senso l’89,9% dei cittadini europei di età compresa tra i 15 ed i 30 anni e la stessa percentuale sale al 92,4% tra i coetanei italiani. Per la quasi totalità dei giovani italiani (96,6%), ”essere cittadino dell’Unione europea” significa in primo luogo essere nelle condizioni di poter di studiare in uno qualunque degli Stati membri. Le previsioni per il futuro sono rosee: i giovani europei (91,6%) e ancora di più gli italiani (92,3%) sono convinti che da qui a 10 anni sarà più facile seguire traiettorie di mobilità sul territorio comunitario e che saranno maggiori le opportunità di lavoro rispetto a quelle attuali nei rispettivi paesi di residenza (77,2% e 72,8%, rispettivamente).
Dei 347 miliardi di euro che l’Unione Europea mette a disposizione per le politiche di coesione, l’Italia si è ”assicurata”, un finanziamento comunitario per la programmazione regionale pari a 28,8 miliardi di euro, di cui 22,1 miliardi finanziati con il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e 6,7 miliardi con il Fondo sociale europeo (Fse) e pari al 27% del totale delle risorse comunitarie.
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Lavoro, professionalità, rappresentanze
Il bilancio dell’anno è caratterizzato da un rallentamento nella capacità del mercato di produrre posti di lavoro, con un protagonismo meno evidente del lavoro a termine e probabilmente con un rallentamento, più evidente, dell’accesso di stranieri nel gioco degli scambi economici. Di conseguenza, l’occupazione mantiene un andamento positivo con valori che tendono a ridursi: la variazione degli occupati nel II trimestre 2006 su quello del 2005 era pari al 2,4%; la stessa variazione relativa al secondo trimestre 2007 sullo stesso periodo del 2005 è stata dello 0,5%.
In presenza di un problematico ritmo di crescita dell’occupazione si è osservata, al tempo stesso, la riscoperta delle competenze qualificate, soprattutto di tipo tecnico. Tra il 2004 e il 2006, dei 584 mila nuovi posti creati, il 90% hanno interessato profili tecnici intermedi, il cui incremento è stato quattro volte superiore a quello registrato per l’occupazione nel suo complesso. Nell’altalena dei profili professionali richiesti sono saliti i tecnici dell’amministrazione e dell’organizzazione (+12,3%), i tecnici dei servizi sociali (+22,3%) e i tecnici del settore ingegneristico (+11,9%).
Si conferma anche per quest’anno la riduzione del lavoro autonomo, che tende ad essere assorbito nell’occupazione dipendente, producendo, in particolare, un effetto di perdita di autonomia a carico di quella quota di lavoro indipendente che coincide con il lavoro intellettuale.
Ciò che invece non cambia è la condizione delle donne nel mercato del lavoro, rispetto alla quale si potrebbe dire che c’è ancora molto da fare. Nonostante tra il 2000 e il 2006 si siano creati più di un milione di nuovi posti di lavoro per le donne, pari un incremento del 12,5% complessivo, il tasso di attività femminile non è cresciuto come ci si poteva attendere, passando dal 48,5% del 2000 al 50,8% del 2006.
Sul piano delle relazioni di lavoro, l’anno è stato segnato dall’accordo sul welfare, stipulato nel luglio 2007 e trasferito sul piano normativo nel mese di novembre. L’esito complessivo del processo di approvazione dell’accordo ha dato ragione all’investimento che i sindacati hanno fatto sul piano della concertazione politica, che aveva bisogno di portare a casa anche un successo concreto; serviva, infatti, codificare in qualche modo la sua mobilitazione per il rafforzamento della democrazia rappresentativa, che da queste circostanze esce sicuramente più forte. Nel futuro a breve, non sarà possibile, almeno a parità di equilibrio politico formale, che i sindacati siano collocati solo all’interno di uno schema di ”dialogo” sociale: e questo fa bene al paese e può far bene al lavoro, specialmente se acquisito come metodo e allargato alle tante componenti associative – anche legate al lavoro indipendente - che operano nel sistema produttivo.
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Il sistema di welfare.
La salute diseguale. Nel mutevole assetto dell’offerta sanitaria è importante capire quali siano i livelli di performance e di benessere garantiti alla popolazione, nella loro diversa articolazione territoriale. Il quadro che emerge evidenzia un gradiente negativo Nord-Sud con un tendenziale peggioramento della situazione della salute dei cittadini residenti man mano che si procede verso le regioni meridionali, nonostante la struttura per età della popolazione, che determina un peggioramento degli indici di morbosità e mortalità all’aumentare del tasso di invecchiamento, tendenzialmente più elevato al Nord e al Centro. Si tratta di un peggioramento ampiamente legato al diverso contesto socioeconomico, mentre il quadro dell’offerta, storicamente più deficitario al Sud, non riesce a mitigare gli effetti penalizzanti di tali differenze di partenza.
I progressi nella governance condivisa della Sanità regionalizzata. Nel processo di evoluzione del Ssn, la fase attuale si caratterizza in modo netto come un momento di riformulazione e di rilancio delle funzioni del livello centrale, che prevedono però una costante concertazione con i livelli locali, in una rinnovata vocazione alla trasversalità e alla condivisione delle responsabilità. Tra gli interventi maggiormente significativi che si collocano appieno in questa direttrice di lavoro emergono il Patto per la Salute, che rinnova il modello di gestione economica e finanziaria dei servizi sanitari, e il SIVeAS, strumento del Ministero per la verifica che ai finanziamenti erogati corrispondano i servizi per i cittadini, e che questi ultimi rispondano a criteri di efficienza e appropriatezza.
La relazione medico paziente: un’area di trasformazione e di crisi. Gli italiani, in virtù di una più elevata scolarizzazione e della sempre maggiore diffusione di conoscenze sanitarie mettono sempre più frequentemente in discussione la secolare asimmetria di rapporto con il loro medico. La ridefinizione dei termini del rapporto ha prodotto un clima di incertezza e crisi: è il 97% degli italiani, primi in Europa, a ritenere che gli errori medici rappresentino un problema molto o abbastanza importante nel Paese, sintomatico di un disagio fondamentalmente culturale laddove si osserva che l’esperienza, diretta o indiretta, di malpractice non risulta più alta in Italia che nel resto dell’Europa a 25 (è il 18% dei rispondenti italiani, pari alla media europea, a sottolineare di aver subito in famiglia un grave errore medico durante un ricovero ospedaliero), mentre si registra in Italia l’aumento vertiginoso del numero di sinistri denunciati riconducibili alla responsabilità professionale dei medici che l’Ania stima passati dai 3.154 del 1994 ai 11.932 del 2004 (+278%).
La lezione dell’Alzheimer: una rete integrata di servizi. I malati di Alzheimer oggi in Italia sono oltre 500.000, i nuovi casi sono stimabili in circa 80.000 all’anno, e si tratta di un dato destinato ad aumentare (nel 2020 i nuovi casi di demenza attribuibili all’Alzheimer saranno circa 113.000). La condizione dei malati e dei loro familiari è emblematica delle difficoltà del nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nell’approntare risposte e soluzioni adeguate per la presa in carico delle patologie croniche e invalidanti. La delega alla famiglia dei compiti di cura e assistenza del malato di Alzheimer ha un ingente costo sociale (Costo Medio Annuo per Paziente - Cmap) che viene stimato in circa 60.900 euro all’anno. Questo costo pesantissimo può essere mitigato solo attraverso una vera e profonda revisione del modello delle cure: ecco perché in merito al modello auspicabile di assistenza l’opzione prevalente tra i caregiver (53,3%) è per la rete di servizi, articolata e gratuita su cui poter contare, una sorta di intervento modulare che mitighi senza sostituire la delega alla famiglia, rendendola più tollerabile e proficua.
Il rischio di una solidarietà selettiva. Quasi il 69% degli italiani ritiene che in caso di bisogno si può contare sull’aiuto degli altri, mentre l’idea che la cooperazione tra persone sia un portato della natura umana trova l’accordo di oltre il 75% degli italiani. Tuttavia, solo il 17,9% dei cittadini si organizza spesso o molto spesso con gli altri per risolvere un problema comune, ed è il 50% degli italiani a ritenere che l’immigrazione aumenti l’insicurezza, mentre è il 35% a pensare che gli altri gruppi etnici arricchiscano la vita culturale del nostro Paese (54% è il dato medio europeo).
Il costo previdenziale di un mercato del lavoro ostile alla longevità. Oltre il 31% dei pensionati, alla luce dell’attuale esperienza, ritarderebbero il proprio pensionamento; di 6,3 anni i maschi e di 5,8 anni le femmine, in media. E’ il 2,4% dei pensionati a lavorare; però, mentre sono i laureati a trovare più facilmente lavoro, sono quelli a basso titolo di studio ad avere una maggiore propensione a lavorare (62,3% con licenza elementare, 26,2% con laurea). E’ questo il paradosso del mercato del lavoro per gli anziani che impatta negativamente sulla previdenza.
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Territorio e Reti
Il 2007 è stato caratterizzato da un rinnovato dibattito su come far ripartire in Italia una politica della casa in grado di creare un’offerta adeguata di alloggi in affitto a canoni accessibili. Negli ultimi tempi la produzione annua di alloggi sociali su tutto il territorio nazionale è scesa sotto le 2.000 unità (su un totale di circa 300.000 abitazioni costruite), e alcuni dati evidenziano in modo esplicito l’incapacità di fare incontrare domanda e offerta in modo efficace; infatti: i prezzi di mercato degli affitti (quelli della nuova offerta) sono cresciuti di oltre il 112% dal 1999 (anno delle riforma del mercato) al 2006 nelle città con più di 250 mila persone e di oltre il 103% in quelle di dimensioni inferiori; è progressivamente aumentato il numero degli sfratti per morosità (sono stati 33.000 nel 2006 i provvedimenti e messi per tale ragione, erano 21.000 nel 1990).
Il ”sistema montagna”, dal punto di vista economico, è in crescita. Nelle stime attuali il valore aggiunto dei territori montani viene calcolato in circa 203 miliardi di euro, ossia il 16,7% del totale nazionale (era circa 165 miliardi di euro su base dati 1999). In quattro anni (dal ”99 al ”03) la montagna è cresciuta più della media del Paese (10,5% contro il 6,5% della media nazionale). Ciò significa che quando il sistema Italia, nel suo complesso, cresce in maniera robusta in termini di nuovi beni e servizi messi a disposizione della comunità per impieghi finali, il sottosistema montagna fatica a tenere il passo. Quando tuttavia il sistema rallenta drasticamente, come è accaduto tra il 1999 e il 2003, la montagna rallenta di meno e, per così dire, ne approfitta per ridurre lo svantaggio. D’altra parte esiste anche una ”montagna industriale”. In Italia i 156 distretti industriali rilevati dall’Istat interessano complessivamente 2.215 comuni. Si tratta di territori produttivi che ospitano circa 13 milioni di persone e che danno lavoro a quasi 5 milioni di addetti (il 25% del totale, ma quasi il 40% se si restringe l’ambito al settore manifatturiero). Ebbene, una quota non secondaria dei comuni italiani sul cui territorio si localizza un distretto industriale, sono comuni classificati come montani. Si tratta, nel complesso, di 870 enti locali, corrispondenti al 20,7% dei comuni montani italiani.
Nel 2007 i pendolari si sono attestati su oltre 13 milioni, con una incidenza pari al 22,2% della popolazione. Erano 9,6 milioni del 2001 (17%). Nell’intervallo 2001-2007 si è registrato, quindi, un incremento di pendolari studenti e lavoratori (soprattutto impiegati, operai e insegnanti) del 35,8%, corrispondente a 3,5 milioni di persone in più. Il riparto modale degli spostamenti conferma il ruolo predominante dell’auto privata, utilizzata complessivamente da poco più del 70% dei pendolari. Il 5,9% dei pendolari ricorre invece ai mezzi motorizzati a due ruote. E si conferma la funzione fondamentale dei servizi pubblici. Innanzitutto il treno, utilizzato giornalmente dal 14,8% dei pendolari (ovvero più di 1,9 milioni di persone) per effettuare gli spostamenti in ambito locale e metropolitano come unico mezzo di trasporto o in combinazione con altre modalità di spostamento.
Gli enti locali e i soggetti di rappresentanza economica che operano all’interno dei diversi territori provinciali segnalano l’esigenza di un presidio forte dell’area vasta in grado di innescare processi di coinvolgimento delle diverse soggettualità presenti nei territori e di concertazione in merito alle azioni da sviluppare. Più di due terzi del campione intervistato concordano sul fatto che questo tipo di funzione possa essere svolta dalle istituzioni provinciali. Le province dovranno dunque sempre più caratterizzarsi come centri di condensazione delle istanze territoriali. Il 23,1% degli intervistati pensa che le Province siano già adesso nelle condizioni di farlo, mentre il 45,4% ritiene che ciò possa concretizzarsi solo in corrispondenza di un incremento dei loro poteri reali.
Il ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei 2007-2013 sarà caratterizzato dallo spostamento a est del focus delle politiche regionali. I dieci paesi dell’Europa Orientale entrati con le ultime due tornate del processo di allargamento (2004 e 2007), pur rappresentando in termini di popolazione poco più di un quinto del totale dell’Unione a 27, assorbiranno circa il 51% delle risorse stanziate nell’ambito della politica di coesione. Ciò ha comportato un sostanziale dimezzamento delle risorse sia per i paesi dell’Europa centro-settentrionale, destinatari nel 2000-2006 del 34,5% dei fondi e oggi passati al 16,8%, che per l’area del Sud Europa, alla quale nella passata stagione andava ben il 63,1% dei fondi strutturali e oggi solo il 30,6%. Per l’Italia si tratta comunque (forse per l’ultima volta) di importi ancora molto consistenti: il nostro paese riceverà infatti 28,8 miliardi di euro (dei quali 21,6 destinati alle regioni del Sud), posizionandosi al terzo posto tra i paesi beneficiari dopo la Polonia (67,3 miliardi) e la Spagna (35,2 miliardi). Si tratta di un’occasione che non può essere sprecata.
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I soggetti economici dello sviluppo.
La crescita per minoranze attive. Il maggiore contributo alla crescita è stato dato dal sistema delle imprese, in particolare dall’industria, che ha registrato una accentuata espansione all’estero. Nel 2006 l’incremento dell’indice del fatturato industriale derivante da vendite in Italia è aumentato del 7%, quello delle vendite all’estero è aumentato dell’11%. Il 2007 si chiuderà forse con un’ulteriore accelerazione del fatturato proveniente dall’export. Ci si chiede tuttavia quanto a lungo possa reggere un modello di crescita fondato su nuclei sempre più ristretti di imprese innovative.
L’inarrestabile concentrazione del potere economico. Il 2007 ha visto la realizzazione di alcuni tra i più grandi interventi di concentrazione e di fusione tra aziende, specie nel settore bancario. Il muro dei 90 miliardi di euro di valore delle operazioni di fusione portate a compimento nel 2006 è destinato a essere superato quest’anno se si tiene conto che la sola incorporazione di Capitalia da parte di Unicredit vale più di 21 miliardi di euro e conteggiando la recente operazione di Monte dei Paschi di Siena su Antonveneta. Aumenta il livello di concentrazione di potere lì dove operano i pochi big players italiani: nel solo sistema bancario la quota di mercato detenuta dai primi cinque gruppi è passata tra il 2006 e oggi dal 45% al 53%, così come il fenomeno è evidente nel sistema assicurativo. Nessun miglioramento di efficienza è però rinvenibile nelle imprese protagoniste di tali operazioni di concentrazione (non diminuisce né la bolletta energetica né i costi bancari e assicurativi) né è in atto un processo redistributivo, presso le famiglie, dell’incremento di ricchezza registrato da numerose imprese.
Ricambio generazionale ed impresa giovanile per un nuovo ciclo di crescita. E’ possibile cogliere una diffusa e crescente volontà di fare impresa da parte dei giovani, che lascia intravedere i primi segnali di un più consistente ricambio generazionale. Secondo le analisi di Infocamere, attualmente il 42% dei titolari d’azienda ha più di 50 anni, l’8% ne ha più di 70, mentre soltanto il 6,6% ne ha meno di 30. Su un totale di poco più di 200 mila, sono circa 154 mila le nuove realtà aziendali costituite nel 2002 ancora attive a tre anni di distanza come rilevato in una specifica indagine dell’Istat. Di queste, nel 30% dei casi alla nascita dell’impresa il titolare aveva meno di trent’anni e nel 40% aveva un’età compresa tra i 30 e i 39 anni. interessante analizzare l’elevato livello di dinamismo di tali imprese e gli investimenti programmati per il rafforzamento del posizionamento sul mercato.
L’espansione controllata dell’indebitamento delle famiglie italiane. La crisi dei mutui subprime a metà del 2007 ha riportato prepotentemente l’attenzione, anche in Italia, sulla questione dell’indebitamento delle famiglie e su possibili rischi di default nel nostro Paese. Che sussistano situazioni limite di sovraindebitamento è certo, ma ad oggi il fenomeno sembra riguardare una quota assai ridotta di famiglie per le quali è necessario approntare strumenti ad hoc. Il Paese sembra reinterpretare, almeno per ora, la crisi dei mutui e dell’indebitamento in generale con spirito adattativo, cercando anche in questo caso una sorta di medietà tra la domanda di credito e il limite oltre il quale è bene non spingersi. La percentuale di prestiti bancari in sofferenza sul totale concesso alle famiglie è ormai su livelli stabili dal 2003, intorno allo 0,7%, molto più basso rispetto a quanto si rilevava alla fine degli anni ”90 quando esso si attestava all’1,5% e l’ammontare dei prestiti era molto più contenuto.
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Comunicazione e media.
La rivoluzione digitale continua. Oggi abbiamo già a disposizione 8 diversi media e ben 20 modalità alternative di accedervi. Vecchi e nuovi media convivono perfettamente nelle scelte delle persone, amplificando ulteriormente gli accessi individuali al mondo dei media.
Fotogrammi della rivoluzione digitale in atto. La televisione tradizionale risulta sempre il mezzo più usato, con il 92,1% di utenti complessivi, ma la tv satellitare raggiunge il 27,3% e la digitale terrestre il 13,4% degli italiani sopra i quattordici anni. Per la radio, al 56% di utenti da autoradio e al 53,7% di ascoltatori da apparecchi tradizionali vanno aggiunti il 13,6% di utenti da lettore Mp3 e il 7,6% da internet; per i quotidiani oltre al 67% di utenti che leggono un giornale tradizionale acquistato in edicola si deve consi-derare anche 34,7% di lettori di quotidiani gratuiti e il 21,1% di fre-quentatori delle pagine on line dei giornali via internet. L’integrazione tra i media ne incrementa l’uso, coinvolgendo in questo aumento d’attenzione anche quelli tradizionali. Mai la lettura di libri e giornali in Italia aveva rag-giunto punte così elevate. Il 59,4% di italiani che hanno letto almeno un libro nel corso dell’anno è un risultato confortante, ma il 52,9% ne ha letti almeno tre. La stessa tenuta di set-timanali (40,3%) e mensili (26,7%) conferma che la società digitale non solo non segna la fine della circolazione della carta stampata, ma che anzi la sostiene.
Smottamenti televisivi. Nel 2007 gli utenti della televisione in generale sono passati dal 94,4% al 96,4% della popolazione, rafforzandone ancora di più la natura di medium universale. La tv satellitare, in un anno, è passata ad attirare dal 17,7% al 28,3% degli utenti di tv, il digitale terrestre dal 7% al 13,9% e anche tutte le altre forme di tv fanno notevoli passi in avanti. Più netto risulta il progressivo passaggio dalla televisione tradizionale a tutte le forme di tv digitale tra i giovani. Il 99,1% di spettatori giovani di tv tradizionale del 2007 si ridimensiona nel 2007 al 93,5%, con la tv satellitare che arriva al 41%, la tv via cavo al 9,4% e la tv via internet all’8,6%. Tra i diplomati e i laureati c’è sempre un buon 94% che segue la tv tradizionale, però anche un 34,5% di pubblico di tv satellitare e un 16,2% del digitale terrestre, a cui si aggiunge anche un 7,1% di utenti di tv via internet e un 6,3% di tv via cavo.
Informazione quotidiana multi-mediale. Il pubblico dei lettori dei giornali cresce, visto che nel 2007 è entrato in contatto con la stampa d’informazione quotidiana il 79,1% degli italiani: fra quotidiani tradizionali acquistati in edicola, giornali che vengono distribuiti gratuitamente (free press) e siti internet aggiornati continuamente dai quotidiani (on line). Circa il 30% legge solo quotidiani a pagamento, a cui si aggiunge un altro 30% che legge sia quelli a pagamento che quelli free, un altro 11% circa quelli a paga-mento e on line, quasi il 13% tutti e tre. Calcolando che a leggere solo la stampa free sono meno del 10% dei lettori, si può constatare che ad accostarsi ad un solo modello di informazione a stampa sono sempre il 45% circa di italiani che da decenni costituiscono la tradi-zionale platea dei lettori dei giornali.
Radio ovunque. La sua flessibilità tecnologica l’ha resa uno degli strumenti di punta della rivoluzione digitale, che ha ridato una nuova, ennesima giovinezza alla radio, che nel 2007 è arrivata a raggiungere il 77,7% della popolazione italiana con punte dell’80,6% tra gli uomini, del 94,4% tra i giovani e dell’86,2% tra i più istruiti.
Internet di massa. Nel 2007 gli utenti in gene-rale di internet hanno raggiunto una quota pari al 45,3% della popo-lazione. Prendendo in considerazione solo gli utenti abituali, quelli cioè che si connettono almeno tre volte alla settimana alla rete, si è passati dal 28,5% del 2006 al 38,3% del 2007, con un indice di pene-trazione che ha raggiunto tra i giovani il 68,3% e tra i più istruiti il 54,5%.
Cresce l’abitudine alla lettura. La lettura dei libri negli ultimi anni si è attestata su livelli finalmente interessanti, raggiungendo nel 2007 il 59,4% rispetto al totale della popola-zione. Rispetto al 55,3% del 2006 il progresso non appare eccezionale, ma è notevole il passo in avanti dei lettori abituali, cioè di quanti hanno letto almeno tre libri nel corso dell’anno, che sono passati dal 39,4% al 52,9%. I meno istruiti rimangono al 42,3% complessivo, con un passaggio dal 27,9% al 36% dei lettori abituali. I più istruiti, invece, accrescono ancora il loro già elevato indice dei lettori in gene-rale (dal 72,6% al 74,8%), ma portano i lettori abituali dal 54,7% al 68%.
Cellulari, media basic. Nel 2007 il cellulare ha raggiunto un indice di pene-trazione complessiva pari all’86,4% della popolazione, ormai a un passo da quel 92,1% che costitui-sce il consumo complessivo della tv generalista. Il cellulare è considerato uno strumento d’uso praticamente quotidiano dal 76,9% degli uomini, dal 92,6% dei gio-vani e dall’81,4% degli utenti con il maggior livello di istru-zione. Il 55,9% dei suoi utenti lo impiega solo per le sue funzioni ”basic”. Ai vari tipi di modelli smartphone si accosta il 34,9% degli ita-liani, mentre il videofonino è appannaggio del 9,3% utenti.
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Processi innovativi.
Non tutti gli investimenti in R&s generano innovazione, non tutta l’innovazione nasce dalla ricerca.
145 mila piccoli imprenditori, pari a un quarto di tutte le aziende manifatturiere e informatiche con meno di 20 addetti, investono il 13% del monte ore lavorate e ben 1,8 miliardi l’anno per la competitività del made in Italy, valore questo che rappresenta il 19% delle spese aziendali.
Fra le imprese considerate, con un numero di addetti inferiore a 20, che dichiarano di svolgere attività di innovazione, il 42,6% realizza attività di ricerca anche in modo informale, mentre oltre il 73% utilizza processi e tecniche di produzione innovativa, il 63,5% si dedica all’innovazione di prodotto e il 61,5% introduce nuovi materiali nei propri cicli produttivi.
Il ”cambio di passo” del Mezzogiorno: produzione di conoscenza e attrazione di risorse. La nuova programmazione dei Fondi strutturali riaccende le speranze per vedere finalmente avviata una fase di aggancio delle regioni meridionali ai flussi di crescita nazionali ed europei.
Il ”cambio di passo” deciso per questo nuovo ciclo, risulta in linea con le strategie messe in atto da Bruxelles per rendere l’Unione europea l’area più avanzata sul piano della conoscenza a livello mondiale nei prossimi anni. Il Quadro strategico nazionale, comprensivo di cofinanziamento nazionale e risorse del Fondo aree sottoutilizzate prevede per l’insieme delle regioni meridionali un volume di poco superiore ai 100 miliardi di euro.
La discontinuità necessaria del nuovo periodo di programmazione 2007-2013 trova conferma anche nell’adozione del programma ”Ricerca e competitività” in cui il Ministero dell’università e della ricerca e il Ministero dello sviluppo economico ne condividono il coordinamento. Gli interventi possono contare su 6,2 miliardi di euro da spendere nel settennio in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia (le regioni dell’obiettivo Convergenza) e sono orientati all’integrazione delle dinamiche di sviluppo che provengono dalla ricerca e dall’innovazione e che guardano prioritariamente alla capacità di attrazione di risorse e investimenti.
Memorie digitali: l’innovazione che guarda al passato. Solo da pochi anni in Italia gli audiovisivi sono oggetto di progetti di recupero e valorizzazione secondo un’ottica per lo più aziendale, orientata alla salvaguardia dei propri materiali d’archivio per fini commerciali. Una salvaguardia con una forte e indiscutibile valenza culturale che ha spinto anche le istituzioni ad occuparsi direttamente del fenomeno. La regione Lazio è leader per l’audiovisivo italiano con circa il 40% degli occupati dell’intero comparto. Il 42% delle imprese del settore rilevate afferma di possedere un archivio organizzato di materiale audiovisivo. Il dato è particolarmente significativo se si riflette sulla parcellizzazione a cui è stato sottoposto il comparto che oggi conta un 20% di imprese individuali ed un ulteriore 28% costituito da imprese con un numero di addetti inferiore a 5.
La pubblica amministrazione on line. Nell’erogazione on line di servizi pubblici di base, disponibili per i cittadini, l’Italia si colloca poco al di sotto della media europea (rispettivamente il 36,4% e il 36,8 %), ed è in dodicesima posizione nella graduatoria dell’Unione europea a 25 Stati. L’Isola di Malta detiene il valore più elevato nella realizzazione dei servizi on line per i cittadini con una percentuale dell’83,3%, seguita dal Regno Unito (80%), dall’Austria (70%) e dalla Svezia (63,6%).
Sull’utilizzo di servizi di e-government da parte dei cittadini, l’Italia con il 16,1% si colloca al diciannovesimo posto nella graduatoria; il valore medio europeo è pari al 23,8%.
Per contro si verificano livelli interessanti di utilizzo di servizi pubblici disponibili on line per le imprese, in tal caso l’Italia occupa il terzo posto della graduatoria europea con l’87,5%, ben al di sopra della media europea (67,8%); è preceduta dall’Austria (100%) ed è a pari livello con Belgio, Danimarca, Spagna, e Svezia. Quanto all’utilizzo di servizi di e-government da parte delle imprese l’Italia raggiunge il terzo posto della graduatoria con l’86,5%, preceduta dalla Danimarca (87,3%) e dalla Finlandia (92,8%).
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Sicurezza e cittadinanza.
Il nuovo ruolo degli enti locali nelle politiche della sicurezza urbana. I Patti per la sicurezza siglati nelle maggiori città metropolitane e la formulazione da parte del Disegno di legge ”Disposizioni in materia di sicurezza urbana ”riconoscono la necessità di dar voce e potere agli enti locali quali diretti protagonisti della sicurezza urbana, ma presentano una serie di criticità in quanto le risorse economiche destinate dagli enti locali a finanziare le politiche di contrasto della criminalità non saranno più disponibili per le azioni dirette alla coesione sociale e alla prevenzione, inoltre c’è il rischio di confusione sia con riferimento alle competenze dei vari livelli istituzionali, che relativamente alle attribuzioni della Polizia municipale se non sostenute da adeguate forme di riqualificazione e da una moderna normativa.
Le organizzazioni criminali sempre più dentro alle imprese. Un imprenditore meridionale su tre dichiara che il racket nella propria zona di attività è molto o abbastanza diffuso (33,1%); alta anche la percezione della presenza di usura (il 39,2% degli imprenditori ritiene che nella zona dove esercita la propria attività il reato sia molto o abbastanza diffuso). Assumono importanza fenomeni di distorsione della concorrenza per cui il 48,9% vede un aumento della nascita improvvisa di imprese concorrenti; il 15,1% percepisce una crescita dell’imposizione nell’utilizzo di manodopera ;il 13,2% crede che sia in crescita l’imposizione di forniture; il 45,3% degli imprenditori giudica poco o niente affatto trasparenti gli appalti pubblici.
Il bullismo nelle scuole cresce davvero? Gli atti di bullismo più frequenti di cui sono stati testimoni diretti gli studenti del Lazio sono gli scherzi pesanti (26,8%), le offese e le minacce (25,0%) e le prese in giro moleste (25,4%), mentre il 19,1% ha assistito a piccoli furti e il 15,2% ad aggressioni fisiche. Rispetto all’acutizzarsi del fenomeno, il Ministero dell’Istruzione ha deciso di costituire un’apposita Commissione che ha dato vita, tra l’altro, agli Osservatori regionali sul bullismo presso gli Uffici Scolastici Regionali, ad un numero verde di ascolto, consulenza e prevenzione e ad un sito internet. Inoltre la Commissione ha segnalato la necessità di disporre di dati statistici condivisi a livello nazionale e territoriale, che consentano di effettuare una mappatura del fenomeno e delle sue emergenze.
Il rischio di un’eccessiva frammentazione delle competenze sull’immigrazione. Se si considera il numero di amministrazioni da cui dipendono le principali decisioni in merito all’immigrazione e che sono incaricate di svolgere i compiti essenziali per la gestione della materia ma, soprattutto, se si guarda agli ambiti di possibile sovrapposizione potrebbe legittimamente sorgere il dubbio se un fenomeno così complesso possa essere gestito con la dovuta efficienza e tempestività da una tale pluralità di soggetti.
Le prime crepe nell’integrazione sociale degli stranieri. Negli ultimi cinque anni a fronte di una crescita media degli stranieri residenti in Italia dell’89,7%, i rumeni sono aumentati del 260,1%, passando dai 95.039 del 2002 ai 342.200 del 2006 e diventando la terza comunità in Italia. La stima Caritas dei soggiornanti fa salire il numero dei rumeni a 555.997, facendone la prima nazionalità straniera presente in Italia.
Di pari passo vi è stato un aumento dei rumeni sulla scena del crimine. Nel periodo 2004-2006 i cittadini romeni compaiono al primo posto tra gli stranieri denunciati per i furti con destrezza (37% degli stranieri denunciati, e 24,8% del complesso dei denunciati), i furti di autovetture (29,8% degli stranieri e 11,2% del totale dei denunciati), le rapine in esercizi commerciali (26,9% e 8,7%) e le rapine in abitazione; e per alcuni reati violenti, come gli omicidi volontari consumati (15,4% degli stranieri denunciati e 5,3% del totale) e le violenze sessuali (16,2%) All’aumento dei cittadini rumeni denunciati corrisponde una crescita dei detenuti rumeni che nel mese di giugno erano 2.267, vale a dire il 5,2% del totale dei detenuti (che a quella data erano 43.957) e il 14,5% dei detenuti stranieri (che erano 15.658).
Conoscere più a fondo il fenomeno della tratta. Le vittime di tratta che tra il 2000 ed il 2006 hanno potuto beneficiare dei progetti di assistenza ex art. 18 sono 11.226, di cui 619 minori. In realtà non è possibile verificare se questo numero corrisponda a singole persone, ovvero se vi siano state duplicazioni. Tra il 2000 e il 2006 i permessi di soggiorno concessi risultano essere 5.653.
Analoghe difficoltà si riscontrano se si intende descrivere l’universo dei cosiddetti sfruttatori. Il maggior numero di denunciati riguarda il reato di sfruttamento della prostituzione: 2.874 nel 2006; 129 sono stati i denunciati per il reato di tratta di persone; crescono negli ultimi tre anni del 21,2% i denunciati per riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (dai 340 del 2004 ai 412 del 2006); aumentano del 17,2% i denunciati per sfruttamento della prostituzione minorile, che sono 340 nel 2006; diminuiscono, rispettivamente del 28,1% e del 9,2%, i denunciati per i reati di acquisto ed alienazione di schiavi e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.