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 2016  novembre 12 Sabato calendario

Riarmo, numeri da Guerra fredda

• Riarmo, numeri da Guerra fredda. Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2007. «Whatever happens, we have got/the Maxim gun, and they have not», declamava Hilaire Belloc un secolo fa esatto, quando i bianchi avevano le mitragliatrici e bastavano poche Maxim in Asia o Africa per riaffermare l’autorità europea, oggi da tempo scomparsa. Tutti, da decenni, hanno le armi. E dopo la pausa degli anni 90, finita la Guerra Fredda, molti hanno ripreso ad armarsi, vecchi regimi mediorientali o africani e nuovi protagonisti di un’Asia entrata anche in questo in pieno sulla scena. Stati Uniti, Europa e Russia sono tornati in forze come fornitori sul mercato delle armi. Nuovi e «particolarmente spregiudicati» mercanti - così Amnesty International definisce la politica cinese - si sono fatti avanti. Il commercio di armi non è mai stato florido come adesso, alimentato da budget militari che nel 2004 hanno superato i mille miliardi di dollari, tappa simbolica raggiunta con una crescita costante avviata nel 1996 e che ormai ha portato nel 2006 la spesa militare - cresciuta del 34% tra il ’96 e il 2005 - a un soffio dal livello degli ultimi anni della Guerra Fredda. Allora gli Stati Uniti accelerarono, e l’Urss crollò. Oggi sono Cina, India e Arabia Saudita a registrare i più forti incrementi di spesa, in un quadro dominato sempre dagli Stati Uniti con 478 miliardi di dollari nel 2005, oltre 441 nel 2006, 463 nel 2007 e una richiesta presentata questa settimana di 481 miliardi per l’anno fiscale 2008 (escludendo i costi per Iraq e Afghanistan che saranno di 142 miliardi). americano il 48% delle spese mondiali per la difesa. Al secondo posto, con un decimo del bilancio del Pentagono, viene la Gran Bretagna, al quinto la Cina e al nono la Russia, con cifre considerevoli giudicate però dagli esperti molto opache e che, nel caso russo, alcuni accreditati analisti tendono a raddoppiare. L’Italia è, formalmente, decima. Ma sono i mutamenti nel mercato delle esportazioni belliche verso i Paesi in via di sviluppo che, insieme al risveglio militare dell’Asia, preoccupano maggiormente. I russi si sono risentiti quando in autunno l’ultimo Sipri Yearbook, il rapporto annuale dello Stockholm international peace research institute, li ha identificati con 6 miliardi di dollari di fatturato nel 2006 come esportatori numero uno per il periodo 2001-2005, posizione che avevano già avuto in passato. La produzione di sistemi di difesa e armi è in continuo aumento dalla metà degli anni 90, con un balzo del 15% nel 2004 per i primi 100 costruttori mondiali. Secondo il Sipri, l’export di armi convenzionali (piccoli calibri esclusi, compresa l’artiglieria sotto i 100 millimetri, di difficile rilevazione per il Sipri) ha toccato nel 2005 i 25 miliardi, a dollari costanti 1990. I cinque maggiori Paesi fornitori monopolizzavano nell’82, anno record per le vendite di armi convenzionali, oltre l’80% del totale (erano nell’ordine Urss, Usa, Francia, Gran Bretagna e Italia) e vendevano soprattutto in Medio Oriente. Oggi i primi cinque (Russia, Usa, Francia, Gran Bretagna e Olanda) hanno sempre l’80% circa del mercato, dimezzato rispetto a 25 anni fa, ma in crescita costante da anni, e con un sostanziale spostamento della clientela dal Medio Oriente all’Asia. L’export verso i Paesi emergenti, Cina e India compresi, è stato di oltre 30 miliardi nel 2005 secondo uno studio del Congresso americano, con un balzo dai 26 miliardi del 2004. la cifra più alta dal ’98. «un aumento di spesa reale, ma non così vistoso se si tiene conto dell’inflazione. Soldato tecnologico, larga banda satellitare e combattimento notturno lievitano i costi e nessuno rinuncia al giocattolo più bello - osserva il generale Mario Arpino, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa -. poi vero che non ci sono mai state tante guerre come da quando è scoppiata la pace, e c’è chi ne trae vantaggio. C’è da preoccuparsi? Direi di sì, molto». E non soltanto per gli squilibri di Paesi che spendono più per le armi che per la sanità, com’è spesso il caso nell’Africa subsahariana e in molte dittature dove la spesa militare tende a essere superiore del 2% del Pil rispetto a Paesi vicini non dittatoriali. Ma soprattutto per l’emergenza di nuovi, ingombranti protagonisti sul mercato della Difesa, India e Cina per primi. Pechino spenderebbe, secondo i propri dati ufficiali, metà di quanto stanzia Londra, circa 20 miliardi di dollari. Ma anche se cinque giorni fa il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha definito «sciocchezze» i timori espressi a livello internazionale sulla crescita esponenziale del bilancio, nessuno crede alle cifre ufficiali. Che andrebbero raddoppiate o triplicate, secondo molti esperti. Con il J-10, il nuovo caccia tutto cinese entrato in linea a dicembre, sviluppato con l’aiuto di tecnici russi e israeliani, con prestazioni non lontane da quelle dell’F-16 americano, Pechino ha fatto un passo deciso verso lo sviluppo di un’industria bellica importante. Con la spettacolare distruzione a gennaio di un piccolo satellite ad opera di un proprio missile balistico, Pechino ha dimostrato di essere un protagonista anche nello spazio, rilanciando le guerre stellari e il capitolo, costosissimo, della difesa spaziale americana. L’India, con la gara aperta per 126 nuovi caccia (10 miliardi di dollari) e bilanci militari da anni in costante ascesa, non resta indietro. Entrambi i Paesi asiatici, Cina in testa, sono i migliori clienti dell’industria bellica russa. In uno scenario in costante movimento, l’Europa si è adeguata alla nuova realtà più nelle parole che nei fatti. Le due anime militari, quella Nato e quella della Difesa comune europea, stentano a collaborare. L’Agenzia europea di difesa, che dovrebbe stimolare i bilanci a far fronte alle guerre del futuro e non a quelle del passato, si è chiesta a ottobre che cosa se ne faccia l’Europa di 10mila carri armati e 3mila aerei da combattimento. «Il fatto è che il nuovo modello di difesa è stato adottato concenttualmente, non nella pratica - spiega ancora il generale Arpino -. L’Europa, con due milioni di soldati alle armi, non può esprimere 70mila soldati proiettabili per la forza prevista dalle intese di Helsinki, e ha ripiegato su pochi battle group. L’Italia, con 200mila uomini e 120mila carabinieri, solo a fatica riesce a metterne in campo, nelle missioni, 10mila. Considerando pari a 100 la spesa militare degli Stati Uniti, che rende 90, l’Europa spende 60, ma con un rendimento inferiore a 20. Occorre razionalizzare. L’Italia, con un rapporto spese difesa/Pil inferiore a 1, veste una maglia nera senza rivali». Mario Margiocco
• Gli arsenali del XXI secolo. Il mercato. Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2007. CHI ACQUISTA DI PIU’. Le importazioni di armi nel periodo 2001-2005. Dati in milioni di dollari a prezzi costanti 1990. Cina: 13.343 India: 9.355 Grecia: 6.105 Egitto: 2.901 Israele: 2.873 Turchia: 2.800 Corea del Sud: 2.561 Iran: 2.143 I FORNITORI. Dati in milioni di dollari a prezzi costanti 1990. Russia: 28.982 Stati Uniti: 28.236 Francia: 8.573 Altri: 8.506 Germania: 5.603 Gran Bretagna: 3.933 Ucraina: 2.226 Canada: 1.971 Olanda: 1.868 Italia: 1.858 Svezia: 1.760 LA SPESA MONDIALE 1989-1991: con il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Urss si conclude la Guerra fredda e la corsa agli armamenti. 2001: L’attacco alle Torri gemelle spinge la spesa militare antiterrorismo 2004: L’India lancia un programma di acquisti militari. Prime manovre navali congiunte con la Cina. (Fonte: Sipri Arms Transfers Database)
• Smith: così sono cambiati i conflitti. Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2007. Le guerre non sono e non saranno mai più quelle di una volta e i generali, spesso accusati, a ragione, di combattere il conflitto di ieri o dell’altro ieri, questa volta lo hanno capito prima dei politici, che continuano ad armarsi come in passato. O almeno se n’è accorto qualche generale. la tesi che l’inglese Rupert Smith, 62 anni, smessa l’uniforme nel 2002 dopo importanti comandi in Iraq, Balcani e alla Nato, ha affidato a un pensoso libro di 430 pagine, The utility of force. Tha art of war in the modern world, edito poco più di un anno fa da Allen Lane in Gran Bretagna e appena pubblicato da Alfred A. Knopf negli Stati Uniti. Smith non è un isolato, e molti alti ufficiali d’Europa e d’America sono su linee non dissimili (si vedano nell’articolo principale i giudizi del generale Arpino). Ma non è ancora del tutto politically correct professarle. «La guerra non c’è più - dichiara Smith -. I conflitti non saranno più combattuti fra Stati, ma in mezzo alla gente». I nemici saranno regimi avventurosi e spregiudicati e il terrorismo. Il guaio è che i Governi e vari Stati maggiori mantengono grosse, rigide e monolitiche strutture militari anacronistiche ormai quanto la Linea Maginot. E quindi i leader politici non fanno buon uso del denaro pubblico assegnato alla Difesa, perché lo spendono per strutture che non sono in grado, quando necessario, di applicare la forza in modo efficiente e razionale. Il caso irakeno, dove bande di guerriglieri tengono in scacco 120mila uomini dell’esercito più moderno del mondo, parla chiaro. Smith fa ampio uso della storia militare, per arrivare a sostenere che oggi, con le guerre tradizionali, sono finite anche la vittoria e la pace. Solo attente, tenaci e precise operazioni politiche, diplomatiche e militari convergenti, e limitate, possono risultare per qualche tempo efficaci. Mario Margiocco