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 2016  novembre 12 Sabato calendario

Pascali geniale e vitale

• Pascali geniale e vitale. La Repubblica 7 giugno 2006. Pino Pascali. Una grossa motocicletta percorre i sottopassaggi del Corso d´Italia, verso la via Nomentana: sulla sua destra, una notte di settembre del 1968. Una "media cilindrata", negli stessi sottopassaggi, nella stessa direzione, tenta invece una improvvisa "conversione a U", su un senso unico e in curva. Lo scontro è violentissimo. Il motociclista si spacca il cranio. Però, forse perché «motocicletta» equivale a sfrenatezza mentre «media cilindrata» corrisponde a buon senso, gli "astanti" e gli "accorsi" e la polizia ricoprono il corpo con un telo; e si commenta «è morto uno zingaro». Pino Pascali vestiva infatti pantaloni neri e cinturone a borchie, stivaletti bassi e maglioni di molti colori. Aveva pelle scura, pugliese, e ricci nerissimi, a cavatappi. Fosse stato invece vestito "da artista", come nella Bohème e in via Margutta, quella sera, sarebbe ancora vivo?... Chissà, avesse magari portato almeno un baschetto, una berretta di velluto, un golettone col fiocco, un pompon, probabilmente qualcuno avrebbe sospettato di trovarsi di fronte a un personaggio fra i più importanti e più seri nell´arte contemporanea, conosciuto a New York e a Parigi, lodatissimo da Brandi e da Argan. Secondo una leggenda immediata, una persona amica passa per caso, riconosce la moto, fa di tutto per accelerare il trasporto a un ospedale, e poi a un altro, stacca l´assegno indispensabile a mettere in moto le cure... Ma chiunque sa che bisognerebbe muovere il meno possibile chi ha il cranio spaccato. Pino Pascali aveva una fibra fortissima. Si dibatte per giorni senza mai riprendere conoscenza. Poi muore lo scultore forse più dotato della generazione giovane, nella stagione stessa in cui una sala straordinaria (e forse un premio) alla Biennale veneziana gli avrebbe tirato addosso un grosso successo in tutto il mondo. Questa sua sala alla Biennale del 1968, presentata da Palma Bucarelli, Pascali l´aveva appassionatamente voluta, naturalmente. E mai si sarebbe sognato di mandare un´opera a un´esposizione per poi voltarla e rivoltarla o impacchettarla secondo le mode e le convenienze. Eppure si era appena riusciti a darvi uno sguardo, arrivando a quel vernissage in una Venezia sconvolta dalla manifestazioni "alla parigina" e dalle manganellate "alla Scelbere". I giovani insorgevano, i poliziotti picchiavano, i vecchi autori accorrevano e commentavano, le egemonie periclitavano, slogan e documenti si moltiplicavano; e intanto la Biennale ’68 diventava una Biennale altra. Una fantastica rassegna di imballaggi e involucri senza nome, che con un po´ di previdenza si sarebbero dovuti conservare, per venderli a prezzi pazzeschi nelle grandi aste future. E anche una memorabile sfilata o carrellata di corpi, comportamenti, allestimenti, performance e body-art ante-Christo e pre-Beuys... Che "azioni". Che "installazioni". Fra Novelli che voltava i suoi quadri contro la parete, e Leoncillo che rivestiva di carte e scotch le sue ceramiche, Pino arrivava carico di fogli di compensato in spalla, martello e chiodi in mano, e inchiodava addirittura le porte. Ma quella sala era piena di capolavori. Recentemente e parzialmente esposti alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, ma allora spesso visitati all´Attico di Sargentini in via Beccaria, che era però un garage (o talvolta scuderia d´arte, coi cavalli di Kounellis), sotto casa mia in via Gianturco. Dunque s´andava giù festosi con l´inimitabile Alexandre Iolas, vecchio furetto gallerista illustre che a Milano si trovava ogni sera negli allegri locali, fra Allen Ginsberg in camicione da sant´uomo e Rudi Nureyev in nappe lucenti, e altri instancabili in cerca di soddisfazioni e informazioni su misure e pericoli. Giù all´Attico, invece, enormi cannoni e immani creste di tele incollate su mostri marini centinati a brani. Tra pouf e tappeti di pelo acrilico e paglietta di ferro con crepitii; e i «bachi da setola» assemblati infilzando spazzoloni in nylon da Upim... Estremi prodotti di una carriera geniale e vitale apparentemente inarrestabile... Addirittura, non «Il cielo in una stanza» come da canzone, ma «IL MARE» in vasca al Flaminio. Li chiamavamo «i materiali inquietanti». Tubi e gomme e polistiroli e poliuretani e plexiglas e perspex e vinilpelli ridipinte e industriali di Gino Marotta e Franco Angeli e Mario Ceroli e Fabio Mauri e Cesare Tacchi e Tano Festa ed Eliseo Mattiacci... Fra l´Attico sottocasa e la Tartaruga di Plinio sopra il "Bolognese": i momenti più significativi di un attimo struggente nelle nostre arti: "figurative"? Forse che sì, forse che no... Quando il gran movimento Pop era una love story commerciale fra un gruppo d´artisti di Leo Castelli e l´iconografia dei prodotti da supermarket... Mentre certi nostri vecchi (tipo Ettore Colla) trovavano e raccattavano soprattutto materiali anonimi, naturali o artificiali o dismessi, senza griffe né logo, ma non meno intensamente caratteristici di un nostro certo ora e qui. Così, dopo aver buttato via per sempre scalpelli e pennelli, in circuiti ormai rapidissimi di "ripescaggi" e "prestiti", cosa veniva realmente "prima"? L´invenzione "pura" dell´artista avanzato? L´applicazione pubblicitaria del diplomato designer? La promozione intellettuale delle scorie dell´Italsider? O magari le strutture primarie accidentali create dall´industria delle resine sintetiche? A questa recente mostra di Pascali si è rivisto il famoso «Primo piano labbra» madornale citazione dell´«Observatoire» di Man Ray, dove un´identica bocca plana da un cielo a pecorelle su un bosco notturno. Giulio Bollati lo scelse per la copertina della mia Bella di Lodi (Einaudi, 1972). E allora il fondo era di un carnicino "mosso": come del resto appare sulla copertina dell´attuale catalogo. Però, in mostra, il fondo è diventato bianco lucido, compatto come di smalto. Vidi Pino quasi alla fine. Filmavo per un programma RAI, «Matita blu», il modo di operare di questi artisti, nel loro ambiente di lavoro. In un immenso garage nomentano, pieno di ferri e di setole, lui in pochi minuti mi intrecciò un plaid di paglietta da lavandino, chiamato «Penelope». La motocicletta era immanente e "astante" in un angolo. Si filma anche quella? Ribatté: «I mezzi di trasporto non fanno parte del modo di operare». Alberto Arbasino
• Pascali geniale e vitale. La Repubblica 7 giugno 2006. P. P. Pasolini. «La Letteratura come Vita colpisce ancora!», fu uno dei primi commenti emotivi. Come quando Byron o Pushkin finiscono per diventare uno dei loro personaggi, siglando con una morte «in stile» un´opera altrettanto «inimitabile». Con tutti i dettagli realistici ed emblematici che tornano fin troppo: come nella fine tragica di Giangiacomo Feltrinelli. O di James Dean. Ma lì invece qualcosa non torna. Altro che masochismi e fatalismi autolesionistici. Quando si è così disperatamente impegnati in una forte polemica ideologica, e da decenni si incappa in trappole ad ogni passo, in un paese lazzarone dove i giovani ammazzano come belve, il rispetto della propria figura pubblica ingaggiata in una battaglia civile non impone forse di evitare almeno il rischio di un flash in mutande, che ridicolizzerebbe decine di articoli moralistici sul palazzo e sulle lucciole? Non un Angelo della Morte, come nei balletti di Béjart o Petit, ma un paparazzo da strapazzo appostato nei cespugli per sputtanare il moralista luterano in gruppi di minorenni senza pantaloni, come negli spogliatoi degli oratorii? Un dubbio che registrai subito sul «Corriere della Sera»: non solo il rischio dello sputtanamento fotografico in stile «Dolce vita» nel momento più vistoso delle polemiche etiche. Ma anche un qualche riguardo o affetto per i propri libri e i loro titoli non suggerirebbe di evitare le occasioni di ritrovarseli cucinati in sviluppi boccacceschi o picareschi simili a sceneggiature di seconda mano? Oltre tutto, perché non depositare almeno da un notaio le "prove" di cui ci si dice in possesso, e farlo sapere? (Nei misteri d´Italia, pare che tuttora si depositi poco. Ma nei casi di "denunce", le pezze d´appoggio sarebbero indispensabili). Ora, da qualche tempo, tutta una generazione ormai anziana si commemora e rimpiange addosso la propria gioventù e gli entusiasmi di quegli anni Sessanta e Settanta che Pier Paolo trovava abominevoli rievocando invece l´Italia contadina degli anni Trenta e Quaranta, frugale ma senza i pregiudizi successivi contro la "pedofilia" (termine recentissimo). Così il pubblico periodico potrebbe osservare che si mantiene regolare un vagheggiamento ciclico del passato (sia rurale sia metropolitano), con una deprecazione costante dell´Italia presente, ieri perché accattona e oggi giacché consumistica. A parità di peggioramenti degli italiani e dei loro malgoverni, nel corso dei decenni delusi che non si ripetono solo «où sont les neiges d´antan», ma anche dove sono finite le mamme e le spiagge e le pesche d´una volta. Altro che «Passione & Celebrazione» o «Passione & Speculazione» a cura degli enti pubblici, poi. Qui mai andrebbe trascurato il memorabile choc di costume - davvero «la fine di un´epoca» - quando improvvisamente si chiudono i tradizionali secoli di larga disponibilità maschile erga omnes, del tipo «qui ce n´è per tutti», senza categorie né etichette. E improvvisamente «ci sono le ragazzine che te la danno». Un trauma generazionale insanabile - poi rimosso dai conformismi imperanti nelle commemorazioni "corrette" - allorché dopo ère geologiche di libido reciproca lì per lì scatta il terribile «ma tu non lo fai bene come la mia ragazza». «E quanti anni ha?». «Quattordici, come me». Shock analoghi si tramandavano dall´età romantica, quando i gondolieri veneziani famosamente smisero di incoraggiare i viaggiatori solinghi nei notturni lagunari senza luce elettrica. E quando poi scomparvero anche i rematori nubiani che si disputavano i grand-touristi singoli sulle feluche di Assuan. (Temi ormai per contributi accademici da leggere ai convegni in vista di qualche pubblicazione scolastica). Erano veramente Altri tempi, come nei titoli dei film d´allora. A nessun letterato o artista davvero importava che «after hours» - cioè quando i Moravia e gli altri "Cenerentoli" erano andati a dormire perché all´alba dovevano scrivere un nuovo romanzo - si andasse gratis coi "bonazzoni" americani di Cinecittà o coi "giovani mariti" pariolini in parcheggio a Valle Giulia. Ma "nemmanco" si rammaricavano (politicamente, o economicamente) per le spese sostenute da P. P. rimorchiando marchette a Termini ogni sera. Oggi. Oggi, con gli immigrati o coi monsignori, chi la farebbe franca a Tor Vaianica o a Valle Giulia? Ora però, nel formicolio delle iniziative «sui luoghi stessi» delle sue varie attività e manifestazioni, è mancato qualunque evento adatto a commemorare il grande spazio dedicato da P. P. alle "batterie" con i ragazzini ogni sera, talvolta anche con lesioni ed ecchimosi, ma senza forse "battute" da parte di genitori o fratelli maggiori, o comunque cittadini oggi attentissimi ad ogni sentore di «pedofilia». Il «moralismo imperante» d´oggi rimuove e censura quegli aspetti "tabù" della sua personalità. Ma allora, quando si alzava ogni sera dalle tavolate letterarie, presto, perché spiegava che i ragazzini non potevano far tardi, nessuno si scandalizzava, così come nessun comitato o privato protestava a causa delle ballerinette quattordicenni di Degas sulle enciclopedie scolastiche, o per le minorenni viziose di Balthus, che oggi creerebbero problemi sui siti Internet. Era un´epoca diversa, come ripete chi ricorda che allora dieci persone fumavano insieme a tavola, mentre ora sarebbero biasimatissime. «Adesso c´è la sensibilizzazione», sentenzia la sora Cecia. «Prima non c´era. Adesso c´è». Le memorie-fantasma riemergono ora a frotte: come quando lui riaffiorava improvviso e trafelato da oscure fosse e fratte. Una sera si pranzava con Cesare Brandi e Giovanni Urbani e alcune signore in una pittoresca osteria desolata fra due cavalcavia sull´Appia Antica. E Pier Paolo si arrampicò di corsa su questo montarozzo, trafelato e come inseguito. Cesare fu subito assai compito. P. P., molto imbarazzato. Giovanni ci fece osservare: è molto imbrattato, facciamo finta di nulla. Nessuna "lectio magistralis" strutturale o semeiotica. Un´altra volta emerse affannato dalle oscure e animate campagne presso Civitavecchia. «Mi dai una mano? Ho la batteria scarica». Aveva una grossa spider bianca, e gli altri erano scappati. Spingemmo un po´, e la macchina ripartì. Mi resta un buon ricordo concreto: un ritratto che mi fece mentre scrivevamo un dialogo a quattro mani. Da una parte, c´è scritto, «A. A. in un atto di industria culturale (abietto, naturalmente)». E dall´altra: «Io, mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere». Ma in realtà è un suo autoritratto. Alberto Arbasino
• Pascali geniale e vitale. La Repubblica 7 giugno 2006. Arnaldo Pomodoro. Nei madornali e sensazionali spazi ex-industriali della sua Fondazione, a Milano, i colloqui fra le sculture italiane del Novecento (e le loro memorie storiche) sono più fitti e intensi (e drammatici) che gli incantevoli dialoghi fra marmi classici e macchinari elettrici nella romana Centrale Montemartini. O le conversazioni fra «picconi, bulloni, crogiuoli, pulegge, roncole, antenne, palette, ancore, argani... « secondo l´estetica pre-poveristica di Ettore Colla. O quelle tavole rotonde di «identità e organicità e progettualità e prerogative e proporzioni e presunzioni e prospezioni e problematiche, eccetera» care ai birignao accademici indifferenti al rifiuto di Roberto Longhi di usare «parole a desinenza concettuale e perciò inadatte a esprimere cose che non sono nate come concetti: le opere d´arte, per l´appunto». La vastità gigantesca di queste immense ex-officine milanesi può richiamare l´appena ieri della voga mondana per il "Délabré": mostre e spettacoli che diventano "eventi" in grazia appunto del contenitore disastrato e fatiscente, preferibilmente in aree di macerie, macelli, disagi col brivido del pericolo. Possibilmente tra vandali creativi e teppisti che ti picchiano. Oppure, la civetteria del pattume trash installato fra stucchi e specchiere e cicisbei in infradito per le madame della finanza pubblicitaria. Qui, invece, sui loro basamenti commisurati e omogenei, le opere devono sostenere confronti non solo reciproci ma col grande spazio: metallico anche lui (oltre che razionale e cool). Ma dopo i Boccioni e Wildt e Balla e Martini (e un´assoluta "perla", in più pezzi: una «Via Crucis» di Lucio Fontana, in ceramica smaltata e dorata), scattano i relais della memoria. Davanti agli "Acciai" d´Alberto Burri, riecco Burri stesso, che presentava, coi suoi baffoni da cacciatore insolitamente cordiali, le smaglianti e vivacissime plastiche del «Sestante» negli smisurati e rovinosissimi ex-cantieri della Giudecca veneziana, irridendo sotto quei baffoni i pensatori e i mondani che strillavano «adoro! divino!» davanti ai vetri rotti e alle ragnatele pendule. E la compitezza da vice-ministro in età De Gasperi di Fausto Melotti, che pranzava in blu con Toti e Gabriella Scialoja, e poi inviava bigliettini accampando che forse i suoi lavori lievissimi non meritavano entusiasmi così dichiarati. Rivedo Bruno Munari come un folletto che tirava fuori dalle tasche giochini componibili e pieghevoli. E Pietro Consagra, che non solo fotografava i più imbarazzanti paracarri in forma di cazzi e prepuzi nella Roma papalina, ma li riproduceva in marmi pregiati in serie di multipli per i conoscitori. E naturalmente Mario Ceroli, che nella sua celebre «Cassa Sistina» munì qualche silhouette d´amici di "cock" ligneo, ma non tutti. E poi, Manzù. Continuo a mitizzare il suo magnifico «Oedipus Rex» stravinskiano all´Opera di Roma, allora accoppiato a un´«Elektra» o «Salome» di Strauss, e dunque nell´intervallo si incontravano Brandi e Magnani e Palazzeschi e Milloss e Vlad, e poi insieme in trattoria. Ma fu poi commovente la cerimonia a Siena per la cittadinanza onoraria a Cesare Brandi. Prima parlò Argan, con oratoria cattedratica. Poi toccava a Manzù, che bofonchiò un saluto passandomi il microfono «perché il verboso sei tu». Ma riecco le opere dei coetanei (come Pino Pascali, Gastone Novelli...) con tutti gli agganci biografici. Anche un colloquio ripreso con la scultura italiana degli anni Trenta. Monumentale? Fascista? Macché etichette ideologiche, davanti ai capolavori. (Sennò, oltre tutto, davanti agli atleti da Stadio, bisognerebbe sempre chiedersi se sono esemplari maschioni mussoliniani o venerabili icone gay). Alberto Arbasino