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 2016  novembre 12 Sabato calendario

W il best seller involontario

• W il best seller involontario. Il Foglio 03/09/2005. 1ª Puntata. Di per sé il best non è un fenomeno strettamente letterario. Vendere molto, vendere meglio, vendere al massimo e al di là di ogni previsione editoriale è un fatto che riguarda il mercato, la riuscita commerciale del libro. E neppure, ancora, il suo consumo vero e proprio, cioè la lettura. Si sa per certo che il best seller viene molto comprato. Si sa meno se e come viene letto. E’ comunque probabile che un best seller sia tale anzitutto perché prevede e permette più o meno tutte le diverse modalità di lettura elencate quasi quarant’anni fa da uno dei padri della sociologia della letteratura, Robert Escarpit: lettura di relax e variamente ”terapeutica” (per riempire e per svuotare la mente), lettura igienica o ”ginnica” (come per il romanzo poliziesco, che richiede un impegno ”enigmistico”), lettura che agisce all’incirca ”come una droga” (terrore, comicità, lacrime, erotismo ecc.), lettura culturalmente impegnata e ”autodidattica” (il libro funziona in questo caso come uno strumento di promozione sociale e si legge per acquisire una cultura). Un best seller permette di solito tutte queste letture, nello stesso tempo piacevoli e utilitaristiche: il lettore si diverte, si impegna, impara, incrementa l’autostima. Questo naturalmente succede anche quando leggo il ”Don Chisciotte” o ”Guerra e pace”. Che del resto, oltre a essere pilastri della letteratura occidentale, sono anche best seller di durata secolare. Il fatto è, appunto che il best seller non è un fenomeno strettamente letterario ma commerciale. Può avere e di fatto ha, sul piano letterario, le caratteristiche più diverse. Il libro che vende meglio può essere un capolavoro letterario e può essere un mediocrissimo prodotto che interesserà più i sociologi della cultura e della moda che i critici letterari: anche se gli interessi degli uni possono mescolarsi proficuamente con le competenze degli altri. I fatti culturali sono intrinsecamente fatti sociali. Valutare, analizzare la qualità di un libro vuol dire anche capire di che natura sono i rapporti fra uno scrittore, un linguaggio, un’invenzione narrativa e i gusti, le aspettative del pubblico. Sono esattamente queste le domande che ci poniamo quando cerchiamo di capire il fenomeno del best seller in generale e nei suoi casi particolari. Quando un romanzo o un altro tipo di libro (c’è anche il best seller saggistico e quello poetico, per quanto più rari) incontra un vasto pubblico, quando un libro commercialmente fa centro, questo ci rivela anche qualcosa della società, dei sogni e delle esigenze culturali evidenti o latenti in una certa società e in un particolare momento della sua storia. Il best seller può essere una moda, fare moda. Ma le mode, oltre che indotte dall’industria della cultura, sono anche segnali, sintomi, spie che ci permettono di capire tendenze collettive, mutamenti della mentalità. Fino ad un certo punto del Novecento, finché cioè la letteratura d’avanguardia, d’opposizione o d’élite consideravano negativamente il successo commerciale e il consenso incondizionato del pubblico, il best seller era oggetto di critiche sarcastiche, satiriche o sprezzanti: veniva svalutato ed escluso dalla vera letteratura. Il Novecento ha apprezzato e teorizzato più la narrativa che rompeva gli schemi ottocenteschi e sconcertava i lettori che la narrativa più leggibile e riconoscibile da tutti. In questo modo la cultura letteraria del Novecento, almeno nei primi cinquant’anni del secolo, è stata dominata dalla polemica contro l’Ottocento e i suoi romanzi. Più o meno dopo il 1950 le cose hanno cominciato a cambiare. Dopo le ultime fiammate e le ultime esibizioni, piuttosto scolastiche, degli epigoni, lo spirito dell’avanguardia si era esaurito. Il progetto di scrivere con ogni impegno romanzi senza trama e senza personaggi, impenetrabili e illeggibili, ha gradualmente ceduto il posto alla tendenza contraria. Ha così avuto inizio in narrativa quella che fu definita ”postmodernità”, con il ritorno e il recupero di modelli letterari tradizionali, non solo ottocenteschi, ma anche premoderni: con la fiaba, l’epica, la narrativa enciclopedica. In questo senso uno scrittore come Italo Calvino è stato esemplare, un tipico e influente maestro di postmodernità. Invece che scontrarsi con le aspettative del pubblico, mettendo i lettori a dura prova, come facevano ancora molti suoi coetanei in Francia, in Germania, in Italia e in Spagna, lui ha sempre cercato di andare incontro al lettore senza scoraggiarlo, con il sorriso sulle labbra. I suoi lettori Calvino non li spaventa. Li diverte, li istruisce, cerca in ogni caso di non perderli. E’ appunto con la seconda metà del Novecento che pian piano il best seller diventa sempre più rilevante non solo come fenomeno commerciale e ”paraletterario”, ma perfino come una ”diversa forma di avanguardia”. E’ molto raro che oggi anche gli scrittori e i critici più sofisticati disprezzino il best seller per ragioni di principio: perché consolatorio, conformistico, rassicurante. Il prestigio culturale del best seller è aumentato vincendo le resistenze della critica modernistica. E soprattutto negli ultimi vent’anni, gli autori di best seller non sono soltanto molto famosi, sono anche fra i più apprezzati dalla critica e i più studiati nelle università e nelle scuole di scrittura. Personalmente non credo che i best seller aiutino davvero il pubblico dei lettori a crescere culturalmente e a portare verso i libri chi precedentemente non leggeva. Il best seller è in un certo senso un anti-libro, un libro ammazza-libri. Regala ai lettori l’ebbrezza di aver letto, in un solo libro, l’essenziale e il meglio di tutti i libri in circolazione. Fa dimenticare che i libri sono molti (forse troppi) e che comunque questa molteplicità richiede di essere lentamente e personalmente scoperta. Si sono invece moltiplicati, recentemente, il lettori di soli best seller, che trovano il coraggio di entrare in libreria solo se possono pronunciare quel titolo magico che è sulla bocca di tutti, quel titolo famoso che dà sicurezza, perché fa anzitutto dimenticare che in una libreria di libri ce ne sono moltissimi altri e che scoprirne l’esistenza potrebbe essere interessante, oltre che faticoso. In attesa dell’uscita del prossimo best seller, il lettore di soli best seller non oserà più mettere piede in nessuna libreria. Del resto, anche per contenuto e forma, per dimensioni fisiche e mole, i best seller tendono a presentarsi come libri-sintesi, libri che contengono in sé un intero universo dalla A alla Z, libri che sono un po’ una Bibbia e un po’ un’enciclopedia. Mi pare che nell’ultimo mezzo secolo, in quella postmodernità che ha avuto inizio dove prima e dove dopo, il best seller abbia vissuto almeno due fasi. 1) Alla prima fase, che arriva fino all’inizio degli anni Ottanta, appartengono romanzi come ”Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ”Sulla strada” di Jack Kerouac, ”Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez. Si tratta, diciamo così, di ”best seller involontari”: opere letterariamente originali e pregevoli, che hanno avuto un enorme successo (e continuano ad averne), ma che sarebbero rimaste memorabili per i critici e gli storici della letteratura anche se non avessero avuto quel successo. 2) La seconda fase segna la vera e propria ascesa del best seller in quanto tale, è una fase che arriva fino a oggi e comincia, direi, quando autori colti e dotati cominciano a lavorare consapevolmente, programmaticamente in vista della costruzione di un libro-acchiappa-lettori. Le intenzioni e i programmi, come si sa, non producono di per sé i risultati. Il successo editoriale non è possibile calcolarlo in anticipo con la certezza che i calcoli risulteranno giusti. Esperti e studiosi hanno ripetuto che non esiste la ricetta infallibile per confezionare il libro che venderà centomila o un milione di copie. Le ragioni di un grande successo editoriale è più facile capirle a cose fatte. Questo è vero in generale: anche i migliori economisti e più astuti politici sbagliano spesso le previsioni. Non si può quindi accusare nessun autore di best seller di aver programmato il proprio successo, perché anche se l’avvesse fatto, fra i propositi e l’esito finale non c’è un rapporto di causa ed effetto. Resta comunque vero che con l’inizio degli anni Ottanta, più o meno a partire dal ”Nome della rosa” di Umberto Eco, la natura del best seller narrativo tende a cambiare. Umberto Eco è uno studioso di estetica, di semiologia e di comunicazioni di massa, un professore che a un certo punto, a cinquant’anni, diventa romanziere: diventa, più precisamente, autore specializzato nella costruzione di best seller, di quel genere di libri, cioè, che in precedenza aveva attentamente analizzato (nel ”Superuomo di massa”, per esempio, uscito nel 1976). Negli Stati Uniti, come risulta dal libro di Alessandra Contenti ”L’invenzione del best seller” (Tranchida, 2002), la crescita di un’industria del romanzo inizia un po’ prima, tra il 1960 e il 1970: con ”Herzog” di Saul Bellow, con ”Il lamento di Portnoy” di Philip Roth e soprattutto con ”Love Story” di Segal e con ”Airport” di Hailey. In questi due ultimi casi, poi, il film tratto dal libro diventa più importante del libro stesso. Ma in Europa il prestigio anche culturale del best seller, data la diversa storia letteraria continentale (la Gran Bretagna fa caso a sé), arriva dopo. Gli intellettuali europei erano meno propensi ad accettare il best seller e il romanzo ”popolare”. Il fantasma di un Ottocento da cui fuggire ancora li ossessionava. Perciò ci arrivarono lentamente e tardi. Ma soprattutto a una condizione: che il nuovo ”romanzo per tutti” si presentasse come un sofisticato prodotto ancora una volta ”d’avanguardia”, nascesse cioè, come nel caso di Eco, dalle mani di un intellettuale, di un accademico, di un teorico del linguaggio e della pubblicità. E’ da quel momento in poi che anche gli intellettuali, gli accademici e i teorici d’avanguardia hanno cominciato ad avere un particolare rispetto per il romanzo che corre incontro al pubblico di massa, un pubblico, peraltro, passato magari di sfuggita per le università e comunque desideroso di ”farsi una cultura” e di partecipare ai riti intellettuali più esclusivi. Così il successo di un professore-scrittore ha tranquillizzato e trascinato l’intera categoria dei professori e degli studenti di tutto il pianeta. Occupiamoci ora della prima fase del best seller postmoderno, la fase dei successi involontari e non programmati, che anzi stavano per rischiare il più completo fallimento. Vediamo rapidamente in che modo, per quali ragioni (diversissime, ma in fondo anche simili) alcuni romanzi hanno realizzato l’incontro con un pubblico di lettori straordinariamente vasto. Più che soffermarmi sul valore propriamente letterario di alcuni romanzi, li tratterò come oggetti culturali semplici. In quanto best seller, ogni libro, sia pure letterariamente complesso, è un oggetto semplice: un elementare, efficiente congegno acchiappa-lettori. ’Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa uscì da Feltrinelli nel 1958. Si tratta di un best seller che possiamo tranquillamente (quanto ovviamente) definire aristocratico (il suo autore è un principe, e un principe è il protagonista del libro), neoclassico o neo-tradizionale. Al centro della narrazione troviamo due entità altamente mitologiche: un principe intellettuale dotato di straordinarie qualità, ma in decadenza personale (sta invecchiando) e storica (la borghesia in ascesa mette da parte la nobiltà), e un’isola come la Sicilia, carica di civiltà e di storia ma anche ”fuori della storia”: i suoi abitanti, infatti, secondo le parole del principe protagonista, sono immodificabili perché in fondo si sentono perfetti come semidèi. Anche se alcuni critici di sinistra lo hanno giudicato negativamente e perfino denigrato, ”Il Gattopardo” fu considerato da altri (fra cui Montale) un autentico capolavoro letterario, al quale spetta un posto sicuro nella nostra narrativa e che soprattutto offre un’immagine magistralmente sintetica e suggestiva del carattere degli italiani e della loro storia nazionale. Si tratta di un caso letterario insolito e forse unico nelle nostre lettere e di un best seller pressoché inesauribile. Ad aumentarne il fascino, l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa uscì postuma, a un anno dalla morte dell’autore, che aveva scritto quel suo unico romanzo come un testamento. Di lui non si sapeva niente, era vissuto fuori dell’ambiente letterario e politico. Le sue passioni culturali le aveva coltivate e vissute in solitudine. Dunque: l’irruzione improvvisa di un uomo coltissimo, ricco, misterioso, affascinante e pessimista nel mondo della letteratura. E un successo arrivato troppo tardi perché l’autore potesse goderne. Uno scrittore ai margini. Elio Vittorini, con la sua autorità di stratega letterario-editoriale, aveva contribuito con il suo giudizio al rifiuto del libro che venne sia dalla Mondadori sia dalla Einaudi. Dunque un destino infelice per l’autore, mentre il successo del romanzo sembrava rendere giustizia al valore misconosciuto, alla genialità incompresa. Chissà, molti autori frustrati potevano avere nel cassetto un altro ”Gattopardo” da scoprire colpevolmente tardi, troppo tardi... Questi i connotati estrinseci dell’opera. Inoltre (e questo si ricavava dalla lettura) era come se per un nobile come il principe Tomasi di Lampedusa la storia italiana si fosse fermata con l’unificazione nazionale, con il tramonto dell’aristocrazia e l’avvento di una borghesia spesso volgare e ridicola, senza stile, senza passato, a caccia di ricchezza e di potere. Per la sua malinconia, il suo raffinato scetticismo, la sua ironia aristocratica, il romanzo poteva perciò anche apparire un’opera solitaria e sconfortata di opposizione e di critica all’Italia borghese, alle ipocrisie, alle meschinità e agli intrighi della sua politica. Recensendo il libro, Eugenio Montale osservò che ”Il Gattopardo” poteva sembrare ”la riduzione di un romanzo-fiume che dal Lampedusa non fu mai scritto”. Non si trattava perciò di un vero e proprio romanzo storico tradizionale con le sue lungaggini (’il senso del tempo che fluisce lentamente”). La novità del libro era nella sintesi, nel fatto che il romanzo di stampo ottocentesco venisse condensato e scorciato: cosa che permetteva di intensificarne gli effetti sia poetici sia saggistici, riducendo l’epica a una serie di scene piuttosto statiche, al cui centro c’era sempre il protagonista. Dunque ”il libro di un gran signore, di un grande snob nel più alto significato della parola, di un uomo che tutto ha compreso della vita” (Montale, in ”Il secondo mestiere. Prose”, II, pp. 2169-75, Meridiani Mondadori, 1996). Decadenza, distanza dal mondo, scetticismo, saggezza ironica, passività aristocratica, convinzione che la storia in Italia si sia fermata e i siciliani, ma anche tutti gli italiani, preferiscano il sonno alla coscienza e non accettino di essere cambiati dagli eventi storici. Il romanzo offre al lettore proprio i piaceri di questa immobilità: rievocazioni del mondo ottocentesco, palazzi nobiliari, ritualità quotidiana, dense atmosfere siciliane cariche di sensualità, la caccia, il ballo, l’arrivo dei garibaldini, l’amore del giovane Tancredi con la bellissima Angelica, i monologhi del principe intellettuale, che guarda, alla sua età, tutto da lontano (è uno studioso di astronomia, è abituato allo sguardo da lontano e all’astrazione). Ma le sintesi che nel libro colpirono di più erano riflessive, intellettuali, saggistiche. Al funzionario piemontese che viene a offrirgli un posto nel nuovo parlamento italiano, il principe risponde offrendogli una magistrale definizione della Sicilia: ”In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ’fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ’la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto lo è la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia”. Il fascino del romanzo era dovuto all’impressione che fosse fatto di echi, che fosse fatto della stessa materia dei capolavori di un secolo prima, costruito come la rimemorazione di un romanzo classico. (Qualcosa di analogo avviene con i romanzi di Elsa Morante, che nel 1974 pubblicò un best seller come ”La Storia”, il caso letterario italiano di quel decennio, che cambiò direzione alla cultura narrativa italiana prima che arrivassero i prodotti da laboratorio di Eco). Con ”Il Gattopardo” il romanzo sembrava uscire all’improvviso dagli esperimenti e dalle ”ricerche” d’avanguardia per tornare indietro, per riusare la grande tradizione, annunciando una postmodernità neotradizionale o neoclassica. Il romanzo ritrova così quell’ampiezza indifferenziata di pubblico che ne aveva accompagnato lo sviluppo fin dalle origini, da Cervantes a Defoe, a Dickens, a Tolstoj. Il pubblico pensò che finalmente poteva leggere un vero romanzo, che sapeva di romanzo in ogni pagina e frase, un romanzo che poteva apparire immediatamente, fin dalla sua pubblicazione, come un classico. Senza volerlo, il romanzo di Lampedusa aveva in sé un potenziale didascalico: leggendolo si leggeva la sintesi postuma dei grandi romanzi del passato. Malignamente un altro critico, Franco Fortini, disse che ”il libro sembra scritto per deliziare il villan rifatto che sonnecchia entro ciascuno di noi”. Giudizio severo. Ma certo lo snobismo culturale di massa in cui mettono radici tanti best seller successivi ha nel successo del ”Gattopardo” il suo momento di rivelazione. (1. continua) Alfonso Berardinelli
• W il best seller involontario. Il Foglio 08/09/2005. Dalla Sicilia del Gattopardo passiamo alla letteratura americana. Del resto, senza gli Stati Uniti il best seller postmoderno non esisterebbe, soprattutto nelle sue forme più recenti. Ma qui avremo a che fare con un autore di tutt’altro genere, cioè con un’’altra America”. E siamo agli antipodi del romanzo di Tomasi di Lampedusa: il quale, se ebbe successo anche in America, fu proprio perché veniva letto come un perfetto (magari troppo perfetto: caratteristica di ogni best seller) esemplare di letteratura colta, raffinata, nobilmente decadente tipica della vecchia Europa ormai incapace di agire e di essere all’altezza del presente. Voglio parlare di ”Sulla strada” di Jack Kerouac. Con questo libro non siamo certo nell’immobilità, siamo anzi nella perpetua mobilità, non nella vecchiaia ma nella perpetua giovinezza, nella scoperta del mondo come avventura senza altro scopo che la scoperta di se stessi. Niente intellettualismo né distanza ironica né scetticismo né senso del passato. In Kerouac tutto è presente e vale solo perché è fisicamente presente. ’Sulla strada” fu la bibbia di almeno tre generazioni di giovani anarchici, spostati, incapaci di riconoscersi nelle istituzioni sociali sia in America sia in Europa. Fu la bibbia dei giovani nomadi e fantasticanti, nomadi in fuga mistica dal mondo noto. Si trattava di un romanzo assolutamente impregnato di tradizione etico-letteraria americana, una tradizione che azzera il passato e riconduce tutto alle origini: un giovane individuo solo di fronte al mondo. E il tipo di narrazione adeguata a questa etica è il romanzo come impresa fisica, esperienza corporea, estasi elementare di fronte a un mare di percezioni elementari. E’ chiaro che Kerouac viene da Thoreau, da Melville, da Whitman, da Jack London, da Hemingway, da Henry Miller. Ma negli Stati Uniti la tradizione risulta accettabile soltanto come ”seconda natura”. Non è ricordata, riecheggiata: è metabolizzata e dimenticata. Dimenticarla è il modo migliore di rispettarla. Il primo comandamento della tradizione americana è: ignorare la Tradizione. Vivere nel presente, fare esperienza di persona, ubbidire al proprio istinto, pagare fisicamente il prezzo della propria ricerca di realtà, verità, autenticità. In letteratura questo significa dire tutto, senza remore, senza reticenze, paure, scrupoli accademici, selezioni e mediazioni intellettuali. Nel suo desiderio di assoluta immediatezza e spontaneità, paradossalmente anche ”Sulla strada” di Kerouac si presenta come la sintesi rinnovata di un lungo e ben noto passato. Nel suo anarchismo, ha perfino, in questo, qualcosa di scolastico, di prevedibile. Senza mostrarsene consapevole, Kerouac ripete qualcosa di già noto e collaudato. Si tratta di una ”narrazione empirica”, in presa diretta, senza abiti letterari, adatta a creare o rinnovare il mito della giovinezza americana, il mito di un grande paese per sempre giovane, eternamente ribelle, vitale, libero fino all’ebbrezza e all’autodistruzione. Il protagonista-autore attraversa lo spazio americano alla ricerca di sé, di un sé che può anche coincidere con il nulla. Il viaggio si conclude con una proverbiale fuga in Messico, il paese dell’alterità, più povero, più selvaggio, più tradizionale. Il paese che dà rimorsi e struggenti nostalgie a ogni disadatto, ribelle e spostato statunitense: ’Era sempre sbronzo. Ci renderemmo improvvisamente conto che era tuttora ubriaco e che la giungla e i guai non incidevano affatto sulla sua anima felice. Ci mettemmo a ridere, tutti e due. ’Al diavolo! Ci tufferemo in questa maledetta giungla, stanotte ci dormiremo dentro, andiamo!’ gridò Dean. ’Il vecchio Stan ha ragione. Il vecchio Stan se ne frega! E’ così sbronzo di quelle donne e di quella marijuana e di quel pazzo mambo fuori del mondo impossibile ad assorbire urlante così forte che le mie orecchie ancora ne rintronano... è così sbronzo che sa quello che fa!’ Ci levammo le magliette e filammo avanti nella giungla, a torso nudo. Nessun paese, niente, solo la giungla sperduta, per chilometri e chilometri, e in discesa, sempre più infuocata, con gli insetti che stridevano sempre più forte, la vegetazione che cresceva sempre più alta, la puzza più densa e più calda, finché cominciammo ad abituarci e a goderne. ’E’ come se ci mettessimo nudi e ci rotolassimo e rotolassimo in questa giungla’ disse Dean”. L’eccesso, il troppo, l’estremizzazione, la stilizzazione sono, nelle loro diverse forme, e fino al limite del caricaturale, una caratteristica riscontrabile in molti best seller. Tutto deve essere immediatamente e pienamente afferrato dal lettore: anche la certezza di avere a che fare con il mistero, l’incomprensibile, il sublime, l’enigmatico. E questa afferrabilità può essere raggiunta sia attraverso il controllo intellettualistico e didascalico, sia attraverso la suggestione ipnotica della ridondanza, della ripetizione, dell’enfasi. Lampedusa è il prototipo del vecchio aristocratico immerso nell’ombra e nell’anonimato che lascia un libro-testamento interamente retrospettivo, ambientato un secolo prima. Kerouac è il prototipo del giovane scrittore americano disposto a vivere ogni esperienza e ad allargare il campo dell’esperibile, prima di scrivere e pur di scrivere. E’ il primo uomo che ricomincia, come il nobile siciliano era l’ultimo uomo di una storia finita. Uscito nel 1957, ”Sulla strada” divenne il manifesto della ”beat generation”, una generazione che si dichiarava bruciata, sconfitta, nemica della tecnologia, della politica e del conformismo di massa. Il libro fu un mito e un successo internazionale che creò una moda ormai esangue, ma non del tutto esaurita neppure oggi. Nomadismo, vita di gruppo, uso di droghe, liberazione da ogni vincolo, una religiosità orientale piuttosto immaginaria, priva di disciplina e di senso delle tecniche ascetiche. Così il romanzo di Kerouac non è neppure propriamente un romanzo. La struttura tende a sparire in un flusso paratattico ininterrotto. Restare ”on the road” è tutto. Si potrebbe aggiungere che in questo libro a essere ”sintetizzata” per le nuove generazioni non è certo la tradizione, ma l’avanguardia. Quella di Kerouac e di Allen Ginsberg (autore dei pochissimi best seller poetici degli ultimi cinquant’anni) è un’avanguardia mescolata, che fonde cioè movimenti europei come espressionismo, dadaismo, surrealismo, con la tradizione individualistica e vitalistica americana. Nessuna neo-avanguardia europea ebbe lo stesso successo. Anche perché l’anti-intellettualismo e il mito della giovinezza e della libertà in Europa non erano mai stati radicati come in America. Il magnetismo del best seller di Kerouac è perciò la sua aspirazione o la pretesa di essere un non-libro, un libro anti-libresco, qualcosa di più e di meno di un libro: la vita stessa in presa diretta, senza altra forma che una continua ricerca, ottimistica e gratuita, della libertà da ogni forma. Nel libro, qualsiasi cosa facciano e dicano i personaggi, è quello che è, nella sua elementare povertà e nudità, ma nello stesso tempo è anche un mito. Si vive in un mito di sé e tutto deve suonare come privo di senso e, nello stesso tempo, esemplare. La stessa trascrizione diventa mitizzazione, nel ritmo di una paratassi cantilenante e poeticizzante. Ciò che ha fatto del romanzo di Kerouac un perfetto best seller della seconda metà del Novecento è l’aver espresso nel modo più diretto, semplice, enfatico quell’impulso purificatore e autodistruttivo che è l’altra faccia della distruttività produttivistica, ascetica, atletica diffusa nella società americana. Quella di Gabriel García Márquez è naturalmente tutt’altra America. Il suo ”Cent’anni di solitudine”, pubblicato nel 1967, sembrò rivelarla da un giorno all’altro ai lettori di tutto il mondo. C’erano però i precedenti della rivoluzione cubana, i miti politico-esistenziali di Fidel Castro e di Ernesto Che Guevara. L’America latina attirava l’attenzione come un continente in rivolta, povero, oppresso, fiero, affascinante, allegro e disperato delle cui culture e letterature non si sapeva ancora abbastanza. Autori come Pablo Neruda e Jorge Luís Borges non bastavano. Inoltre il primo era stato tranquillamente stalinista, il secondo era un uomo di destra. Il primo tentato dalla retorica, il secondo troppo privo di ”colore locale” (che detestava), di radici etniche, e troppo innamorato della cultura europea. Con García Márquez il mondo degli indios, dei meticci, dei villaggi sperduti, del sottosviluppo, dei caudillos e delle rivoluzioni utopico-magiche sempre potenziali, ebbe la sua epica. Contrariamente a Kerouac, però, García Márquez non era un ingenuo. Era un professionista della scrittura: un esperto e abile giornalista, capace di manovrare con perizia tutti i generi, dall’inchiesta al commento culturale all’articolo politico. Era un appassionato di cinema. Insomma, un vero e proprio talento della comunicazione, con un fortissimo senso dello spettacolo e un’attitudine istrionica spiccata. Nel suo romanzo, inventa una dimensione diversa e nuova. Spazio e tempo si dilatano e sono gremiti di storie, oggetti, personaggi, colori, immagini, leggende, illusioni, imposture, oppressioni e rivolte. Oggi l’autore di ”Cent’anni di solitudine” è l’autore di lingua spagnola più conosciuto e letto nel mondo. Nel suo capolavoro dominano la varietà e la meraviglia, l’umorismo, il grottesco, l’iperbolico. Ma anche in García Márquez, come in Kerouac, tutto viene portato a quella che potremmo definire ”la perfezione dell’eccesso”: una stilizzazione estremizzata e ossessiva che imita le forme l’arte e la cultura popolare latino-americana e precolombiana. Questo porta il lettore a una certa vertigine. La storia raccontata, più che procedere, torna su se stessa circolarmente e una certa abbagliante monotonia è prodotta dall’eccesso di varietà e di abbondanza degli aneddoti, delle sottostorie, dei dettagli fisici. Anche qui lo stile è fin dall’inizio mitizzante: nominare è già mitizzare. Tutto è continuamente ”fuori misura”, come se le misure comunemente note e realistiche non fossero in uso in quel mondo epico-fiabesco. Già dalle prime pagine il tono e l’atmosfera della narrazione sono precisamente definiti e oltre ai termini-chiave come ”meraviglia”, ”miracolo” e ”magia”, abbondano aggettivi come: ”enormi”, ”magici”, ”gigantesca”, ”stupenda”, ”irresistibile”, ”smisurati”, ”impetuosi”, ”impossibile”, ”sorprendente”ecc. Famoso è l’incipit, amatissimo dai fan di García Márquez: ’Molti anni dopo, di fronte al plotone d’esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. [...] ’Le cose hanno vita propria’ proclamava lo zingaro con aspro accento, ’si tratta soltanto di risvegliargli l’anima’. José Arcadio Buendía, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile (la calamita) per sviscerare l’oro della terra”. I critici hanno detto che in ”Cent’anni di solitudine” ”vanno a ricongiungersi tutti i fili che la narrativa ispanoamericana aveva teso negli anni precedenti. Il mondo di questo romanzo si presenta dunque, ancora una volta, come una sintesi e, allo stesso tempo, come il punto di partenza di un nuovo modo di raccontare. Macondo, il paese fondato nel mezzo della foresta, e dove si svilupperà la saga secolare dei Buendía, diviene il luogo simbolico dove si insedia la realtà ispanoamericana. Lì vengono inventati i nomi delle cose [...] e le invenzioni arrivano prima o dopo che nel resto del mondo. Da fuori giugono, portati dagli zingari, la meravigliosa calamita, il ghiaccio, la dentiera; da fuori giunge anche, portato dai ’gringos’, il male, incarnato nella compagnia bananiera”. (Rosalba Campra). Con ”Cent’anni di solitudine” il best seller postmoderno esce dalla tradizione centrale del romanzo realistico europeo e mescola, ritrovandole, altre tradizioni narrative: favola, mito, leggenda locale, epica minore, semplici esagerazioni popolari. Le mitologie degli indios e quelle degli zingari entrano in contatto e in concorrenza. I confini fra realtà, sogno e bugia perdono consistenza. Ogni cosa che compare è accompagnata da un’aureola di meraviglia primordiale. Soprattutto, ogni cosa è dotata di una sua anima, poiché l’animismo è la più antica e potente delle forme religiose. Il ”tempo curvo” e non lineare-progressivo del racconto comporta una specie di eterno ritorno del simile, se non dell’identico. Infine, la prosa di García Márquez è sontuosa, sovraccarica, abbacinante e, nel tono, malinconico-umorista. Ma sempre impeccabilmente costruita, con una particolare eloquenza ipnotica da retore, da imbonitore o da sciamano. Fa pensare a un Dickens premoderno e postmoderno insieme, un Dickens ambientato ai Tropici, dove la storia occidentale non vige, è fuori corso, è sfasata. Il best seller di García Márquez ha forse dato il segnale che la centralità della narrativa europea e angloamericana era tramontata e che lo strumento del romanzo, passato in altre mani, si stava ormai trasformando. (2. continua) Alfonso Berardinelli
• W il best seller involontario. Il Foglio 17/09/2005. Ho accennato nei precedenti articoli alla natura più commerciale che letteraria del best seller. Ho parlato del best seller come di un ”libro-sintesi”, una specie di prodotto librario che rivela sintomi culturali, che rende manifeste tendenze diffuse nella mentalità collettiva. Il primo di questi sintomi è che il best seller non spinge i consumatori verso altri libri e verso i libri in generale. Piuttosto, li appaga pienamente. Il best seller rende sazio il suo lettore. E lo dispone più ad aspettare altri prodotti simili dello stesso autore che a cercare altro e altrove. Questa tendenza a presentarsi come ”sintesi” ed ”enciclopedia” dei sogni, delle attese (magari delle paure, oltre che dei desideri) dei lettori, si è affermata soprattutto nei best seller degli ultimi venti o trent’anni del Novecento. Abbiamo già parlato di grandi successi come ”Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, ”Sulla Strada” di Kerouac, ”Cent’anni di solitudine” di García Marquez. Erano best seller non puramente commerciali. Rispondevano a esigenze profonde e reali del pubblico, ma non erano stati scritti dai loro autori ”in vista del successo”. A un certo punto, più o meno lentamente (negli Stati Uniti il fenomeno è precoce e più rapido) nasce una specie di industria del best seller: il che ha finito per modificare la nostra idea di letteratura. In precedenza, soprattutto nei primi cinquant’anni del Novecento, la ”vera” letteratura veniva distinta in linea di principio dalla letteratura popolare, commerciale, di massa, di successo. Da alcuni decenni, con l’affermarsi di tendenze culturali postmoderne, che rivalutano i generi e i sottogeneri (poliziesco, horror, sentimentale, esotico, storico, esoterico-erudito, scientifico-filosofico, fantascientifico eccetera) e con il mito della comunicazione globalizzata (cioè: niente o quasi esiste davvero se non si espande su un mercato internazionale) la prospettiva critica è mutata: e il best seller non è affato condannato alla ”serie B”. Anche scrittori e saggisti sofisticati come gli americani Tom Wolfe (’Il falò delle vanità”), Susan Sontag (’L’amante del Vulcano”, ”America”) e il tedesco Hans Magnus Enzensberger (’Il mago dei numeri”) hanno cercato di pubblicare almeno un best seller. Come disse qualcuno, infatti, niente ha successo come il successo e averne un po’ può aiutare qualunque tipo di autore ad attirare l’attenzione sui propri libri meno facilmente accessibili. Una studiosa del fenomeno, Alessandra Contenti, ha scritto: ”Il best seller è un oggetto costoso, che fa bella figura sul tavolino del salotto e nelle librerie di noce delle case borghesi; è una lettura che in certi ambienti non si può ignorare (non è facile ammettere di non conoscere ”Il nome della rosa” o di non aver mai affrontato un tomo di Wilbur Smith); questi sono testi che godono di una legittimazione che nessun professore universitario riuscirà facilmente a smontare, sono sulla bocca di tutti, sono frutto di un solido lavoro di ricerca, trattano questioni attuali o importanti, sono scritti bene o benino. Se ne parla alla televisione, anzi gli autori stessi sono personaggi pieni di fascino, ricchissimi e mondani, se la ridono della critica...”. Inoltre: ”Dire best seller (...) equivale a evocare la formula magica in grado di risollevare le sorti del più instabile bilancio editoriale”. E questo, in tempi di panico per gli editori di libri, è sempre importante. Si teme che i lettori e gli acquirenti di libri stiano diventando una specie in via di estinzione. Per illustrare brevemente il successo non solo commerciale, ma anche culturale del best seller (internazionale e programmato) mi servirò di due esempi: Umberto Eco e Stephen King. Cominciamo dal nostro Eco. Io credo che questo studioso del linguaggio e della comunicazione, a un certo punto della sua carriera, sia stato indotto a scrivere romanzi da un evento letterario che nel 1974 scosse molto l’opinione culturale italiana. Si tratta della comparsa di un libro inaspettato, ”La Storia” di Elsa Morante, scrittrice già affermata, che da quasi vent’anni non pubblicava romanzi (’L’isola di Arturo” risaliva al 1957). ”La Storia”, su richiesta della scrittrice, uscì da Einaudi subito in edizione economica ed ebbe uno straordinario successo di pubblico: per di più in anni di predominante impegno politico, in cui erano molti a pensare che la letteratura fosse morta o dovesse essere uccisa e che il romanzo, in particolare, fosse una cosa d’altri tempi. Da poco c’era stato il successo di ”Cent’anni di solitudine”. Ma quello era sembrato un prodotto esotico, veniva dall’America Latina, lavorava su stratificazioni mitologiche, non affrontava la realtà urbana moderna e si mescolava in qualche modo allusivo e suggestivo con i problemi del Terzo Mondo non industrializzato, con il sottosviluppo, le culture premoderne ma anche le imprese politiche di Fidel Castro e di Che Guevara. Nessuno sospettava che in Europa, nella sterile, disincantata, intellettualissima Europa, e in particolare in Italia, paese poco versato nell’arte del romanzo, ci fosse uno scrittore di valore come Elsa Morante, capace di scrivere un’epica popolare sugli anni 1943-’48: un grande affresco storico che era anche una denuncia morale contro gli orrori della Storia e contro l’idolatria dei grandi eventi politici che producono soprattutto vittime ignare e innocenti. Il romanzo venne giudicato variamente dai critici. Ma conquistò un vasto pubblico, non solo in Italia. Dai tempi del ”Gattopardo” la narrativa italiana non aveva dato un romanzo come questo: controverso ma di indubbio valore, un best seller scritto da un autore di grande qualità. Ma la cultura d’avanguardia, secondo cui non si doveva scrivere per il grande pubblico, né tanto meno romanzi popolari ben costruiti secondo modelli tradizionali, ottocenteschi – soprattutto questa cultura d’avanguardia, per di più marxista, si scandalizzò di fronte a un romanzo come ”La Storia”. Era un’amara sorpresa. L’avanguardista Eco, però, si mise a riflettere. Aveva studiato molto la narrativa popolare e di massa. Riteneva che il romanzo dovesse tornare alle sue origini genuine e andare di nuovo incontro al pubblico, come era sempre stato, dalle origini fino all’inizio del Novecento, al modernismo e alle avanguardie. Nel 1978 Eco pubblicò un libro di teoria, ”Il superuomo di massa”. E nel 1980, finalmente, ”Il nome della rosa”. Ma proviamo a delineare un ritratto di Eco, cercando di capire che autore di best seller è diventato con ”Il nome della rosa” e da quale miscela deriva il suo carisma: un carisma tanto forte da aver confuso e paralizzato (o ricattato culturalmente) i critici accademici e i teorici della letteratura. Questo naturalmente è avvenuto proprio perché Eco è anzitutto un accademico e un teorico. E quindi i suoi simili si riconoscono in lui. Erudizione e luoghi comuni, semiotica e cultura di massa, pedanteria e barzellette: da questa combinazione di elementi nasce Umberto Eco, studioso, giornalista, insegnante, romanziere e acrobata insuperato della cultura postmoderna. Nessun autore italiano è famoso nel mondo come lui, neppure Carlo Collodi, l’autore di ”Pinocchio”. Nessuno come lui è tanto venduto e (forse) letto. Da almeno vent’anni è quasi impossibile sorprendere un filosofo, un critico letterario, un politico, uno scienziato nell’atto di dare torto a Umberto Eco. Il quale dunque (scherzosamente ma non del tutto) potrebbe essere definito come colui che viene citato soprattutto allo scopo di dire che ha ragione. Prima del ”Nome della rosa” (1980) non era ancora sufficientemente chiaro, almeno in Italia, che cosa potesse essere il postmoderno letterario. E’ vero che Calvino esisteva già. Borges era da tempo un autore mitico. Raymond Queneau aveva già trasferito l’avanguardia surrealista nei territori dell’enciclopedismo ludico. Umberto Eco, però, che aveva letto e studiato questi autori, fece un notevole passo avanti. Aggiunse due ingrendienti: le teorie del linguaggio e il romanzo popolare. Arrivò a una combinazione esplicita e plateale, enigmistica e manualistica, di lezione universitaria e di feuilleton. Non sto inventando niente a proposito del nostro autore. Quello che dico è lui stesso a dirlo. Eco infatti non fa altro che spiegare le cose. In lui non ci sono ombre, ma solo luci. I suoi scritti ”Sulla letteratura” (2002) potrebbero essere letti come un autoritratto per interposte persone. Ciò che colpisce di più nello stile intellettuale di Eco è l’insistenza sulle somiglianze, sulle continuità fra antico e moderno, fra tradizione e avanguardia, fra grandi classici e famosi best seller. Nel gioco di Eco la mossa fondamentale è il rifiuto delle gerarchie e dei giudizi di valore. Messo alle strette, essendo un uomo di buon senso, non negherebbe che ci sia qualche differenza qualitativa fra ”Edipo re” e ”I tre moschettieri”, fra Dostoevskij e Conan Doyle. Ma notare queste cose non rientra nel suo codice culturale. Quello che predilige è ”democratizzare” la cultura alta, tradurre in formule ciò che sembrerebbe imporre un diverso ordine di esperienze intellettuali. Quando si occupa del ”Paradiso” di Dante, della ”Poetica” di Aristotele, dell’estetica barocca, del ”Manifesto” di Marx e Engels, dopo averci fatto capire che controlla alcune nozioni fondamentali, Eco si affretta nella sua opera di attualizzazione e omologazione. Per esempio: il ”Paradiso” dantesco viene prima esaltato come ”poesia dell’intelligenza”, poi come ”apoteosi del virtuale” e del ”puro software”, infine come ”trionfale odissea nello spazio” e come pillola di ecstasy che ha il pregio di non intossicare. Eco spesso scherza. Ma non dice mai così bene quello che pensa e che gli piace davvero come quando scherza. Se parla del ”Manifesto” di Marx e Engels osserva che il suo stile è formidabile perché ”sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare”: e oggi dovrebbe essere studiato ”nelle scuole per pubblicitari”. E’ come se nella storia non ci fossero salti, variazioni e discontinuità, tutte le epoche avessero avuto gli stessi mezzi e gli stessi fini, la cultura greca, medievale, barocca, illuminista non fossero che confortanti precedenti e conferme incoraggianti dei nostri gusti e delle nostre idee. Eco è un vero e completo postmodernista, così perfetto da essere un po’ caricaturale. Crede seriamente che un best seller contemporaneo sia la replica di quei best seller ”di qualità” che furono la ”Commedia” di Dante e le opere di Shakespeare. ’Il nome della rosa”, che resta il suo maggiore e vero colpo grosso e la sua opera più caratteristica, riusa le strutture del romanzo popolare per farne letteratura moderna di massa. Il libro guarda a un pubblico nuovo, con il quale Eco, come professore-giornalista, aveva più familiarità e affinità: un pubblico vasto e misto, diciamo neoborghese, smaliziato, scolarizzato, intossicato di teorizzazioni e desideroso di promozione culturale. Un pubblico che non vuole certo commuoversi, né piangere sui mali del mondo come quello dei romanzi dell’Ottocento, ma preferisce sentirsi deliziosamente distaccato, ironico, sofisticato e beffardo. Per capire come si è prodotta in Eco la metamorfosi del semiologo critico in romanziere popolare, si dovrebbe rileggere il suo ”Superuomo di massa”, del 1978. Qui l’autore ci teneva ancora a presentarsi come un critico tagliente della narrativa consolatoria e non problematica, che esattamente per questo conquista il successo. Una tale narrativa confermava il lettore ”piccolo borghese” nei suoi valori e nei suoi dogmi, era riformista e non rivoluzionaria, proponeva una ”narratività degradata”, fatta di una sottocultura senza problemi. Dal ”Nome della rosa” in poi è diventato lo stesso Eco un autore che consola, che non crea problemi, che insegna e diverte, che sdrammatizza. Il best seller americano è diventato presto enciclopedico. Dagli anni Sessanta agli anni Settanta negli Stati Uniti, con l’espansione della popolazione scolastica e le concentrazioni editoriali si punta sempre di più sul mercato. Un aspetto fondamentale del best seller diventa la sua trasposizione cinematografica: per cui da un lato il film fa vendere il libro e dall’altro il libro viene scritto per diventare film, con una tecnica che somiglia sempre di più a quella cinematografica. Stephen King dice che quando scrive ”vede” le scene narrate come se guardasse un film. Un altro aspetto tipico del best seller statunitense, osserva ancora Alessandra Contenti nel suo ”L’invenzione del best seller” (Tranchida 2002) è l’enorme espansione delle descrizioni, l’accumulo di nozioni su un particolare ambiente o tema, il nozionismo, l’enciclopedismo. Anche da questi modelli, a modo suo, usando cioè la sua cultura di professore, ha imparato Eco. Il lettore deve essere soddisfatto di acquistare una quantità di informazioni. Il romanzo diventa utilmente ”istruttivo”, presuppone una ricerca o inchiesta (sempre più spesso affidata dagli editori non all’autore ma a un’équipe specializzata). Saggistica, giornalismo e narrativa si fondono e si aiutano a vicenda. E’ chiaro che Eco ha visto giusto proponendo come campo del sapere da mettere in narrativa proprio un’epoca assente nella storia americana: il Medioevo. Stephen King scrive invece nel genere ”horror”, ci propone enciclopedie della paura, del diabolico fantastico annidato nella vita quotidiana. Prima viene accuratamente descritta quella normalità americana, provinciale, familiare che conforta e rassicura. Poi all’improvviso si apre una crepa. Infine si spalanca un baratro. Provocando uno shock aggiacciante, la realtà normalmente quotidiana passa dalla stabilità all’instabilità. Dietro la superficie neutra, ecco emergere la lotta eterna fra il bene e il male. E’ il rovescio dell’ottimismo morale americano, ma poi la sua conferma. Il mostruoso esiste. Lo sgomento, l’omicidio più efferato, il nemico più insidioso sono dietro l’angolo. Si può pensare a Edgar Allan Poe. Ma anche in ”Moby Dick” il capitano Achab vuole sconfiggere il male, vuole uccidere il sacro mostro bianco nascosto negli oceani che una volta lo ha ferito e di cui deve vendicarsi. Senza vedere che il demoniaco è nei suoi propositi di vendetta-giustizia, più che nella balena. Anche nella ”Ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge, anche nella ”Terra desolata” di Eliot troviamo orrore, paura, sgomento. Dietro il quotidiano si spalanca sempre un abisso di violenza. Il male è nascosto da qualche parte e sempre sul punto di risvegliarsi. E’ quello che avviene in ”Shining”, filmato da Stanley Kubrick (opera che non piacque a Stephen King). E’ quello che avviene nel voluminoso romanzo ”It”, del 1986, più di mille pagine, dove ”il maestro del terrore” si mostra perfetto conoscitore non solo della cultura popolare e della società americana, ma anche dell’inconscio fobico e ossessivo, infestato di fantasmi e mostruosità, dei suoi connazionali. La vicenda di ”It” si svolge nell’arco di trent’anni, con sette personaggi principali, bambini prima, poi adulti, in lotta con un’abissale entità malefica e omicida. Lo schema è tipico, la favola è di sicuro effetto. Dice la quarta di copertina: ”In una ridente e sonnolenta cittadina americana, un gruppo di ragazzini, esplorando per gioco le fogne, risveglia da un sonno primordiale una creatura informe e mostruosa: It. E quando, molti anni dopo, It ricompare a chiedere il suo tributo di sangue, gli stessi ragazzini, ormai adulti, abbandonano famiglia e lavoro per tornare a combattere la terrificante creatura. E l’incubo ricomincia... Un viaggio illuminante lungo l’oscuro corridoio che conduce dagli sconcertanti misteri dell’infanzia a quelli della maturità”. Perfetto. In poche righe c’è fin troppo. In mille pagine c’è un po’ poco. Infanzia, innocenza, colpe indefinibili, amicizia, violazione di qualche tabù misterioso, solidarietà adulta e militante contro il male, per ritrovare serenità, sicurezza e ordine. Il Diavolo esiste: parola dell’americano Stephen King. E la sua presenza si manifesta per la prima volta in un pomeriggio autunnale del 1957, nella cittadina di Derry, nel Maine, nel corso di un violento temporale. Un bambino è fuori, sotto la pioggia, e segue una barchetta di carta spalmata di paraffina che corre galleggiando verso lo scarico di una fogna. Che cos’è che lo aspetta mentre il resto della sua famiglia se ne sta al sicuro in casa, la mamma suona ”Per Elisa” al pianoforte del salotto, suo fratello è a letto con la febbre? Quel terrore, quell’orrore sono un mistero. Ma il bambino ne fiuta l’odore: un tanfo di sporcizia e di marcio, ”ineluttabile e inequivocabile, il tanfo del mostro, apoteosi di tutti i mostri. Era l’odore di qualcosa per cui non aveva trovato un nome: l’odore di It, acquattato nel buio e pronto a spiccare il balzo. Una creatura che avrebbe mangiato di tutto, ma specialmente affamato di carne di bambino”. Così leggiamo nelle prime pagine. Stephen King lavora sulle paure più elementari e infantili, lavora sul panico da instabilità, sulla follia che si annida sotto la normalità, sui fenomeni misteriosi e paranormali, sulle veggenze e le allucinazioni che rivelerebbero realtà sottostanti e più vere, forse, della realtà apparente. In quanto autore di best seller, non si può certo dire che Stephen King sia rassicurante. O meglio: non lo è mai nel corso della narrazione. Lo è in conclusione, nella lode dell’infanzia e nel monologo morale del protagonista: ”Parti e cerca di continuare a sorridere. Trovati un po’ di rock and roll alla radio e vai verso tutta la vita che c’è con tutto il coraggio che riesci a trovare e tutta la fiducia che riesci ad alimentare. Sii valoroso, sii coraggioso, resisti. Tutto il resto è buio”. La formula di Stephen King è quella di cui i suoi milioni di lettori hanno bisogno. Sono impauriti, sono terrorizzati, si fanno coraggio. C’è l’essenziale, direi. Questo è un best seller. (3. fine) Alfonso Berardinelli