Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 luglio 1999
Verona - Ha cambiato faccia il «mostro»
• Verona. Ha cambiato faccia il «mostro». Si è fatto crescere una lunga barba corvina che gli conferisce un che di ieratico. tornato a nascondere sotto una cascata di capelli la mezzaluna della sua follia. Quella cicatrice ad arco di compasso che ostentava al processo di primo grado lo aveva consegnato alla galleria di profili lombrosiani, ma era anche testimonianza di un trauma antico. Di un cervello segnato a 17 anni dalla mola chirurgica, che vale ora un’assoluzione e un viatico per quel luogo chiamato manicomio, definito dalla legge – con un più di eufemismo – Opg, ospedale psichiatrico giudiziario. Ha aspettato il verdetto nel chiuso della sua cella del carcere di Verona, intervallando zapping e letture di esercizi di training mnemonico. Solo.
Gianfranco Stevanin ha accettato di rispondere attraverso i suoi avvocati Cesare Dal Maso e Lino Roetta a una serie di domande scritte del ”Corriere”. Ecco le sue risposte.
Cominciamo dalla fine. Assolto.
«Non pensavo che finisse così. Ritenevo che in un paese giustizialista come il nostro mi avrebbero lasciato all’ergastolo. Mi sbagliavo. E ne sono felice».
Meglio finire in un manicomio?
«Basta che non mi mettano in una cella imbottita a dare testate contro il muro. Perché se deve essere così, allora meglio l’ ergastolo in un carcere normale come quello in cui mi trovo».
• L’ hanno definita «mostro», «folle», «malato». Si riconosce?
«Non mi sento un pazzo. Però, evidentemente, devo essere curato. La più corretta delle definizioni è dunque malato. Sì, questo è vero. Sono un malato».
Le capita di ripensare alle sue vittime?
«Le ricordo tutte come persone cui ho voluto molto bene, con cui ho passato bei momenti e della cui morte non mi sento responsabile».
Si è perdonato?
«Non ho niente da perdonarmi».
Pensa che altri la possano perdonare?
«Spero capiscano che non è stata colpa mia. Io non so perché sono morte quelle donne. Non mi sono accorto di quello che è successo».
Se un giorno dovesse recuperare la libertà, come immagina la sua vita?
«Con accanto una donna. Vorrei costruirmi una famiglia. Forse sono vecchio per avere dei figli, ma voglio vivere tranquillo. Lontano da qui, dove nessuno mi conosce e dove poter essere dimenticato».
(Gianfranco Stevanin a Carlo Bonini).
• Il procuratore generale ha definito il teatro dei suoi omicidi un «turpe scannatoio».
«Ma quale scannatoio. Sono invenzioni dei giornali. Non ho mai avuto uno scannatoio».
Fu lì che trovarono 450 chili di giornali pornografici, un cuscino da salotto imbottito di peli pubici, trapani, guinzagli, mazze da baseball, mattarelli e foto rappresentanti il dettaglio dei tormenti che infliggeva con questo armamentario.
«Quelle che hanno trovato sono cose che si trovano nelle case di tutti gli italiani. Il resto sono esagerazioni».
Lei è in carcere da quattro anni e sei mesi. La detenzione l’ha cambiata?
«No. Non sono cambiato. Ho solo avuto modo di riflettere su quanto è successo e di aspettare questa sentenza che trovo giusta. Anche se un po’ troppo pesante».
Ha avuto problemi con i detenuti?
«Perché avrei dovuto? Mi rispettano tutti. E io rispetto tutti».
Una giurata ha detto: «Alzando la mano in camera di consiglio ho pensato alle mie figlie. E mi sono detta: spero che Stevanin resti alla larga più tempo possibile».
«Capisco la signora. Ma con le donne sono sempre stato gentile. Perché per me la donna è amore» (Gianfranco Stevanin a Carlo Bonini).