Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 novembre 2016
La signora dal decolleté generoso mi viene a sedere accanto per rinfrescare il suo italiano appreso in Costa Smeralda
• La signora dal decolleté generoso mi viene a sedere accanto per rinfrescare il suo italiano appreso in Costa Smeralda. Ha una grazia che stordisce come il profumo del gelsomino: "Vede, io ho casa a Parigi, un passaporto francese, un marito ricco. Potrei andarmene in qualsiasi momento. Ma la vita sociale qui è impareggiabile. Ogni sera un invito, persone interessanti, terrazze come questa. La mattina vado a sciare sulla Montagna e la sera mi godo il tramonto sulla spiaggia. Niente a che vedere con l´orribile pista di neve artificiale e con gli albergoni pacchiani di Dubai, che pretenderebbe di fare concorrenza al mio Libano".
Alla mia destra siede invece un´importatrice di biancheria intima di lusso. Sta ristrutturando un appartamento nel quartiere cristiano di Achrafiye: "Se c´è una strage in città, l´indomani le mie boutiques restano vuote. Ma i giorni successivi la clientela raddoppia per la voglia di vivere e godere".
Bentornato a casa, levantino d´Europa: la dolcevita t´accoglie con la seduzione dei suoi luoghi comuni decadenti: "Meglio Beirut sotto le bombe che Parigi sotto la pioggia". Oppure: "Beirut è un fiore magnifico. Sappiamo che il suo profumo è velenoso ma non possiamo impedirci di respirarlo".
La signora che parla italiano propone una curiosa teoria su "i nostri vicini del Sud". Nomina così gli israeliani, con ironico distacco, avendo saputo che lì sono emigrati i miei parenti vissuti in una Beirut paradisiaca per quasi trent´anni: "I nostri gentili vicini del Sud sanno che un Libano pacificato metterebbe in ginocchio il loro budget turistico. Per questo ci riservano tante sgradevoli attenzioni". Ma gli Hezbollah che governano di fatto il Libano meridionale e la parte ovest della capitale? I palestinesi segregati nei campi profughi? Come non esistessero. Sarebbe unfair nominare a tavola estranei così sgradevoli.
Qualche sera prima avevo commesso la gaffe allo Ski Bar. Un luogo che, arrivando da Milano, è riuscito a farmi sentire tremendamente provinciale con le sue centinaia di bottiglie superalcoliche illuminate a disegnare i contorni del golfo, il nero del design minimalista concepito per esaltare il cielo stellato. Lì dunque ho fatto un cenno ai miei commensali sul pomeriggio trascorso fra le macerie del quartiere sciita di Dahiye, bombardato un anno fa dagli israeliani. Stupore. George, marito della bella giornalista Cristiane Tawil, direttrice del mensile Déco, la butta sul ridere. "Ti hanno accompagnato in visita a Ground Zero?". Ma la sua amica che ce l´ha a morte con la Siria perché il marito costruttore ha tuttora un contenzioso di 37 milioni di dollari con Damasco, esclama: "Come ha potuto?". Signora, replico, Dahiye è un quartiere della sua città; non lo conosce forse? "Mai messo piede in quel posto, sono un´europea, io! Cosa c´entra quella gente incivile col Libano?". Lei in effetti vive la più parte del suo tempo a Marbella, dove cura gli interessi dello stilista Roberto Cavalli. E se tiene aperto il palazzo di Beirut è solo perché a una patria così non si rinuncia facilmente.
Ma dove sono capitato? O meglio, dove sono ritornato cinquant´anni dopo? A raccontare forse lo splendore agonizzante di un luogo sin troppo favoleggiato, elevato a mito nei racconti dei miei genitori che parlavano l´arabo, l´ebraico, il francese, ma non certo l´italiano, quando mi misero al mondo a Beirut nel 1954?
Questo ritorno al Vieux Pays, come i libanesi emigrati chiamano fra di loro la terra che rimpiangono, è oggi un viaggio sulla frontiera insanguinata di quell´etnocentrismo malsano – basta con la mescola comunitaria: a ogni terra un solo popolo - che ha stravolto i connotati millenari del Mediterraneo. Sono bastati meno di cent´anni perché città-mosaico come Salonicco, Istanbul, Smirne, Aleppo, Haifa, Alessandria d´Egitto, a furia di trapianti, genocidi, pulizie etniche, guerre civili eterodirette, vedessero schiacciata nell´uniformità comunitaria quella che fu la loro ricchezza levantina. Una riduzione brutale della pluralità cui a fatica resiste l´eccezione libanese per il semplice motivo che qui l´instaurazione di uno Stato islamico comporterebbe un bagno di sangue paragonabile solo allo sterminio degli armeni del 1915.
Allo Ski Bar osservo l´eleganza di questa borghesia che si affida volentieri alla chirurgia estetica pur di mantenersi impeccabile. Continui saluti da un tavolo all´altro. Raffinate perfidie femminili. Arriva una signora ornata di collier spettacolare e Christiane, impassibile: "Mignon la tua camicetta!". Ci degna invece solo di un "a presto" frettoloso l´amica che s´accompagna al banchiere ebreo De Picciotto, temerariamente rientrato da Ginevra a Beirut per amor suo. L´evento mondano della stagione. Pare abbiano affittato l´intero ultimo piano dell´Albergo, l´unico relais de charme a cinque stelle. Tutti quanti s´inebriano quando risuona la voce bianca di Mika, il cantante pop figlio di fuoriusciti libanesi che eleva la sua acutissima lode da hit parade a Grace Kelly.
Tragedia e futilità convivono nelle medesime persone. L´attempata celebrità locale Vivian Eddé, titolare della rubrica di gossip più letta del Medio Oriente, mi racconta della volta che suo fratello Joe – capo milizia dei falangisti maroniti durante la guerra civile - le portò a cena in rue Monod niente meno che Ariel Sharon, nella Beirut occupata del 1982. Ora vuole fondare un nuovo partito pro-israeliano, dal seguito temo assai problematico.
E´ come se questi signori, cosmopoliti giocoforza per gli anni trascorsi all´estero durante la guerra civile 1975-90, ma aggrappati a una tradizione semi-feudale, non volessero riconoscere il nuovo volto del paese che amano, ritornato sbocco mediterraneo dell´Iran per la prima volta dopo duemila anni: la fisionomia atavica di un capo sciita come Hassan Nasrallah, l´architettura del centro storico ricostruito da Rafic Hariri con gigantismo saudita.
Finchè la nostra vita continua, sembrano dire i signori di Beirut, non si può vivere che così. Riconosco in loro l´innato senso di superiorità che avvolge le memorie della mia famiglia e perdura ostinato anche tra le macerie. La certezza che in lusso, prelibatezza di cibi, eleganza di modi, bellezze naturali, nessun altro luogo al mondo potrà mai competere con questo tuo Libano. E in effetti il confronto con gli arredi, i servizi alberghieri, il garbo libanesi è imbarazzante per chi come me è abituato alla compagnia spiccia dei "vicini del Sud".
Ma ora che questo Vieux Pays sta ricominciando a praticare l´inventario delle gocce di sangue e delle particelle d´anima ”stremato nel braccio di ferro con le pretese di dominio siriane e l´integralismo oscurantista degli Hezbollah sciiti- è l´idea stessa del Levante a rischiare l´estinzione. Serve a nulla la nostalgia di un´epoca novecentesca in cui il pascià Ohannes Kouyumjian, governatore della Montagna, proclamava: "Turchi, armeni, arabi, greci ed ebrei, cinque dita dell´augusta mano del sultano". Ignaro, quel povero funzionario armeno, del fatto che proprio allora stava cominciando il massacro del suo popolo, e la guerra mondiale avrebbe posto fine all´impero della Sublime Porta. Da poco Sélim Boustani aveva decantato il Libano "ventre accogliente", quasi una femmina orientale ansiosa d´incontrarsi con l´Europa. E Gérard de Nerval, colpito dalle montagne innevate, aveva coniato la fortunatissima metafora della Svizzera di Levante. Ma il trentennio cruciale che va dal 1918 al 1948, cioè dalla dissoluzione dell´impero ottomano alla nascita dello Stato d´Israele, avrebbe violentato l´idea di Levante. L´indipendenza ottenuta nel 1943 da un Libano multiconfessionale, lo condannava all´anacronismo in un Medio Oriente panarabo, turco, sionista – in una parola - sempre più etnocentrico.
Questo Levante, in arabo Mashriq, "la terra dove sorge il sole", grazie allo straordinario legname dei cedri così a ridosso del mare, ha generato un popolo di navigatori e favorito i primi scambi del Mediterraneo. Nei secoli la levantinità è divenuta un carattere proverbiale, simbolo d´astuzia e intraprendenza. Qui chiamano levantini gli europei venuti d´oltremare, esattamente come noi chiamiamo levantina la gente della sponda sud. E´ la compagine riunita dei popoli che hanno fatto ricca e grande la civiltà mediterranea.
Questa pulsione antichissima a trafficare insieme spiega il mistero della vitalità insopprimibile di Beirut. Città che cade e risorge in continuazione, sprigionando energia produttiva di giorno e passione dionisiaca la notte.
Distruzione e ricostruzione, è il moto perpetuo del Levante, come le onde del suo mare. A Jounieh ho incontrato uno dei pochi ebrei rimasti in Libano, il professore di storia dell´arte Joe Tarrab. Mi racconta una Beirut stratificata da quattromila anni sulle sue rovine, sempre però rinnovando l´impressione di essere nata ieri. Porto d´approdo per i rifugiati d´ogni genere, ne riunisce i saperi come la pentola col coperchio. Basta osservare la classica casa libanese a due o tre arcate tipicamente orientali. Dal 1860 sono cominciate ad arrivare le tegole di Marsiglia: i mastri massoni libanesi e gli architetti italiani ne hanno fatto un tutt´uno, arabeschi e tetti rossi. Miracolosamente sopravvissuta tra gli albergoni della Corniche ”in rue Inb Sina, che poi sarebbe Avicenna- ho ritrovato intatta quella in cui sono nato. Che fortuna ho avuto a andarmene per tempo. Ma che cosa mi sono perso…
• Beirut. La Repubblica 25/7/2007. C´è una lapide fiorentina che lo immortala come "Faccardino Grande Emir dei Drusi". Naturalmente con il turbante, la barba lunga e una ricca tunica damascata: elegante come sapevano esserlo quei forestieri provenienti dalla terra fenicia in cui nacque il commercio della porpora, poi divenuta scalo di Levante sulla via della seta.
Era il 3 novembre 1613 quando il vascello di Fakhreddine II il Grande, dopo cinquanta giorni di avventurosa navigazione, ormeggiò nel porto di Livorno. Una settimana dopo, il Principe dei drusi in Fenicia e al Monte Libano veniva accolto con tutti gli onori alla corte del granduca Cosimo II de´ Medici. I due s´intesero ben oltre le convenienze diplomatiche. Discepoli della razionalità islamica di Ibn Khaldun e della razionalità europea di Niccolò Machiavelli, diedero forma a un´unione tra levantinità e fiorentinità i cui frutti impreziosiscono tuttora il paesaggio libanese. Il nobile fuggiasco aveva riunito per la prima volta sotto l´egemonia della sua Montagna un vasto territorio costiero che da Tiro e Sidone risale oltre Beirut fino a Byblos e Tripoli. Per questo la Sublime Porta ottomana, insospettita dalle sue mire indipendentiste, l´aveva costretto all´esilio. Alla corte dei Medici approdava l´idea del Libano moderno.
Oggi sappiamo quanto furono fecondi i sei anni in cui Fakhreddine soggiornò a Firenze, tessendo alleanze antiturche con la Spagna, la Francia e lo stesso papato che già trent´anni prima, nel 1584, sotto Gregorio XVIII, aveva istituito a Roma il Collegio maronita, recuperando l´antichissima chiesa siriana fondata ad Antiochia dal monaco Marone. Cosmopolita anzitempo, Fakhreddine aveva richiamato nei villaggi montani ricchi d´acqua del suo Chouf i contadini cristiani. Delegando ai guerrieri drusi la difesa del territorio dai giannizzeri del sultano e dagli sciiti del sud.
Trionfale sarà il ritorno in patria di Fakhreddine. Sbarcato a San Giovanni d´Acri nell´autunno del 1618, lo accompagneranno nella prima capitale libanese di Deir al-Qamar architetti e scultori, medici e agronomi. Oltre a un campionario di viti e piante da frutto d´oltremare. La terra di Levante diviene strategica nelle trame europee. Fin da allora si rassegnerà a ospitare in casa propria le guerre degli altri, diventando in compenso il più fecondo laboratorio della cultura mediterranea. Alla corte di questo nobile druso, cioè figlio di una tradizione musulmana esoterica, lavoreranno i contabili ebrei Isaac Karo e Abraham Nahmia, i tecnici italiani e i funzionari cristiani maroniti che in seguito assurgeranno nell´élite nobiliare. Fra drusi e maroniti si alterneranno incontri e dissidi culminati nei massacri del 1860 fino alla riconciliazione del 1984 tra la famiglia Jumblatt e la famiglia Chamoun.
Deir al-Qamar oggi è più nota come la città del vecchio presidente cristiano Camille Chamoun, la cui nipote Tracy - dopo l´ecatombe della guerra civile - è fuggita negli Usa e s´è convertita al buddismo. Suscito una cinica ilarità, allo Sky Bar di Beirut, quando lo racconto ai signori della dolcevita fin troppo avvezzi alle stragi e alle repentine conciliazioni.
Osservo il panorama della montagna libanese dalla piazza di Deir al-Qamar, dopo aver assaggiato l´acqua miracolosamente gelida della sua fontana proprio di fronte al palazzo voluto dal suo emiro in stile rinascimentale: lassù, oltre i duemila metri, s´intravede l´ultima riserva dei cedri sopravvissuti a secoli di cantieri navali e residenziali. Ma verso il mare i fianchi della montagna coltivati a frutteto richiamano il paesaggio della Liguria, grazie alla tecnica delle terrazze importata cinque secoli fa.
Il 13 aprile 1635 il temerario Fakhreddine finirà decapitato a Istanbul su ordine di Murad IV. La testa dell´"empio ribelle", conficcata su una lancia, verrà esibita come un trofeo in giro per la capitale dell´impero. Ma risalendo di pochi chilometri i tornanti fino a Beiteddine ci imbattiamo nella meraviglia generata da quel primo incontro moderno fra il Libano e l´Europa: l´imponente palazzo dell´emiro, ormai cristiano, Bashir II, apogeo di quella che non a caso viene chiamata "arte arabo-toscana". Nei saloni, negli hammam, nei chiostri e nelle piscine si realizza la fusione fra i marmi di Carrara, gli stucchi, i vetri di Murano e il cedro intarsiato. Spettacolare tuffo nel passato: una delle più vaste collezioni di mosaici bizantini. E´ l´architettura libanese del Diciannovesimo secolo, via di mezzo fra il barocco italiano e lo stile arabo.
Spiega lo storico dell´arte Joe Tarrab: «Non c´è da stupirsi che nell´Ottocento gli intellettuali libanesi, per sentirsi all´altezza, dovessero parlare l´italiano. Il Collegio maronita di Roma era il loro punto di riferimento. Prima ancora le repubbliche marinare di Genova e Venezia avevano riconsacrato nei porti di Tiro, Sidone, Byblos e Tripoli il loro sposalizio del mare. Solo più tardi, al seguito delle missioni, sarebbe subentrato il francese».
Protetti dall´inaccessibilità della Montagna; eredi dello spirito avventuroso dei fenici e del mercantilismo dei genovesi d´oriente, dei veneziani, dei marsigliesi; fornitori delle tessiture di Lione: i levantini erano ormai un raffinato popolo mediterraneo. Fa impressione pensare che ancora nel Diciottesimo secolo, ben oltre la scoperta dell´America, le due città più grandi d´Europa restavano Istanbul e Napoli: ricchezza e cultura ancor oggi paiono destinate a generarsi nello scambio fra queste sponde.
Per la verità le mappe dei viaggiatori e perfino le cartoline illustrate d´inizio Novecento chiamano Siria questa terra. Ma quando interrogo l´anziano editore del quotidiano Nahar sul diritto che avrebbe il Libano di considerarsi entità separata dalla Siria, Ghassan Tueni cita per primo il principato di Fakhreddine II il Grande. Diplomatico, politico e giornalista, Tueni è l´unico intellettuale libanese unanimemente rispettato al di fuori della sua cerchia (è greco-ortodosso) e della sua tragedia personale: due attentati gli hanno portato via il figlio Gebran e un giovane collaboratore del prestigio di Samir Kassir, a noi noto per il saggio postumo L´infelicità araba.
Sono - Tueni e Kassir - i cultori appassionati del moderno rinascimento arabo, loro lo chiamano Nahda, cioè di quel movimento razionalistico di modernizzazione che fra la fine dell´Ottocento e l´inizio del Novecento ebbe negli intellettuali libanesi emigrati al Cairo i suoi protagonisti. Studiosi che non dissimulavano la loro ammirazione per il progresso occidentale. Rifiutavano l´idea oscurantista di una norma coranica sottratta all´evoluzione dei tempi. Cocente è stata per loro la delusione di fronte alla sconfitta del panarabismo laico di Nasser, degenerato in panislamismo integralista. Il Novecento ha tradito le loro speranze d´integrazione mediterranea: «Con la Nahda, la cultura araba si ricostruisce a partire dalla scoperta dell´Altro, l´Altro europeo», scriveva Kassir prima di essere ammazzato il 2 giugno 2005. E a 81 anni Ghassan Tueni da buon libanese non smette di crederci, anche se il suo ultimo libro s´intitola: Un secolo per niente. l´esito drammatico della separazione in atto fra il cosmopolitismo levantino e la mentalità islamica dominante. Una scissione che lo storico del Medio Oriente, Fred Halliday, fotografa nel contrasto fra i titoli di prima pagina dei giornali popolari arabi del 1900 e del 2000: un secolo fa esaltavano cambiamento e modernità; oggi impazza la retorica della turath, cioè del ritorno alla tradizione. La difesa dell´arabità del Libano è considerata un imperativo assoluto che accomuna antisiriani e filosiriani. Al controllo passaporti dell´aeroporto la freccia indica: libanesi a destra, arabi e stranieri a sinistra. Guai a definire straniero un arabo di nazionalità diversa, la regola vige anche a Beirut.
Ma l´atavismo e il panislamismo reazionario nutriti dalla contrapposizione all´Occidente, rischiano di spezzare fisicamente in due un Libano che tuttavia, anche nel Sud sciita, esibisce una presenza europea addirittura precedente l´epoca crociata. I ragazzi che possono permetterselo fanno la spola con le nostre città. La maggioranza invece s´imbeve di slogan sanguinari, mitizzando la propria appartenenza comunitaria e la guerra contro Israele. Il Mediterraneo sta già pagando altrove il prezzo salato di una tale spaccatura. Oggi l´emiro Fakhreddine sarebbe liquidato come un traditore?
Incontro numerosi protagonisti di una cultura levantina che sento fino in fondo mia, ma mi chiedo fino a quando resisteranno. La ritrovo quando visito Walid Jumblatt, odierno principe druso della Montagna, nella sua fortezza blindata della Moukhtara, esempio anch´essa d´arte "arabo-toscana". Quest´uomo condannato dal destino a guidare il fronte politico antisiriano, vivrebbe credo più volentieri a Parigi se un atavico senso dell´onore non gli imponesse di attendere qui una morte probabile.
Rifiuto di pensare che la cultura levantina debba accontentarsi di essere rappresentata solo dalle celebri mezze della cucina libanese o dai palazzi-rifugio in cui i signori perpetuano sino al folklore i fasti decadenti della dolcevita. Mi assale la malinconia quando vengo ricevuto nel paradiso di Byblos da Roger e Alice Eddé. Hanno ricostruito una sontuosa abitazione a picco sulla baia che la famiglia genovese degli Embriaco rese florida al tempo dei crociati, chiamandola Gibelleto. Alice, americana, si dedica al restauro del vicoli medievali intorno al porticciolo e alle rovine del quarto millennio avanti Cristo. Lui si divide tra il business e gli stretti rapporti politici con Washington. Desolatamente vuoti sono i locali la cui vita notturna fu animata da Brigitte Bardot e Marlon Brando (ma anche da Felice Riva, nostrano furbetto del quartierino ante litteram).
Gli Eddè hanno costruito un resort, investono nel rilancio turistico di Byblos che se lo meriterebbe come e più di Portofino. Ma il lusso cosmopolita taglia fuori i libanesi di oggi. Quanto potrà sopravvivere assediato dai profughi, dalle donne velate, dagli uomini barbuti? La cultura levantina o parlerà arabo, o tacerà per sempre.
(2 - continua)
Gad Lerner
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LA DIVINA VITTORIA. La Repubblica 28 luglio 2007. Beirut. Amal Makarem è una cassandra della memoria, il suo puntiglio mi ricorda certe algerine temerarie che dieci anni fa sfidavano i terroristi passeggiando a capo scoperto nella casbah. Pochi libanesi osano darle retta quando invoca una ricostruzione meticolosa delle atrocità commesse fra il 1975 e il 1990, i quindici anni della guerra civile costata più di duecentomila morti in un paese che non raggiunge i quattro milioni di abitanti. Lei trova insana l´euforia che rimuove il lutto e assolve i colpevoli: i capi delle milizie fotografati fianco a fianco, perché oggi fanno parte della stessa coalizione di governo.
Inutilmente profetizza: la maledizione tornerà ad abbattersi su un paese che rifiuta di ricordare, i cui giovani continuano ad affiliarsi per clan e a dichiararsi assetati di sangue. Ma di fronte a un ebreo come me che ha lasciato il Libano per la difficoltà di viverci dopo la nascita dello Stato d´Israele, Amal Makarem s´accende di orgoglio: «Libano e Israele sono due prototipi che si fronteggiano. Questo è uno Stato fondato sulla pluralità di rappresentanza, dov´è garantito uno spazio perfino a comunità minuscole come gli alawiti e gli armeni; l´altro è uno Stato confessionale ebraico. O Israele si piegherà al modello libanese, o succederà il contrario e sarà di nuovo una tragedia».
Strano ma vero. Lei che denuncia l´ingiustizia di una democrazia confiscata dagli ex signori della guerra - padrini che a detta di Samir Kassir trasformarono le comunità in mafie-, lei donna laica, oggi vorrebbe convincermi a uno sguardo rispettoso nei confronti della rappresentanza politica sciita, gli Hezbollah. Dipenderà dal fatto che il Partito di Dio è riuscito a tenere fuori gli sciiti dalla guerra civile: mentre gli altri libanesi si ammazzavano a vicenda, loro costruivano la resistenza contro l´occupante israeliano. E così, divenuto potente, il loro capo Hassan Nasrallah ha promulgato una fatwa per giurare che mai la sua forza militare verrà impiegata a danno di concittadini d´altra fede. Fatto sta che Amal Makarem insiste nel descrivermi i parlamentari Hezbollah come i più professionali, i meno corrotti, gli unici selezionati a prescindere da logiche dinastiche o plutocratiche.
Non mi convince ma voglio capirci di più in questa riscossa sciita che sulla scia della rivoluzione khomeinista del 1979 ha finito per schiudere dopo duemila anni ai persiani un inquietante spazio mediterraneo. E´ il volto oscuro del Libano, quello dei veli e delle barbe, i veri nemici della cultura levantina.
Prima di essere ammesso in una sede Hezbollah, raccolgo le confidenze di un intellettuale vicino al partito che vuole mantenere l´anonimato. Sorride a Jeanine Jalkh, la giornalista maronita che mi accompagna: «Tu mi conosci, io non potrei sopportare l´idea di vivere in un Libano da cui fosse cancellata la presenza dei miei fratelli cristiani». Devo credergli? Dal 1932 in questo paese sono proibiti i censimenti. Qualsiasi variazione demografica, resa pubblica, incoraggerebbe tentazioni eversive della costituzione materiale che assegna i posti-chiave dello Stato su base confessionale. Ma lo sanno anche i sassi che nel frattempo il boom demografico ha ingigantito il peso della comunità sciita. D´accordo, il programma Hezbollah esclude l´instaurazione di uno Stato islamico. Ma, gli chiedo, voi sciiti non sognate un giorno di vedere il vostro leader supremo Nasrallah presidente della Repubblica o capo del governo? La risposta mi ghiaccia: «Ma già oggi Nasrallah è molto, molto più importante del presidente della Repubblica e del capo del governo!».
Con la sua armata che ha tenuto testa a Israele, con il suo welfare capillare finanziato da Teheran, con la sua televisione privata, Hezbollah viene percepito a tutti gli effetti dagli sciiti come uno Stato nello Stato. E amministra questo suo potere con accortezza tattica: non dimentichiamo che la scuola diplomatica iraniana è fra le più antiche e raffinate. Il crescendo della «vittoria divina» (questo significa in arabo Nasrallah) assume toni apocalittici nelle visioni del mio interlocutore: «E´ ormai evidente la crisi d´Israele, che tra dieci anni non esisterà più. A quel punto tutto sarà diverso. Ma la vera guerra cui dobbiamo prepararci sarà quella con i sunniti che in Siria travolgeranno prima o poi il fragile regime alawita, e muoveranno contro di noi. L´insidia non ci viene dai cristiani ma dai sunniti». Un incubo, questo futuro mediorientale portatore di una guerra dopo l´altra.
Quando infine verrò ricevuto da Ghaleb Abu Zaynab, membro dell´ufficio politico di Hezbollah e stretto collaboratore di Nasrallah, naturalmente gli argomenti saranno molto più diplomatici ma non per questo meno interessanti. Zaynab ha 43 anni e proviene da una famiglia sunnita. Diciassettenne si convertì allo sciismo per il richiamo - prima ideologico, mi spiega, e solo poi religioso - esercitato su di lui dalla rivoluzione iraniana.
Dice già molto la sede anonima e spoglia in cui ci incontriamo nel quartiere bombardato di Dahiyeh, dove vigono norme di semiclandestinità nonostante siano militanti del partito perfino i ragazzi che smistano il traffico automobilistico.
«Per quanto importanti siano state le variazioni demografiche degli ultimi decenni - dice Zaynab - è un fatto che in Libano tutte le comunità, anche le più grandi, singolarmente prese restano una minoranza. Noi crediamo nell´islam come cammino ideale per l´uomo, una fede cui vogliamo convincere, non costringere gli altri. Quindi la condizione multiconfessionale del Libano ci impone pragmatismo. La nostra appartenenza alla umma, la comunità sopranazionale di tutti i musulmani, deve limitarsi su un piano ideologico».
Questa preoccupazione di rivendicare innanzitutto la libanesità di Hezbollah si manifesta pure sul tema più incendiario: il nemico sionista. In passato Nasrallah si distingueva per le sue ingiurie antisemite, ben prima che a Teheran le rilanciasse Ahmadinejad. La guerra a Israele veniva presentata come imperativo assoluto. Oggi, con la tregua in vigore, sembra prevalere un´inedita prudenza.
Chiedo a Zaynab: una volta garantita la vostra integrale sovranità territoriale, la guerra a Israele resterebbe un dovere religioso? Risposta: «La nostra resistenza a Israele è fondata su due principi. La liberazione dei territori libanesi. La capacità di dissuadere Israele dall´attaccarci di nuovo. Noi siamo sensibili alla questione palestinese che però non rientra nei due punti che le ho esposto».
Insisto: dunque la distruzione di Israele non rientra fra gli obbiettivi di Hezbollah?
Zaynab aggira l´insidia così: «Il problema sono i palestinesi, non Israele. Noi speriamo che i palestinesi recuperino ciò cui hanno diritto, ma ci atteniamo ai due punti del nostro programma». Mi sono dilungato nel descrivere la sinuosità tattica di un alto dirigente Hezbollah perché troppo spesso appiattiamo questo movimento nella sua dimensione terroristica. Il che ci impedisce di fare i conti con la sua forza reale. Basti pensare che l´unico ospedale libanese che abbia superato tutte le verifiche sugli standard di qualità è quello gratuito che il Partito di Dio ha costruito a Dahiyeh, probabilmente con i soldi di Teheran.
La riscossa sciita alimenta fantasiose teorie pseudo-marxiste sull´ascesa sociale dei diseredati. Anche perché prima della rivoluzione iraniana l´élite sciita era laica e sinistreggiante.
Mi mette in guardia Ahmad Beydun, un sociologo molto stimato, peraltro egli stesso sciita: «Neanche loro accetterebbero più questa immagine di classe subalterna, che fu il cavallo di battaglia dell´imam Musa Sadr negli anni Settanta. Oggi semmai avvertiamo gli sciiti come potenziali oppressori della società libanese. Li anima la consapevolezza di essere stati a lungo esclusi dagli impieghi pubblici, nonostante la volontà ferrea e il profitto dei loro studenti. A lungo il Libano del Sud, quasi interamente sciita, subì anche un regime fiscale penalizzante. E infine la ricostruzione del nuovo lussuoso centro storico di Beirut realizzata da Rafiq Hariri, ha di fatto espulso la presenza storica del commercio ambulante sciita. Ma ora che sono fortissimi, anche grazie all´Iran, gli sciiti purtroppo replicano la pratica dell´autosufficienza comunitaria inaugurata a suo tempo dai maroniti. Ogni comunità libanese ha le sue scuole, i suoi ospedali, i suoi mercati. Nella mia università gli scontri fisici tra sunniti e sciiti sono diventati frequenti. Ciò che frena oggi la deflagrazione è la consapevolezza che sarebbe enorme. Lo spettro di una nuova guerra civile modera i politici, primi fra tutti gli Hezbollah: anche loro ormai hanno qualcosa da perdere, in questo paese».
Ricordo la signora bene che sorseggiando un kir royal allo Sky Bar, inorridiva all´idea che io visitassi questa gente sciita, estranea al Libano europeo cui lei resta aggrappata. La frattura culturale sembra irrimediabile. Non so se con le loro armi pesanti che continuano ad affluire dalla Siria, gli sciiti potrebbero davvero cancellare ciò che resta della levantinità. Sarebbe un bagno di sangue, escluderei che osino tanto. Ma nel frattempo una popolazione di poeti, contadini, doganieri, commercianti, radicata tenacemente nel suo territorio da Baalbek fin giù al confine israeliano, pare snaturata da un´egemonia straniera. Gli intellettuali progressisti rimpiangono la disponibilità al dialogo che caratterizzava lo sciismo libanese dell´imam Musa Sadr, misteriosamente scomparso in Libia nel 1978. Certo, era un amico dell´ayatollah Khomeini, ma non esitava a tenere i suoi sermoni per la convivenza in chiesa, fianco a fianco con i patriarchi cristiani. La politica egemonica di Teheran calpesta questa tradizione. Potrà mai essere recuperata?
Dalla base dei parà italiani della Folgore, a Tebnine, nel Libano del Sud, mi giunge inaspettata una mail del comandante generale Maurizio Fioravanti. E´ tornato a Bent Jbail, la città semidistrutta nei combattimenti più sanguinosi dell´estate scorsa, e vi ha incontrato il sindaco: un medico, leader carismatico degli Hezbollah. Chissà perché, ha voluto rivelargli la visita del giornalista italiano, ebreo nato a Beirut, che la frontiera l´aveva finora potuta vedere solo dalla parte d´Israele, dove vive ormai tanta parte della sua famiglia. Il generale Fioravanti ha raccontato al sindaco del mio primo pensiero dedicato a Uri, il figlio di David e Michal Grossman, caduto a Bent Jbail l´ultimo giorno di guerra. Eppure lo so che i morti libanesi a Bent Jbeil sono stati molti, molti di più. Gli ha detto di quell´emozione complicata: gratitudine per i soldati del paese che mi ha accolto regalandomi una vita di benessere, venuti nel paese in cui nacqui a cercare la pace con la terra d´Israele che mi è cara.
Come ha reagito il carismatico sindaco Hezbollah? Così scrive Fioravanti: «A testa bassa il dottore ha mormorato "C´era un ebreo, qui, domenica". Un attimo di silenzio. Poi ha alzato la testa: "Caro generale, dica al suo amico che questa terra è anche sua, Bent Jbail lo aspetta e lo aspetterà anche quando lei sarà rientrato in Italia". In quel momento ho provato una soddisfazione che da sola può valere tutta la mia missione di sei mesi».
Al generale che mi ha voluto fare questo regalo bellissimo, rispondo sinceramente: non credo che avrò il coraggio di tornare a Bent Jbeil senza la compagnia dei soldati italiani. Ma la sua lettera tiene accesa in me la speranza.
(3 - continua)
Gad Lerner
• Il direttore del giornale studentesco di Tripoli sobbalza quando gli racconto la storia che mi ha portato qui: «Sul serio? Lei è ebreo? Mi perdoni, ma è il primo ebreo che vedo in vita mia ! ». Ridiamo del suo imbarazzo: «Tocca pure, sono fatto di carne e ossa come te». Eppure questo antico porto levantino, capitale della contea crociata dei Saint Gilles, famoso per i caravanserragli dell´oro, del sapone e delle spezie, per millenni ha ospitato una colonia di mercanti ebrei, collegati alla grande comunità di Aleppo. Lo stupore di questo giovane testimonia perciò una sconfitta recente del Levante: la brutale semplificazione nel mosaico delle sue nazionalità, consumata nel breve volgere di mezzo secolo. Dove sono gli armeni, i curdi, i copti, i greco-ortodossi, gli alawiti che pure figurerebbero ancora fra le diciotto comunità tutelate dalla costituzione libanese?
Il giornalista che non ha mai visto un ebreo m´intrattiene nel salone domestico del deputato Misbah Ahdab, affollato di delegazioni convocate a turno presso la sua sedia. Parla un italiano perfetto, Ahdab, imparato seguendo la madre nei suoi shopping in via Condotti. Ospite squisito, mi invita a mangiare il pesce su di una Corniche presidiata dai blindati dell´esercito e innaturalmente desertificata: alla periferia di Tripoli infuria la battaglia nel campo palestinese di Nar el-Bared. Nonostante la sorveglianza asfissiante per il rischio di attentati, il deputato antisiriano esibisce buonumore.
Così, seduti a tavola, ha inizio fra noi il gioco dei passaporti.
Conversazione levantina in tono frivolo, zeppa di riferimenti ai luoghi e ai cibi comuni, da cui affioreranno però le domande più scomode di questo mio ritorno a Beirut: cos´ha distrutto, intorno a sé, Israele per nascere? Nazionalismo arabo e sionismo, dopo cent´anni di tragitto parallelo, stanno vivendo infine la medesima crisi ideale? Toccherà ai nostri figli pagare le conseguenze tragiche di quella spinta novecentesca alla separazione comunitaria?
Il gioco dei passaporti lo comincia Misbah Ahdab descrivendo l´approccio tipico fra due libanesi che s´incontrano: «Tu di che nazionalità sei?». Racconta di sua sorella, come lui protetta da un passaporto francese fin dal tempo della guerra civile. Dopo cinque anni di soggiorno negli Stati Uniti, ne ha ottenuta la cittadinanza. E ora che ha sposato uno spagnolo, fate pure voi il conto. Pranza con noi un otorinolaringoiatra laureato a Perugia, titolare di una clinica privata. Da poco gli è nata una figlia: sua moglie è andata a partorire a Montreal, così la bimba otterrà il passaporto canadese.
Adesso tocca a me. Per tornare nel Vieux Pays in cui sono nato, ho dovuto fingere lo smarrimento del mio passaporto italiano e farmene rilasciare uno nuovo di zecca. Non avevo altra scelta: dal 1948 alla frontiera libanese viene respinto chiunque rechi sul documento timbri d´ingresso in Israele.
Una bugia dichiarata, quel passaporto rifatto. E una procedura, suppongo, imbarazzante anche per chi è stato al gioco concedendomi il visto - in quanto giornalista italiano - sapendo benissimo la storia che rese consigliabile, agli ebrei che vi risiedevano, lasciare Beirut nel decennio successivo al fatidico 1948.
Non ha ancora compiuto sessant´anni la frontiera del 1948 che rende incomunicanti gli scali del Levante. Nel racconto dei miei genitori la via costiera da Beirut a Haifa - e ritorno - era il più naturale dei percorsi. Si andava e si veniva, in automobile e in treno. Una volta perfino a Gerusalemme in aeroplano. Non conta più di centocinquanta chilometri, la distanza fra Beirut e Haifa.
All´epoca tre o quattro ore di viaggio, con le soste. Divenute a un tratto solo «ore ipotetiche», come scrive il romanziere Amin Maalouf: l´ennesimo miraggio del passato. Fra i tanti scrittori libanesi del rimpianto e della nostalgia, è Maalouf colui che si sforza di fotografare l´attimo della perdita; rintracciandolo entro il fatidico trentennio 1918-1948, quando il Levante s´infrange e tante giovani nazioni ottengono l´indipendenza.
L´autore de Gli scali del Levante esalta «un mondo color seppia dove un turco e un armeno potevano ancora essere fratelli». E descrivendo la fine del Sultano, Maalouf prova sentimenti che ricordano la fascinazione asburgica di certi scrittori mitteleuropei del primo Novecento, come Joseph Roth: «Le terre del Levante vivevano i loro momenti più vili. Il nostro Impero agonizzava nella vergogna; in mezzo alle sue rovine veniva fuori una folla di paesi abortiti: ciascuno pregava il suo dio di far tacere le preghiere degli altri. E sulle strade si allungavano le prime colonne di profughi».
A quel tempo il gioco dei passaporti era disinvolto, assai meno drammatico di oggi.
Traslocando alla fine degli anni Venti da Tel Aviv a Beirut, dei «sabre» come i miei nonni materni potevano continuare a sentirsi abitanti della Terra santa: il Libano è presenza costante nel racconto biblico. Con i libanesi avevano condiviso il passaporto ottomano della loro infanzia, sostituito da generici titoli di viaggio britannici o francesi. Solo di rado, a partire dal 1910, la stampa araba aveva riesumato il termine Palestina per descrivere la minaccia rappresentata dai nuovi insediamenti sionisti, che nel 1914 non superavano peraltro gli ottantacinquemila immigrati ebrei su un totale di 760 mila anime.
Fra la gente del Levante prevaleva la nozione plurisecolare di Balad al-Sham, o semmai Grande Siria, in cui venivano genericamente accorpati gli odierni Israele, Libano, Giordania. Ci fu perfino un tentato approccio, durante la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, fra i nascenti movimenti nazionalistici degli arabi e degli ebrei, accomunati dall´insofferenza nei confronti del Gran Serraglio di Istanbul. I turchi diventavano laici ma pretendevano di dominare gli arabi. La tradizionale comunità dei credenti musulmani cedeva il passo a un «risveglio» panarabo, una specie di umma moderna non a caso guidata spesso da cristiani come il libanese Najib Azuri.
Arabi ed ebrei che per decenni avevano ammirato gli eroi del Risorgimento italiano, e ora assistevano all´esplosione nazionalistica in Grecia e nei Balcani, sentivano che era venuto il momento per loro di passare all´azione. Il cosmopolitismo levantino non era più una virtù; lo stesso Mediterraneo pareva balcanizzarsi in specchi lacustri contrapposti. Del resto erano stati i Giovani Turchi a mettere in pratica per primi l´idea etnocentrica, sterminando gli armeni nel 1915. Un´idea, purtroppo attualissima, secondo cui solo fra simili si potrebbe vivere bene, a meno che gli estranei si sottomettano.
Il Libano diventa indipendente nel 1943. Israele cinque anni dopo.
Il Libano paga con una sanguinosa guerra civile la precarietà del suo modello multiconfessionale. Anacronismo o speranza in un futuro cosmopolita? Israele viene aggredito dal rifiuto arabo, e non solo arabo, all´idea esclusiva di uno Stato degli ebrei. Per costruirlo, il sionismo aveva desacralizzato la sua lingua liturgica, laicizzato le sue tradizioni. Ma adesso per sopravvivere lo stesso sionismo rovescia i termini, prende il sopravvento la radice religiosa, lo Stato degli ebrei tende a trasformarsi in Stato ebraico. Deludendo le speranze di pensatori critici come Martin Buber, per i quali la nazione ebraica ritrovata aveva senso in quanto preannuncio di redenzione universale. Come scriveva a Gandhi nel 1939: «Decisiva per noi non è la promessa della terra, ma la missione che ci lega a questa terra per fare un popolo libero».
Come posso rimpiangere la perdita di un Libano plurale e al tempo stesso desiderare uno Stato d´Israele solo ebraico? Come posso guardare fiducioso al futuro del sionismo, quando di fronte ai miei occhi si consuma la degenerazione islamista del panarabismo?
A Beirut ho incontrato molti nostalgici ammiratori della laicità di Nasser che a denti stretti però devono ammettere: alla fine, per sopravvivere, il regime egiziano s´è piegato all´egemonia culturale reazionaria dei Fratelli Musulmani. Perfino l´infelicità araba e l´infelicità ebraica ormai si somigliano. E così pure il gioco dei passaporti, con tutte le sue mascherate burocratiche e identitarie, diventa sempre meno divertente.
Per andarsene dal Libano in Italia, mio padre si procurò a caro prezzo degli improbabili titoli di viaggio panamensi. Carta straccia, dopo l´espatrio: l´avrei pagata restando privo di nazionalità fino all´età di trent´anni. E nonostante ciò mi è ben chiaro che degli scampati alla dissoluzione del Levante resto senz´altro fra i più fortunati.
Se mi guardo intorno, faccio in fretta a vedere come questa storia del passaporto avveleni la vita di tanta gente dal destino simile al mio. Tu di che nazionalità sei? Naturalmente è una domanda che nel Libano di oggi si possono permettere solo i privilegiati. Nel secolo trascorso, mentre centuplicava la popolazione ebraica in Terra santa, il Libano faceva i conti con l´arrivo di una diciannovesima comunità di cui non è prevista l´integrazione: i palestinesi relegati nei campi profughi sono probabilmente più di mezzo milione, cioè il 15% della popolazione residente. A loro è negato perfino il diritto di circolare per il Libano. E fa impressione verificare che più ancora dell´israeliano è lui, il palestinese, il nemico che mette d´accordo fra di loro le diciotto confessioni riconosciute a Beirut. Suscita ostilità unanime, è indicato come la causa prima di trentacinque anni di guerre per gli altri.
Il Levante è stato la negazione della logica mors tua, vita mea. Possibile che ne divenga l´emblema?
Al duty free dell´aeroporto di Beirut, insieme a confezioni gigante di dolci baklawa, vendono un´edizione inglese dei Protocolli dei savi di Sion che ne accredita l´autenticità.
Commiato sgradevole. Basta con la commedia levantina del giornalista italiano, in realtà libanese ma forse, chissà, pure israeliano. All´Ospedale americano di Beirut ho tentato invano di farmi rilasciare un certificato anagrafico. Frugano un po´ tra faldoni di scartoffie, mi rinviano all´impiegato più anziano: ma lei è proprio sicuro di essere nato qui?
(4. Fine. Le puntate precedenti
sono uscite il 21, 25 e 28 luglio)