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 2016  novembre 12 Sabato calendario

Jacob Wood, un impero a Lagos

• Jacob Wood, un impero a Lagos. Il Sole 24 Ore 11 agosto 2007. LAGOS. Due macchine blu della polizia risalgono a fatica la colata di carrozzeria formata dagli ingorghi di Lagos, una lava rappresa, ma ancora fumante. Sirene, bruschi sganciamenti e sorpassi a destra, ogni metodo vale pur di procedere verso la penisola di Lekki. Dopo il ponte di Falomo, da un’altra macchina della polizia bloccata nella corsia inversa salutano le prime due con qualche perplessità. Forse perché sull’altro lato, alla guida del veicolo di testa (un fuoristrada Mercedes), non c’è un poliziotto africano in divisa, ma un uomo d’affari cinese, piccolo e con gli occhiali. Jacob Wood, nato a Shanghai 59 anni fa, porta gli ospiti a visitare il cantiere di 544 villette che una delle sue aziende, la Golden Swan Nigeria Ltd, sta finendo di costruire a 25 chilometri dal centro di Lagos. «Dopo la vittoria di Mao, mio padre è dovuto fuggire, io ero ancora in fasce. passato da Hong Kong prima di aprire una fabbrica tessile a Lagos, nel 1953, quando la Nigeria era ancora una colonia britannica. Io invece sono arrivato nel 1977, per conoscerlo». Prima il figlio dirige il ristorante Shangri-La, in cima all’Eko, un albergo di lusso che all’epoca apparteneva al "miliardario rosso" Armand Hammer, il padrone dell’Occidental Petroleum. Negli anni Novanta, mentre la Nigeria sprofonda nel periodo più buio della dittatura militare e l’Hotel Eko declina, costruisce in città il Golden Gates, un ristorante da 1.500 coperti, e fonda un’impresa edile. anche il momento in cui la Cina diventa una potenza economica mondiale. Jacob Wood, che non ha mai aderito all’ideologia comunista, scopre allora di poter contare sul Paese d’origine per investire in Africa e attingere alle sue abbondanti riserve di ingegneri a basso costo. Oggi è alla testa di un gruppo con oltre 1.500 dipendenti di cui 300 cinesi, ed è talmente utile al Governo nigeriano da aver ricevuto, tra l’altro, l’autorizzazione a immatricolare con targhe della polizia il proprio parco di fuoristrada. All’altezza della sede nigeriana della Chevron-Texaco, le due macchine svoltano a sinistra e penetrano in un dedalo di casette, tutte identiche. Nel centro di quel quartiere che avrebbe potuto sorgere nel Dubai o in California, Wood si ferma in un cortile cosparso di cavi elettrici e di ferri per armare il cemento. Un ingegnere cinese apre la porta di una baracca rudimentale, ammobiliata con tre tavoli. Si chiama Reagan Zhou. Prima di tentare l’avventura africana, lavorava in Cina, in un’impresa statale. Dopo aver installato 185 chilometri di cavi dell’alta tensione nel Suriname, prende contatto con Wood, che ha un ufficio di reclutamento a Shanghai. Adesso sovrintende alle finiture delle 544 villette (costruite in meno di due anni) in attesa che il suo capo ottenga un’estensione del progetto: altre 500 villette. «Sono già tutte vendute, - dice con un sorriso - comprate per lo più dalla Chevron per il suo personale nigeriano». Un’avvertenza per chi è tuttora convinto che in Africa i cinesi siano interessati soltanto a procurarsi materie prime, in cambio di giganteschi cantieri di infrastrutture finanziati dal loro Governo: sono anche i nuovi imprenditori del continente. Wood richiama i poliziotti che gli fanno da guardie del corpo e si avvia verso un altro tassello del proprio impero industriale. « in Africa che bisogna produrre. Importare, che spreco! Prenda le moto. Nel 2005 la Cina ne vende 300mila in Nigeria per 100 milioni di dollari. L’anno dopo ne vende 600mila, per lo stesso prezzo! Pensi a quanto metallo e quanta elettricità ci vogliono per fabbricare una moto, mentre la Cina ha bisogno di metallo e d’elettricità!». Mezz’ora dopo entriamo in una fabbrica di macchine edili, la Golden Eagle Ltd, nel cui capannone principale decine di operai nigeriani tagliano, forano e saldano i pezzi di betoniere, benne da ghiaia, miscelatrici, piastre vibranti. Soltanto il motore di quei congegni verrà importato, dalla Cina. Le maschere da saldatore lasciano ogni tanto intravvedere un caporeparto o un tecnico cinese che lavora tra i nigeriani su pezzi delicati, ma anche per mantenere alti i ritmi. Quello di Wood è senza dubbio un caso a sé. Il lungo periodo trascorso in Nigeria gli ha consentito di costituirsi una rete eccezionale. Nel 2001 dona una scuola per 4mila studenti nel quartiere Ikeja, vicino all’aeroporto di Lagos, che gli è valsa il titolo di capo tribù. Ma ci sono molti altri industriali cinesi in Nigeria, gli uomini della nuova generazione. Roy Zhang, 26 anni, è nato nello Hunan: «Sono venuto nel 2000, dopo un passaggio in Sudafrica per vendere paccottiglia cinese, come tutti. Quando il Governo ha limitato le importazioni, ho aperto una fabbrica di scarpe, oggi ci lavorano 70 persone». Nel marzo 2007, Roy apre il "Mr Chang", un ristorante di lusso sull’Owolowo, la principale arteria commerciale di Lagos. I materiali sono lussuosi, a Shanghai il decoratore è una star, così come il cuoco. Il locale diventa il ritrovo preferito di politici e ricchi nigeriani. Questa sera, Zhang riceve i colleghi dell’associazione degli imprenditori cinesi della capitale, che conta 200 membri. presente anche il nuovo console, Guo Kun, e un giornalista del "West Africa United Business Weekly", la prima rivista cinese della Nigeria che vende da 3mila a 7mila copie a seconda delle settimane e di cui Roy è uno dei fondatori. Per gli ospiti, ha preparato un menù pantagruelico e decine di bottiglie di bai jiu, una potente grappa cinese. Alla fine del party, Roy beve un’ultima birra con il giornalista di passaggio. «Quando vedo come vengono umiliati nei vostri consolati i nigeriani che chiedono un visto per l’Europa! Il consolato cinese è più furbo, smista i ricchi e gli altri. Se ha dubbi, chiede a noi e facciamo un’indagine. In cambio, il Governo ci fornisce informazioni, consulenze legali, prestiti senza interesse. E quando torneremo in Cina, ci venderà terreni con lo sconto». Eppure il successo dei cinesi resta un mistero persino per Pat Utomi, che ha fama di essere il miglior economista della Nigeria, candidato sconfitto alle presidenziali dell’aprile scorso e direttore della Lagos Business School. «Non capisco come fanno. I nostri imprenditori chiudono le fabbriche, e loro invece non smettono di aprirne. Ho chiesto agli studenti di fare un rapporto». Troveranno tutte le risposte che cercano nella fabbrica di biscotti Newbisco, a Ikeja, fondata da un inglese ai tempi della colonia e ceduta a un gruppo indiano negli anni Ottanta. Quando nel 2000 è stata rilevata da Y.T. Chu, imprenditore di Hong Kong, era sull’orlo della bancarotta. Yechang Wang, un ingegnere elettrico, ne dirige la produzione: «Abbiamo sostituito metà delle linee con macchine cinesi, costruito un magazzino per tenere una grande riserva di farina, olio e zucchero in modo da produrre a ciclo continuo, e abbiamo motivato i 700 operai che lavorano in due squadre con turni di dodici ore». Ormai la fabbrica produce oltre settanta tonnellate di biscotti al giorno e ci sono piani per ampliarla. Nel tempo libero, Yechang Wang si occupa anche dei problemi tecnici di due fonderie del gruppo di Y.T. Chu. «Abbiamo tutti quanti vari lavori - dice -, è questo il segreto del nostro successo. Facevate la stessa cosa, in Europa, cinquant’anni fa, quando avevate ancora voglia di lavorare, non è vero?». Sua moglie è già venuta a fargli visita, ma lui preferisce che rimanga in Cina a educare il figlio. «Non esiste una scuola cinese in Nigeria, anche se siamo decine di migliaia. E va benissimo così. Non abbiamo una cultura da imporre. Non siamo dei coloni». Eppure le somme maneggiate dai cinesi di Lagos sono considerevoli. Per conoscerne l’ammontare, non ci sono bilanci consolidati. I criteri disponibili sono le dimensioni delle imprese, il numero di dipendenti, quello delle automobili e i progetti in corso. Wood, per esempio, sta facendo costruire una fabbrica per montare televisori nella zona franca di Calabar, vicino alla frontiera con il Camerun. Quanto a Zhang, sta per lanciarsi nell’industria alberghiera. «L’Africa - dice - è un’opportunità immensa. l’ultimo posto al mondo dove si possono fare grandi affari». Wood si spinge oltre: «La Cina utilizza l’Africa per raggiungere il livello degli Stati Uniti e poi superarli. Pur di riuscirci è disposta a tutto, a costruire in Nigeria una ferrovia che sarà sempre in deficit (il contratto, da 8,3 miliardi di dollari, è stato firmato nel novembre 2006, ndr), e anche a mettere in orbita un satellite nigeriano» (come ha fatto il 14 maggio 2007). In effetti i cinesi sono impareggiabili nell’evitare di occuparsi di politica e nel ritrovarsi comunque dalla parte dei vincitori. Y.T. Chu si considera un amico personale dell’ex presidente Olusegun Obasanjo. Nel suo salotto, una foto li mostra insieme all’ombra di un albero. Wood è consulente del presidente per le piccole e medie imprese. L’ha incontrato molto spesso e oggi è felice all’idea di collaborare con il suo delfino e successore, Umaru Yar’Ardua. Questa vicinanza al potere consente di non perdersi il momento cruciale in cui debutta una nuova amministrazione. Un nuovo presidente, nuovi governatori, tantissimi progetti in rampa di lancio. «Tutto si sta decidendo adesso - dichiara Wood - e noi siamo pronti!». Serge Michel *********************** GIOVANI IMPRENDITORI A caccia di affari Giovani e intraprendenti nella gestione degli affari. l’identikit dei businessmen cinesi che stanno conquistando l’Africa a suon di dollari. Come i giovani industriali nella foto a fianco, che ogni mese in un ristorante di Lagos organizzano la festa dell’Associazione degli imprenditori, vestendo con costumi cinesi anche i camerieri. la nuova generazione di imprenditori di Pechino che non teme i rischi politici dell’Africa e non esita a investire in Paesi considerati ad alto rischio, come la Somalia LA CINA SFIDA L’OCCIDENTE La ricetta vincente di Yechang Wang Sull’orlo della bancarotta La Newbisco, fabbrica di biscotti a Ikeja (vicino all’aeroporto di Lagos), fu fondata da un gruppo inglese quando la Nigeria era una colonia britannica, e ceduta a un gruppo indiano negli anni Ottanta. Y.T.Chu la rileva nel 2000, sull’orlo della bancarotta 70 tonnellate di biscotti al giorno Macchine cinesi, produzione a ciclo continuo, 700 operai divisi in due squadre con turni di 12 ore: è la ricetta del successo dell’ingegnere elettrico cinese Yechang Wang, direttore della produzione (nella foto). Newbisco oggi produce 70 tonnellate di biscotti al giorno Parola d’ordine: diversificare Non solo dolci Y.T. Chu, imprenditore di Hong Kong che ha salvato dal fallimento la Newbisco, è anche proprietario della Federated Steel (nella foto, un tecnico cinese organizza la produzione nella fonderia d’acciaio) a Ota, nello stato di Ogun (Sud-Ovest del Paese) Come gli europei degli anni 50 «Abbiamo tutti quanti diversi lavori. il segreto del nostro successo. Facevate la stessa cosa, in Europa, 50 anni fa, quando avevate ancora voglia di lavorare»: così riassume il modus pensandi cinese Yechang Wang, da 15 anni in Nigeria ********************* Sequestri, un rischio inaspettato. Il Sole 24 Ore 11 agosto 2007. LAGOS. Ufficialmente la Cina è amica di tutti i popoli africani e al vertice Cina-Africa dello scorso novembre è riuscita a richiamare 48 capi di Stato e di Governo. Stando ai fatti, tuttavia, gran parte dei 12 miliardi di dollari già investiti in Africa e dei 20 miliardi che l’Exim Bank (la banca cinese per l’import-export) si appresta a spendere in Africa nel prossimo triennio, come annunciato il 18 maggio 2007, è concentrata in una manciata di Paesi petroliferi: Sudan, Angola e Nigeria. Già oggi un terzo dell’import cinese di petrolio proviene dall’Africa sub-sahariana (rispetto al 15% degli Stati Uniti). Nel gennaio 2006 il gigante petrolifero cinese Cnooc ha effettuato in Nigeria il suo maggior acquisto all’estero, pagando 2,3 miliardi di dollari per il 45% di una licenza offshore gestita dalla Total. Quattro mesi dopo, in occasione della visita in Nigeria del presidente Hu Jintao, Cnooc firmava contratti per l’esplorazione di altre quattro concessioni petrolifere, in cambio della promessa di investire 4 miliardi di dollari nelle infrastrutture nigeriane e di acquisire una partecipazione di maggioranza nella raffineria di Kaduna. Tuttavia per la Cina i rischi crescono di pari passo con i suoi investimenti. Tre giorni dopo la visita del presidente, un’autobomba esplodeva davanti alla raffineria di Warri, nel Sud della Nigeria. Il Mend, il gruppo di guerriglieri attivo nel Delta del Niger, rivendicava l’attentato con questo messaggio: «I cittadini cinesi che troveremo negli impianti petroliferi saranno trattati come dei ladri». In due anni, la guerriglia ha catturato per tre volte ostaggi cinesi, poi liberati dopo il pagamento di un riscatto. I cinesi non si aspettavano di subire le stesse minacce delle imprese britanniche o italiane. L’Eni ha visto la sua produzione globale calare dello 0,7% nel primo semestre 2007 per via della presa di ostaggi e delle esplosioni di pipeline in Nigeria. Ma Pechino non disdegna le zone a rischio: la Cnooc ha firmato in giugno un contratto di prospezione nel Puntland, in Somalia. Serge Michel **************** E Hu ordinò: «Aprite nuove rotte». Il Sole 24 Ore 11 agosto 2007. LAGOS. Nel loro ufficio di Victoria Island, Jiang Nan e Hoffman Chang Chongqing fumano sigarette cinesi con l’aria soddisfatta di due compari che hanno messo a segno il colpo. Fino all’ottobre 2006 il primo era nel Dubai, direttore commerciale di China Southern Airlines, la più grande compagnia aerea cinese, la stessa che aspetta con impazienza la consegna dei cinque Airbus A380 che ha ordinato. «Nel settembre scorso il nostro presidente, Hu Jintao, ci ha ordinato di aprire nuove rotte in Africa, ovunque volessimo. Sono stato incaricato di trovare la destinazione giusta». Si informa sul Cairo e Nairobi, ma sente parlare di Lagos e viene a fare un piccolo sopralluogo. «Ho scoperto che in Nigeria c’erano 50mila cinesi e che le grandi opere finanziate dalla Cina ne avrebbero attratti altre migliaia». Jiang Nan, ormai direttore generale a Lagos, è il primo a citare simili statistiche sulla presenza dei suoi compatrioti nel Paese: né il consolato né gli uomini d’affari hanno potuto o voluto darne. Quanto alle grandi opere di cui sta parlando, si tratta in sostanza della costruzione di una ferrovia tra Lagos e Kano che porterà 3mila tecnici cinesi entro quest’anno e 8mila l’anno prossimo, e di una centrale idroelettrica sull’altipiano di Mabilla, da 2.600 megawatt (tre volte la produzione nazionale odierna). Il volo trisettimanale Pechino-Lagos via Dubai è stato inaugurato il 31 dicembre 2006, una prima in Africa per una compagnia aerea cinese. La percentuale di posti occupati è soddisfacente (60%), perciò è prevista a breve una seconda linea Canton-Lagos. «Inoltre stiamo per metterci la prima classe, gli africani non si accontentano della business», aggiunge ridendo Hoffman Chang Chongqing, il direttore delle vendite. Prossimo varo di China Southern: Pechino-Luanda, entro fine anno. «Il nostro maggior concorrente in Africa è la Emirates - ammette Jian Nan - ma la divoreremo. Sul nostro mercato abbiamo un notevole vantaggio, lei non immagina quanti cinesi vogliono venire in Africa!». Serge Michel
• Zhang, re del legno in Congo. Il Sole 24 Ore 14 agosto 2007. PARCO DI CONKOUATI. Justin conduce una vita frugale, molto vicina alla natura. Di giorno taglia legna e di notte caccia. Eppure il congolese di 22 anni non sarà mai un modello per gli ecologisti americani della World Conservation Society che percorrono la sua regione in lungo e in largo in grosse pick-up 4x4. Justin lavora infatti per una società cinese del legname che ha ottenuto una concessione in pieno parco nazionale di Conkouati, un tesoro ormai a rischio di biodiversità africana. Gli alberi abbattuti dalla Sino-Congo-Foret (Sicofor) contribuiscono alla deforestazione del bacino del Congo, la più grande foresta tropicale del mondo dopo l’Amazzonia. E le specie che lui caccia sono protette. La notte è calata quando Justin s’addentra nella foresta frusciante di grida di uccelli e insetti, tre cartucce in tasca, fucile in spalla e una torcia elettrica legata alla testa per accendere bagliori negli occhi delle sue prede. La battuta di caccia è fuori dall’ordinario: è accompagnato dal direttore generale della Sicofor, il cinese Philippe Zhang e il suo autista congolese, da un fotografo italiano e dall’autore di queste righe. L’onore di guidare quella piccola pattuglia gli è stato concesso per via della sua ultima prodezza: all’alba, mentre i 70 operai del campo di Mpoumbou cominciavano a uscire dalle capanne, Justin è comparso con una scimmia morta. Siccome quei boscaioli sono alloggiati in mezzo alla foresta e il primo villaggio, Cotovindou, è a due ore di pista, invece di fare la spesa vanno a caccia. «Anche se la Sicofor portasse del cibo, continuerebbero a cacciare», dichiara Michael Lasaka, il capocantiere filippino con un’alzata di spalle. «Pensano che soltanto la selvaggina dia abbastanza forza per tagliare gli alberi». Di forza ce ne vuole per abbattere 189 piante al giorno, la quota contrattata dalla società. Per ora i tagli oscillano da 50 a 100 piante al giorno. Guadiamo un fiume con l’acqua fino alle cosce. Poi un secondo. O era lo stesso? Passano le ore. La guida sembra meno sicura di sé. La speranza torna quando imita il grido dell’antilope, una sorta di lugubre miagolìo. Il fogliame si muove, ma ne ruzzola giù un ratto. Le batterie della torcia danno segni d’indebolimento. Attraversiamo un’altra volta il fiume. Justin è costretto ad ammettere che si è perso e che dobbiamo dormire qui, in mezzo alle formiche giganti. Zhang non è per niente tranquillo, ma affronta con coraggio la situazione. la sua prima uscita nella foresta. Davanti al fuoco acceso per aspettare l’alba, quest’uomo riservato si apre, finalmente, e racconta la sua incredibile storia in Congo, dove nulla sembrava destinarlo a dirigere un’impresa forestale. «Nel 1998, l’agenzia di stampa Nuova Cina mi ha mandato come corrispondente a Brazzaville. Nel Paese, a quei tempi eravamo una decina di cinesi, la maggior parte all’ambasciata. Nessuno usciva dopo le cinque di sera». Il Congo emerge dalla guerra civile che ha consentito all’ex dittatore marxista-leninista Denis Sassou N’Guesso di riconquistare il potere dopo cinque anni di pluralismo. «La mia vita è cambiata nell’aprile 2000, quando mi hanno chiesto di andare a prendere una giovane cinese all’aeroporto. Me ne sono subito innamorato». Si chiama Jessica Yé, ha 23 anni e viene a cercar fortuna in Africa. Diventerà sua moglie, ma soprattutto fonderà un impero economico in Congo dove risiedono ormai 80 membri della sua famiglia. Dopo tre mesi come traduttrice, apre un ristorante, presto rivenduto per importare container di cianfrusaglie cinesi che smercia in sei botteghe. Nel 2002, il suo futuro marito è richiamato a Pechino. Ma nella vita di Jessica c’è un altro Philippe: il fratello, che sta giusto terminando otto anni di Legione Straniera in Francia. Mentre Philippe il giornalista sbriga a Pechino le pratiche per i visti di tutta la famiglia e per le spedizioni di merce, Philippe il legionario e la sorella s’installano a Pointe-Noire, grande porto del Congo in cui aprono negozi. Comprano un locale notturno a Brazzaville e lanciano la Tavaf, un’impresa che produce finestre in alluminio. L’uomo che segue con maggior attenzione il folgorante inserimento nel Paese africano della famiglia Yé si chiama Xu Gong De. uno zio di Jessica e da vari decenni vive nel Gabon dove prospera con il legname e il petrolio. Nel 2006, viene a sapere che un’azienda forestale cinese del Congo, la Man Fai Tai, versa in cattive acque. «A Brazzaville ha trattato l’acquisto della ditta, ha creato la Sicofor e mi ha chiesto di lasciare Pechino e il giornalismo per assumerne la direzione a Pointe-Noire», prosegue Philippe. l’occasione buona per raggiungere Jessica e la loro figlia Bang Bang, di tre anni. «Conosce - dice - questo proverbio cinese? Quando l’albero si sposta, muore. Quando l’uomo si sposta, può trovare la fortuna». Philippe non poteva esprimersi meglio. Al mattino la guida trova finalmente l’uscita dalla foresta. Zhang riprende la pista nel suo lussuoso fuoristrada e supera decine di camion della sua azienda, carichi di tronchi che a Pointe-Noire verranno messi su un cargo con destinazione Cina. Nel 2006 il Congo ha esportato quasi un milione di metri cubi di legname, di cui il 66% di tronchi, nonostante una legge imponga di trasformare in loco l’85% della produzione. La Cina è il primo cliente: importa il 60% dei tronchi congolesi, soprattutto okoumé, per farne impiallacciature. L’Italia ne importa 30mila metri cubi (4,7 per cento). Alla fine degli anni Novanta, la cinese Man Fai Tai era protagonista di questo commercio, con cinque concessioni per un totale di 800mila ettari, di cui 93mila nel parco nazionale di Conkouati. Raccoglieva così i frutti dei servizi resi al presidente Sassou N’Guesso durante la guerra civile, come la fornitura di mezzi di trasporto per le sue milizie Cobra. Ma una gestione disastrosa e la violazione sistematica della legge avrebbero presto messo in ginocchio la Man Fai Tai e offerto il primo posto (57% del mercato) alla concorrente Taman, gestita da cinesi della Malesia. Gli altri attori, tedeschi, francesi o italiani, sono piuttosto impegnati nell’esportazione del tavolame, con volumi marginali rispetto a quelli delle aziende asiatiche. Nell’insieme, lo sfruttamento forestale nel bacino del fiume Congo (che comprende le due Repubbliche del Congo, il Gabon, il Camerun) è in forte aumento. Stando a uno studio del Woods Hole Research Center americano, un terzo di quella foresta (600mila chilometri quadrati, quasi due volte la superficie dell’Italia) è stato consegnato all’industria del legname. Le nuove strade, che per i bracconieri sono altrettanti accessi alla foresta, preoccupano quanto il taglio degli alberi. In Congo-Brazzaville rappresentano il 60% della rete stradale esistente e la loro costruzione sarebbe passata da 156 km all’anno negli anni Ottanta a 660 km all’anno a partire dal 2000. Ma Zhang ha altre preoccupazioni. «Dobbiamo gestire il lascito della Man Fai Tai: macchinari rotti, una cattiva reputazione, troppi operai, alcolizzati e demotivati». A Pointe-Noire i professionisti del legname ritengono che la Sicofor abbia iniziato bene. La produzione aumenta ogni mese, anche se è ancora distante dalla quota allocata dal Governo: 154mila metri cubi nel 2007 e 234mila metri cubi l’anno prossimo (cioè 335mila alberi). L’impianto di sfogliatura di Pointe-Noire è stato rimesso in funzione nel giugno scorso e già esporta verso Stati Uniti, Francia e Italia. La Sicofor si è impegnata a investire 40 milioni di dollari in tre anni. «La Cina mantiene una salda amicizia con i Paesi africani. E questo aiuta a gestire le relazioni con il Governo e a ottenere concessioni forestali», nota Zhang mentre apre il finestrino della macchina. Dal cofano, infatti, proviene un forte odore: la notte precedente, mentre tutti dormivano, l’autista ha preso il fucile di Justin per abbattere un’antilope e questa sera sua moglie ne farà un ragù. Quando nell’ottobre 2006 la Sicofor ha firmato la convenzione forestale, si è detto che il Governo cinese facesse parte dei suoi azionisti. «Non era vero», dice il direttore generale, divertito. «Era solo per facilitarci le cose». Secondo una fonte ben informata, la società conta un altro azionista, autentico questo, anch’egli capace di "facilitare le cose": il ministro per le Foreste Henri Djombo. Personaggio molto noto, drammaturgo, ex ambasciatore in Bulgaria negli anni Ottanta, è considerato il possibile successore del presidente N’Guesso. Finalmente giunto a Pointe-Noire, Zhang si precipita al Bel Air, un ristorante sulla spiaggia che la moglie ha appena rilevato, e chiama a raccolta i cugini per una foto di famiglia. Jessica arriva subito. Si aspetta suo fratello Philippe, che nel porto sorveglia lo scarico di un cargo di cemento cinese, il suo nuovo business. Il sole cala, tutti quanti prendono posto sulla spiaggia, le spalle al mare. «I congolesi ci dicono spesso che avrebbero preferito essere colonizzati dalla Cina piuttosto che dalla Francia», afferma Zhang, dopo lo scatto. «I francesi non hanno fatto nulla per questo Paese: niente strade, niente fabbriche. Se fossero venuti i cinesi, ci sarebbero grattacieli lungo tutta la spiaggia». Serge Michel **************** AFFARI IN ASCESA Una concessione insolita La società cinese Sicofor ha ottenuto dal Governo locale di poter abbattere alberi nel cuore del parco nazionale di Conkouati, tesoro - ormai a rischio - della biodiversità africana. L’obiettivo è tagliare 189 tronchi al giorno, al momento si riesce ad abbatterne tra i 50 e i 100 Esportazione da primato La Repubblica del Congo ha esportato nel 2006 quasi un milione di metri cubi di legname, il 66% del quale in tronchi nonostante una legge imponga di trasformare in loco l’85% della produzione. La Cina è il primo cliente: importa il 60% dei fusti. L’Italia ne acquista 30mila metri cubi Corrispondente a Brazzaville Philippe Zhang ha un passato da giornalista. Nel 1998 l’agenzia di stampa Nuova Cina lo manda a Brazzaville: «A quei tempi - ricorda - eravamo una decina di cinesi, in maggior parte all’ambasciata». La sua vita cambia quando nel 2000 incontra Jessica Yé, sua futura moglie Imperi di famiglia Xu Gong De - uno zio di Jessica che ha fatto fortuna nel Gabon con petrolio e legname - gli propone nel 2006 di dirigere a Pointe Noire la Sicofor, azienda creata sulle ceneri della fallita Man Fai Tai. Zhang lascia Nuova Cina e accetta l’incarico. La famiglia Yé, intanto, gestisce ristoranti. ******************** Grandi opere Una diga in cambio di petrolio Come può un Paese gravemente indebitato che sta uscendo da una guerra civile permettersi una grande diga idroelettrica? Si rivolge alla Cina. Nel 2001, mentre la Banca Mondiale e l’Fmi tengono il Congo a stecchetto, Brazzaville ottiene 280 milioni di dollari per realizzare finalmente la diga di Imboulou, 120 megawatt, prevista dal 1984. Il finanziamento è garantito da future vendite di petrolio congolese alla Cina. La China National Mechanical & Equipment corporation (Cmec) vince l’appalto, anche se non aveva mai costruito una diga. E l’ingegner Wang Wei dirige il cantiere, anche se non aveva mai messo piede in Africa. Lo troviamo a letto nel suo capanno di Imboulou, colpito dal primo attacco di malaria. I lavori devono essere terminati entro il 2009 per consentire al presidente Sassou N’Guesso di usare l’argomento-diga in campagna elettorale, ma hanno subìto notevoli ritardi. Anche la strada d’accesso dà filo da torcere ai cinesi. Wang Wei declina ogni responsabilità. «Siamo impegnati in una lotta contro la natura che in Africa è molto ostile». Ma resta fiducioso: «Finiremo in tempo». La società tedesca Fichtner, che controlla i lavori per conto del Governo congolese, non è dello stesso parere. «Si va verso la catastrofe», sussurra uno dei suoi dipendenti. «I cinesi non dichiarano mai gli incidenti sul lavoro. Hanno gestito male l’anticipo finanziario e sono sempre a corto di pezzi di ricambio». Tra la Cmec e i consulenti tedeschi ogni giorno ci sono dispute sulla qualità del cemento o su quali provvedimenti prendere una volta appurato che la diga "riposa" sopra un’enorme pozza d’acqua. Il delicato arbitraggio tra tedeschi e cinesi tocca agli ingegneri congolesi della Direzione generale delle grandi opere. «Negli anni Sessanta eravamo allo stesso livello di sviluppo della Cina», afferma Léon Ibovi, coordinatore del progetto Imboulou. «Ma oggi quelli sono diventati dei draghi. L’efficacia cinese fa sognare tutti». Sul cantiere, il problema maggiore resta la manodopera. Quattrocento cinesi istruiscono come meglio possono 1.200 operai congolesi pagati in media 3 dollari al giorno. «Per loro questo cantiere è una scuola, scompaiono appena sanno qualcosa», si lamenta Wang Wei. Perciò ha chiesto alle autorità locali di mettergli a disposizione dei carcerati. Serge Michel **************** Regole infrante La dura battaglia delle Ong C’è da scommettere che gli incubi di Hilde van Leuwe, dipendente belga dell’Ong americana Word Conservation Society (WCS), pullulino di creature dagli occhi a mandorla. Mese dopo mese, i cinesi completano l’accerchiamento della base di questa giovane donna, responsabile della protezione del parco nazionale di Conkouati, nel Sud del Congo. Quando abbassa gli occhi in direzione della laguna, vede i 500 cinesi della Bgp, un’azienda di esplorazioni petrolifere, aprire strade e far brillare cariche esplosive per conto della società francese Maurel & Prom (che nel febbraio 2007 ha ceduto all’Eni le proprie attività in Congo per un miliardo di dollari). Trivellazioni nel mezzo di un parco nazionale? «Abbiamo detto al Governo congolese che questo violava i suoi impegni, in particolare nei confronti del Governo americano che paga caro per questo parco nazionale», fulmina Hilde. «Ci ha risposto che fa quel che gli pare». La contemplazione dell’oceano non le porterà alcun conforto. Pescatori cinesi hanno attrezzato una trentina di motopescherecci in miniatura che setacciano le acque lungo la costa con reti lunghe svariati chilometri. Siccome una zona di sei miglia nautiche è riservata alla pesca locale e fa parte del parco nazionale, la Wcs è intervenuta. «Siamo rimasti sbalorditi - racconta Hilde - di fronte a un motopeschereccio che aveva una licenza speciale del ministero per la Pesca». E se si gira in direzione della foresta le rincresce sicuramente di avere soltanto 22 guardie ecologiche per sorvegliare 5mila km quadrati. Nel febbraio scorso, le guardie hanno intercettato un pick-up sulla strada per Pointe-Noire con sopra 86 carcasse di animali appena scongelate, compresi gorilla e scimpanzè. L’unico congelatore della foresta appartiene alla Sicofor. La Wcs è in una posizione delicata. «Se urliamo troppo, ci buttano fuori», riassume Hilde. In effetti alzare la voce spetterebbe al conservatore ufficiale del parco, nominato dal ministero per le Foreste e per l’ambiente, un certo Grégoire Bonassidi. La sua collaborazione con gli inquinatori sembra tuttavia acquisita: la Bgp gli versa 300mila franchi Cfa al mese, a titolo di "spese di gestione". Serge Michel
• Algeria, cantieri made in China. Il Sole 24 Ore 21 agosto 2007. ARBATACHE. Nell’Algeria intorpidita dal sole estivo sembrano in movimento soltanto i convogli dei matrimoni che inseguono per le strade un’auto fiorita. A osservare la situazione più da vicino però, in mezzo ai campi della Mitidja a Sud-Est della capitale c’è un’altra attività: la gara contro il tempo dei dipendenti cinesi del consorzio Citic-Crcc. Hanno quaranta mesi, a partire dal 18 settembre 2006, per costruire 528 chilometri dell’autostrada Est-Ovest, un record mondiale. Vicino al villaggio di Arbatache decine di camion gialli arrivati il mese scorso dalla Cina asportano terra da una piccola collina che, con questo ritmo, cesserà di esistere a breve. La depositano sul tracciato dell’autostrada che altri macchinari stanno spianando. Un po’ più avanti alcuni geologi cinesi tornano con dei campioni prelevati sui siti di due tunnel da scavare nelle gole d’Ammal. Circolano senza scorta e rispondono ai saluti con allegri inchini. difficile credere che dieci anni fa, a venti chilometri da qui, s’è compiuta la più grande strage della guerra civile algerina. Nella notte del 29 agosto 1997, uomini armati di asce, coltelli e fucili hanno sgozzato oltre 300 abitanti del villaggio di Rais. I colpevoli non sono mai stati identificati, ma l’esercito algerino, che ha una caserma a poca distanza, non s’è mosso per tutte le ore in cui è avvenuto il massacro. Siamo proprio nell’Algeria nuova del presidente Abdelaziz Bouteflika, che sembra aver voltato la pagina del terrorismo e che, grazie al prezzo del petrolio, incassa 60 miliardi di dollari all’anno e lancia progetti faraonici. Secondo il piano del presidente saranno spesi 140 miliardi di dollari per le infrastrutture da qui al 2009: una torta della quale i cinesi vogliono una bella fetta. I due tronconi di autostrada assegnati al Citic-Crcc, nel centro e a Ovest, si aggiungeranno alla rete esistente e ai 399 chilometri che un consorzio giapponese costruisce nell’Est del Paese. L’insieme di 1.216 chilometri, con tre corsie per ognuna delle due carreggiate, 11 tunnel e 25 viadotti, sarà inaugurato il 18 gennaio 2010. Coronerà il secondo mandato del presidente e costituirà il contributo algerino all’asse trans-maghrebino di 7mila chilometri tra il mar Rosso e l’Atlantico. L’energia dispiegata dai cinesi è motivo di stupore e di soddisfazione al ministero dei Lavori pubblici che è a capo del "cantiere del secolo" tanto caro al presidente. «Abbiamo imposto ai cinesi di utilizzare il 70% di manodopera locale affinché i nostri cittadini entrino in contatto con un’altra cultura. Avremmo parecchio bisogno della loro cultura del lavoro, piuttosto rigorosa», spiega senza ironia Omar Oukil, consulente per la comunicazione del ministro. «Ci servirebbe imparare a prendere le cose sul serio. I cinesi sono una razza a parte, fanno tre turni di otto ore, sette giorni su sette», aggiunge in conclusione della propria giornata di lavoro al ministero, già deserto allo scoccare delle 16. I giapponesi del gruppo Cojaal hanno le stesse scadenze dei cinesi, ma sostituiranno parte della manodopera con tecnologia avanzata. «L’altezza delle lame dei nostri bulldozer e tutti i movimenti dei nostri macchinari saranno dettati via satellite», spiega Atshushi Furuta, direttore generale dell’ufficio di Algeri, che pare lavorare giorno e notte nel suo quartier generale sulle alture della capitale. «Questo ci consente di sopperire alla mancanza di esperienza della manodopera locale e di ridurre i costi, anche se costruire un’autostrada in quaranta mesi non è molto conveniente». L’offerta giapponese per i 399 chilometri del troncone Est, 123 miliardi di dinari (1,3 miliardi di euro), ha agevolmente sconfitto quella dell’americana Bechtel (2,1 miliardi di euro) e del consorzio Italia (2,4 miliardi di euro), con Cmc, Todini, Pizzarotti e Impregilo. In totale, collegare la frontiera tunisina con quella marocchina costerà all’Algeria 824 miliardi di dinari (8,8 miliardi di euro): è il più grosso cantiere mai aperto nel Paese, al suo culmine occuperà 74.881 operai, 21.973 dei quali asiatici. Omar Oukil non è attratto dall’Asia e, contrariamente a un numero crescente di funzionari algerini, non ci ha mai messo piede. «Quando sono stanco, vado a riposarmi vicino a Marsiglia». Ma confessa di essere affascinato dai giapponesi. «Sui cantieri hanno un atteggiamento compìto che costringe al rispetto», afferma il dirigente del ministero dei Lavori pubblici. «Esprimono intelligenza e un’autentica eleganza. I cinesi invece hanno l’aria misera. Da offrire hanno soltanto le mani, la propria forza». Eppure quelli del campo base numero 2 di Khemis el Khechna, nel cuore della pianura della Mitidja a 40 minuti di macchina a Sud-Est di Algeri, fanno un’ottima impressione: uomini e donne sono giovani e ben vestiti, usano computer ultimo modello e rispettano alla lettera le innumerevoli consegne affisse sulla parete. Potrebbero essere più accoglienti, tuttavia. «Il vostro lavoro è finito! Uscite immediatamente!», urla un responsabile cinese del campo base nel quale siamo appena entrati. vero che ci manca un’autorizzazione della direzione del Citic-Crcc che non ha mai risposto alle nostre telefonate. Però disponiamo dei preziosi accrediti algerini e, soprattutto, siamo accompagnati da Rachid Azouni, direttore del troncone centrale dell’autostrada e rappresentante della direzione dei lavori, che alza il tono a nostro favore per far riconoscere la propria autorità. Il cinese continua tuttavia a urlare e gesticolare come se ritenesse che il suo campo-base fosse un possedimento cinese d’Oltremare, o extra-territoriale quanto un’ambasciata. Ma forse il suo nervosismo si spiega perché la nostra visita avviene in un momento inopportuno: alla fine della pausa pranzo, mentre escono dalla mensa i circa trenta cinesi presenti e offrono avanzi di cibo al cane e ai gatti che abitano nel cortile circondato da casette prefabbricate. Da alcune settimane, la stampa algerina trabocca di storie di animali domestici che scompaiono nelle vicinanze dei cantieri cinesi. « vero, li mangiano!», sussurra un collaboratore di Rachid Azouni. «Li ho visti strangolare un cane con un fil di ferro davanti alle cucine!». Approfittando della confusione, ci dileguiamo per fare un giretto della base, il cui aspetto è un misto di villaggio di vacanze e caserma. L’accesso è protetto da uomini armati e da filo spinato. Sistemati lungo i viali, degli altoparlanti diffondono a ore fisse esortazioni al lavoro e musica marziale. «Gli operai cinesi sono spremuti come limoni, perciò sono sempre in forma», scoppia a ridere un tecnico che vive nella parte algerina della base. Dalla parte opposta della zona per lo sport, un cinese in camice bianco, convinto che abbiamo il permesso di visitare la base, ci fa strada con orgoglio in una decina di laboratori dove sono appena stati installati circa 200 strumenti che servono a verificare i materiali dell’autostrada. Per la maggior parte sono di fabbricazione cinese, con le scritte in francese: rilevatore di calcio polivalente a lettura diretta, compattatrice automatica proctor-cbr, consistometro automatico con comando elettronico, tavolo vibrante per cementi, carotatrice elettrica universale, misuratore di K-Slump per cementi, angolometro per sabbia. Soltanto il penetrometro automatico per bitumi è italiano. Fin qui, nessuna di queste apparecchiature sembra essere stata usata: il vero inizio dei lavori è previsto a fine estate, con l’assunzione di decine di migliaia di algerini e l’arrivo in massa di operai cinesi. «Vent’anni fa ho visitato i vostri laboratori in Europa», dice con un sorriso enigmatico il responsabile della sezione di geotecnica stradale mentre ci riaccompagna al portone della base. «E ora siete voi che venite a vedere quello che facciamo noi». Il Citic è un gruppo finanziario misto, pubblico e privato, creato nel 1979 da Deng Xiaoping per controbilanciare l’onnipotenza delle imprese statali. presente con sportelli bancari in 44 Paesi, ha riserve dichiarate per 922 miliardi di yuan (90 miliardi di euro) e ha realizzato un centinaio di megaprogetti in cinque continenti: ponti, dighe, metropolitane, porti, tunnel, stadi. La sua consociata Crcc è per dimensioni la seconda impresa della Cina, con 220mila dipendenti e, tra le altre cose, ha costruito 14mila chilometri di strade e autostrade, oltre a 27mila chilometri di ferrovie, tra cui la famosa linea che collega Cina e Tibet. «I gruppi che abbiamo selezionato attraverso il bando sono di livello mondiale», conferma Mohammed Kheladi, direttore della divisione Programma Nove, che sovrintende ai 927 chilometri attribuiti ai due consorzi asiatici. Nel suo quartier generale su una collina di Algeri, che un’impresa cinese ha appena finito di allestire, regna un’attività da alveare. Parte dell’amministrazione algerina, infatti, ha adottato il ritmo cinese. «Facciamo cinque turni di da otto ore!», scherza M. Kheladi, che ci riceve nel tardo pomeriggio. Pur di non dare ai costruttori (che «sollecita in continuazione») il benché minimo pretesto per un ritardo, deve accertare che il tracciato sia liberato dalle abitazioni e dalle reti per l’acqua, l’elettricità e il gas, che i campi base siano adeguatamente installati, i pagamenti effettuati, i macchinari fatti transitare dalla dogana, la manodopera algerina assunta e formata, i visti emessi per gli espatriati, senza parlare dei cambiamenti del tracciato come quello destinato a limitare l’impatto sul parco nazionale di El-Kala, alla frontiera tunisina. «Questa autostrada produrrà nel Paese armonia e sviluppo», dice. «Lungo il suo percorso sorgeranno città e villaggi. Sarà un semaforo verde per gli investitori e i turisti». Nelle alte sfere si ritiene che per le imprese cinesi in Algeria l’autostrada sia anche una specie di esame di riparazione. «Se ce la faranno, troveranno tutte le porte aperte», lascia intendere un uomo vicino alla presidenza. Per il momento i responsabili algerini si mostrano infatti alquanto delusi. Nel 2001 e nel 2002 l’Agenzia nazionale per il miglioramento e lo sviluppo delle abitazioni (Aadl) è stata incaricata di costruire 55mila alloggi in tutto il Paese. Ne ha affidati 29.247 al gigante cinese Cscec. La costruzione doveva durare due anni, ma non è ancora terminata. Sottoposta a intense pressioni popolari, l’Aadl scarica la colpa sui cinesi. «Non siamo soddisfatti», accusa il direttore Kheireddine Walid. «I cinesi non hanno fatto tutto il possibile. E siccome nessuna impresa algerina è in grado di sostituirli, non possiamo rescindere i contratti». A dire il vero, la responsabilità dei cinesi per questi ritardi sembra piuttosto limitata. Sul versante algerino, l’acquisizione dei terreni è stata più ardua del previsto. Attorno alla capitale dove i terreni liberi sono rarissimi, alcuni siti troppo in pendenza non avrebbero mai dovuto essere scelti. Poi la burocrazia algerina è affondata nelle migliaia di domande di visti per gli operai chiamati sui cantieri. Quando finalmente sono cominciati ad arrivare, nel 2003, è scoppiata la Sars, l’epidemia che per sei mesi ha bloccato ogni uscita di manodopera dalla Cina. Nello stesso anno, il terremoto di Boumerdès (2.200 morti) ha coinvolto diversi cantieri, e per mesi il timore di ulteriori scosse ha reso impossibile colare cemento. Senza contare i rifornimenti locali di sabbia o di cemento, spesso caotici, e soprattutto il ritardo cronico delle imprese algerine associate, in particolare per la viabilità e i raccordi stradali. Su vari cantieri, come a Ouled Fayet, gli operai cinesi si sono ritrovati disoccupati non per causa loro e sono scesi nelle strade per protestare: vengono pagati solo quando lavorano. Serge Michel ****************** LA MISSIONE DI BOUTEFLIKA Grandi opere Secondo il piano di rilancio messo a punto dal presidente Abdelaziz Bouteflika, da qui al 2009 saranno spesi 140 miliardi di dollari in infrastrutture. La maggior parte dei finanziamenti arriva dal petrolio, che garantisce al Governo 60 miliardi di dollari all’anno. Il fiore all’occhiello di questa stagione sarà l’autostrada che collegherà la frontiera tunisina con quella marocchina: i cinesi ne costruiscono 528 chilometri Obiettivo: 18 gennaio 2010 In questa data dovrebbero essere inaugurati le corsie (tre per ognuna delle carreggiate), 11 tunnel e 25 viadotti del megaprogetto autostradale avviato il 18 settembre 2006. Ai due tronconi di autostrada affidati ai cinesi (centro e Ovest) si affianca una porzione (399 chilometri) costruita da un consorzio giapponese: uniti alla rete esistente, coprono in totale 1.216 chilometri Non una parola di francese E nemmeno una parola di arabo: il signor Li (nella foto sotto), responsabile dei cantieri di Algeri della Cscec - società cinese leader del settore edile - vive in Algeria da cinque anni ed è costantemente accompagnato dalla sua traduttrice. Qui è fotografato davanti ai palazzi che la Cscec sta costruendo a Ouled Fayet, alla periferia della capitale. La società, 122mila dipendenti, punta entro i prossimi due anni ad assicurarsi il 5% del mercato edile mondiale, ovvero 25,5 miliardi di euro Crescita inarrestabile Gli edifici del complesso Le Bananier (nella foto sopra), sorti nei sobborghi di Algeri, fanno parte dell’ambizioso piano edilizio del Governo algerino: costruire oltre un milione di case a tempo record per cercare di risolvere il drammatico problema della mancanza di case a fronte di un incessante aumento della popolazione. Anche questi palazzi sono stati realizzati dalla cinese Cscec. In molti casi l’accordo con il ministero dei Lavori pubblici prevede che buona parte della manodopera sia algerina ***************** «La gente di qui non può lavorare quanto noi». Il Sole 24 Ore 21 agosto 2007. ALGERI. La scena si svolge nell’ingresso di un appartamento nuovo e ancora vuoto dell’edificio 14 di Ouled Fayet, alla periferia di Algeri. I protagonisti sono Jaffar Tahal, capo cantiere per l’Aadl (Agenzia nazionale per il miglioramento e lo sviluppo delle abitazioni), Abdallah Djaouda, di un ufficio studi incaricato di seguire e controllare i lavori, e il signor Li, responsabile dei cantieri di Algeri per la Cscec, una società cinese leader del settore, con 122mila dipendenti, che entro due anni mira a conquistare il 5% del mercato edile mondiale, ovvero 25,5 miliardi di euro. Il signor Li risiede da cinque anni in Algeria, ma non sa una parola né di francese né di arabo. accompagnato dalla sua traduttrice. Basta fare una domanda per avviare un acceso ed emblematico confronto. La qualità di questo alloggio è paragonabile a quella delle costruzioni della Cscec in Cina? Il signor Li : In Cina è migliore. J. Tahal: E come mai? A. Djaouda: Sono certo che è questione di disciplina. Con loro, il programma viene rispettato. Se è previsto di colare cemento alle 20, il tizio che fornisce la ghiaia arriva spaccando il secondo. E quello dei ferri pure. Non c’è mai una stonatura! Il signor Li: I materiali sono diversi. In Cina si lavora con solette a putrella. Si fanno gli infissi delle finestre in alluminio, non in legno. Quindi viene meglio. J. Tahal: E allora perché non avete portato quel materiale qui? A. Djaouda: Vorrei fare una domanda! Il signor Li: In Cina gli abitanti finiscono da sé l’imbiancatura e la pavimentazione. O chiamano ditte specializzate. Quindi viene meglio. A. Djaouda: Mi date la parola? Abbiamo un grosso problema. In Algeria non abbiamo una manodopera qualificata. I cinesi prendano i nostri giovani per formarli. l’unica cosa di cui abbiamo bisogno! Il signor Li: Non è un problema nostro. Non abbiamo voglia di formare gli algerini. Bisogna vedere la differenza di lavoro, di potenza. Per gli algerini non è possibile lavorare così a lungo come i cinesi. A. Djaouda: L’edilizia è proprio l’ultimo dei mestieri per i quali dobbiamo fare appello ai cinesi. Gli algerini hanno ricostruito la Francia! J. Tahal: Volevamo anche che finissero questo cantiere in venti mesi, e siamo a 50! Il signor Li: A volte ci vogliono sette mesi per ottenere un visto algerino. Non abbiamo mai avuto tutti gli operai che ci servivano. J. Tahal: Ma è così in tutto il mondo. Uno Stato non può mettersi a distribuire visti come fossero panini! A. Djaouda: Comunque i vostri operai sono andati a lavorare altrove. Alcuni hanno aperto negozi. Il signor Li: Non è possibile. Li controlliamo tutti. Teniamo il loro passaporto in cassaforte. A. Djaouda: I cinesi hanno una capacità di adattamento incredibile. Sono un popolo ingegnoso, preparato a risolvere i problemi. Gli algerini, i francesi, gli italiani, se non hanno A e B per fare C si bloccano. I cinesi trovano un’altra via. Se la gru si guasta, non fermano il cantiere! Il signor Li: Utilizzavamo la sabbia nera, è stata vietata. Si è dovuta sostituire con sabbia da cava. Abbiamo perso otto mesi. A. Djaouda: Le casserature che fanno loro, non le avevo mai viste. Sono arcaiche, ma funzionano. Il signor Li: Un altro problema, va detto, è quello finanziario. Siamo pagati con mesi di ritardo. A. Djaouda: I cinesi sono fantastici. Di sera, dopo il cantiere, fanno del bricolage. Per Ouled Fayet non hanno comprato roba nuova. Hanno aggiustato macchinari che erano stati portati a demolire! E i dumper. Se li sono costruiti da soli, nelle ore libere, con motori da automobile e pezzi di lamiera! Serge Michel