Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 novembre 2016
Quirinale: elezioni del presidente/1, La Stampa, 4 maggio 2006 la Repubblica dei Presidenti monarchici Perché lo chiamino ancora «conclave», a sessant’anni, quasi, dalla nascita della Repubblica, resterà un mistero
• Quirinale: elezioni del presidente/1, La Stampa, 4 maggio 2006
la Repubblica dei Presidenti monarchici
Perché lo chiamino ancora «conclave», a sessant’anni, quasi, dalla nascita della Repubblica, resterà un mistero. Cosa possa far somigliare la processione dei cardinali che invocano lo Spirito Santo al confuso arruffarsi dei mille Grandi elettori, è difficile dire. Nella politica italiana, infatti, non c’è nulla di più irrazionale della corsa al Quirinale, delle regole non scritte, dei giochi sempre aperti, della liturgia irripetibile che porta imprevedibilmente alla scelta del Capo dello Stato. Stavolta - ed è l’undicesima - la partita è cominciata in ritardo, c’è voluto un po’ di tempo per districare l’ingorgo di elezioni, nuovo Parlamento, cambio di governo e nuovo Presidente, e trovare alla fine un calendario, un ordine di precedenze, un filo di coerenza. Ma ora che la data della prima votazione è fissata all’8 maggio, sulla vigilia, come sempre, è sceso un silenzio impaurito: tacciono preoccupati candidati e Grandi elettori, si muovono di nascosto leader abilitati e king maker improvvisati, alla ricerca insieme di un metodo e di un percorso, che alla fine non è detto che troveranno.
In Italia nessuno sa davvero come si fa un presidente. Già prima di cominciare, questa undicesima elezione ha messo a dura prova il «metodo Ciampi», la concordia su un uomo «super partes» da trovare con lo sforzo convergente di maggioranza e opposizione. Ha stressato l’ipotesi di rielezione del Presidente in carica. Ha visto salire e scendere l’illusione che il muro contro muro, prima o poi, porterà a un risultato. E adesso, a pochi giorni dall’inizio della partita, tanti cercano una risposta nel passato: perché se è vero che tutto deve accadere, tutto egualmente è già accaduto nella corsa al Quirinale.
Un certo timore, a dire il vero, c’era già sessant’anni fa. Nella timida alba della Repubblica, retta dal fragile accordo dei sei partiti del Cln, l’avvento di una figura nuova che, sia pure «provvisoriamente», avrebbe preso il posto del re esiliato, non lasciava del tutto tranquilli i neo-padri della Patria. In cima a tutto, c’era la preoccupazione democristiana che una Repubblica nata subito forte avrebbe potuto spaventare i dieci milioni di elettori, in gran parte Dc, che nel referendum del 2 giugno ’46 avevano scelto la monarchia. De Gasperi, già prima di cominciare, puntava a una «pausa di decantazione». E anche Nenni e Togliatti non volevano rotture.
Fu così che, in nome di un’ambiguità rassicurante, a presiedere la Repubblica delle origini furono chiamati, uno dopo l’altro, due capi dello Stato monarchici. Il primo, «provvisorio» ed eletto dall’Assemblea Costituente, «regnò» neppure due anni, dal 28 giugno ’46 all’11 maggio ’48. Vecchio liberale, al governo già prima del fascismo, don Enrico De Nicola, meridionale di Torre del Greco, era stato preferito a Benedetto Croce (il filosofo si era subito tirato da parte) e a Vittorio Emanuele Orlando, deluso, dopo la caduta di Mussolini, dalla decisione del re di affidare il governo a Badoglio. Nel diritto, nella cultura e nella politica, oltre che in un dignitoso quanto moderato antifascismo, i tre erano il meglio che potesse dare la classe dirigente del tempo andato, precedente alla gelata del Ventennio. De Gasperi avrebbe preferito Orlando. Togliatti la spuntò con De Nicola. Ma dal momento in cui don Enrico fu eletto, il problema di un potere non previsto, non collegato con quello, ancora informale, dei partiti, e neppure codificato dalla Costituzione, emerse in tutta la sua complicazione.
Don Enrico era anziano, per quei tempi (nato nel 1877, aveva quasi settant’anni), di carattere spigoloso, non aveva mai rinunciato, fino ad a prima dell’elezione, ad una fiorente attività di avvocato. Inoltre, prima della guerra, aveva fatto un investimento sbagliato, convertendo tutti i suoi risparmi, si dice dieci milioni di lire, in buoni del Tesoro finiti in fumo. Senatore di nomina regia, già presidente della Camera, con lo Stato tuttavia aveva un suo contenzioso. Con queste premesse, come ricorda Andreotti, che già allora, a 26 anni, giovane sottosegretario di De Gasperi, frequentava per lavoro il Capo provvisorio dello Stato, la convivenza tra governo, Assemblea Costituente e De Nicola non poteva essere facile.
Una volta, per dire, stava per nascere un incidente perché a un ricevimento a Palazzo Giustiniani in onore della presidentessa argentina, gli onori di casa erano stati affidati alla compagna del presidente della Costituente Terracini, Laura, che non essendo la moglie non aveva alcuna veste ufficiale per ricevere. In un’epoca assai formale, un giornale satirico romano ne aveva tratto scandalo, e De Nicola, per salvaguardare l’immagine dell’Italia, ne voleva addirittura il sequestro.
Altri problemi, giorno dopo giorno, nascevano quando l’inevitabile flessibilità politica della neonata Repubblica s’infrangeva contro i rigidi argomenti giuridici del Capo provvisorio. Ad ogni proposito, De Nicola ribadiva di non avere poteri per prendere qualsiasi decisione, rinviava le firme dei provvedimenti, arrivò perfino a ratificare con una formula molto distaccata il trattato di pace con cui s’era appena chiusa la guerra e rifiutò di mandare un telegramma di congratulazioni al presidente americano Truman per non irritare i comunisti. Un’altra volta, mancò poco che finisse in un patatrac, il capo di gabinetto di De Nicola, un avvocato, manco a dirlo, che di cognome faceva Collamarini, lasciando intendere che non era soltanto una sua idea, consigliò ad Andreotti di rivedere con De Gasperi il trattamento economico del Capo dello Stato. «Così, sentito De Gasperi, feci predisporre un decreto e glielo misi nella cartella della firma - racconta Andreotti -. Se vi avessi introdotto una tarantola o una trappola da topi, avrei causato uno scatto meno impetuoso. Mi trattò malissimo, dicendo che mai avrebbe firmato un atto che lo riguardava personalmente».
Ma intanto, dopo due anni di convivenza non facile (l’unico con cui De Nicola andava d’accordo era De Gasperi, che al ritorno dalla visita negli Stati uniti, con sorpresa, se lo trovò in attesa all’aeroporto), era venuto di nuovo il momento di scegliere il Presidente, quello vero, che sarebbe stato eletto per la prima volta da Camera e Senato e sarebbe rimasto in carica per il primo settennato. Per De Nicola, che nel ’46 era stato il candidato delle sinistre, non tirava aria buona. Il quadro politico, dopo le elezioni del 18 aprile del ’48, era profondamente mutato, da un lato una Dc al suo massimo storico, dall’altro, sconfitto, il Fronte popolare di socialisti e comunisti.
A sentire il fido Collamarini, don Enrico si considerava il candidato naturale alla rielezione. Anche se, come per l’aumento di stipendio, non l’avrebbe mai chiesta. D’improvviso, com’era sua abitudine (lo faceva tutte le volte che perdeva le staffe o quando minacciava le dimissioni), De Nicola prima delle votazioni fece perdere le sue tracce.
Lo cercarono tutti, o almeno tutti giurarono di averlo cercato, senza trovarlo. Il liberale Manlio Lupinacci pubblicò sul Giornale d’Italia un appello che sembrava un calembour: «Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare». Giovanni Leone, che sarebbe stato poi il sesto presidente, si ricordò che anche alla prima elezione De Nicola era sparito, e lui che si considerava il suo allievo prediletto aveva dovuto accettare a malincuore di non poterlo avere come testimone di nozze. Per qualche giorno, Leone aveva continuato a chiamare De Nicola. Ma pur venendo al telefono, e credendo di non essere riconosciuto, don Enrico rispondeva soltanto: «L’onorevole non c’è». Alla fine, disperato, Collamarini, non di sua iniziativa, nei giorni che precedevano l’elezione fece trasportare il letto personale di De Nicola da Torre del Greco al Quirinale. Il segnale era chiaro, ma nessuno ci fece caso.
A votazioni iniziate, ormai, i giochi democristiani impazzavano. Un partito padrone di oltre metà del Parlamento non solo poteva, ma voleva, per marcare ancora una volta la rottura quarantottesca con le sinistre, eleggersi il «suo» Presidente. Vista la situazione internazionale, l’alleanza rafforzata con gli americani, lo schieramento di democristiani e comunisti al di qua e al di là della «cortina di ferro», il candidato di De Gasperi era il conte Sforza, ministro degli Esteri del suo governo. Toccò a lui, invece dell’elezione, fare i conti con la nascita dei franchi tiratori. E una Dc fortissima, ma spaccata al suo interno (la sinistra di Dossetti non vedeva di buon occhio l’asse di ferro con gli Usa), finì col mettere sotto il proprio leader.
Al posto di Sforza, la mattina dell’11 maggio ’48, alla quarta votazione fu eletto con 518 voti Luigi Einaudi. La mattina presto, quando Andreotti, uscito da casa Sforza, era entrato a casa sua per avvertirlo della svolta, Einaudi aveva solo obiettato che, essendo zoppo, avrebbe avuto qualche difficoltà a passare in rivista le truppe. Il resto fu definito rapidamente: anche la disponibilità, che Einaudi pretese a vita, di una tenuta di campagna vicino a Roma con annesso pollaio, dei cui polli, per amore di precisione, il neo-presidente riuscì ad assicurarsi il rimpiazzo, man mano che per esigenze alimentari o per altro il numero veniva a calare.
Nenni e Togliatti, battuti, ripiegarono su Orlando, che ebbe 320 voti. Quattro giorni dopo Dossetti, il vero vincitore di questa tornata, con un velenoso articolo su «Cronache sociali» s’incaricava di consegnare alla storia De Nicola e le sue fissazioni giuridiche: «L’evanescente merletto di schermaglie protocollari e un distacco per eccesso di formalismo - scriveva il capo della sinistra democristiana a proposito dell’ex-Capo provvisorio - gli avevano fatto perdere il contatto con la realtà».
Liberale, anche lui ultrasettantenne (era nato nel 1874) economista, piemontese di Dogliani, allievo di Gioele Solari, amico di Croce, Governatore della Banca d’Italia e ministro del Bilancio di De Gasperi, Einaudi approdava al Quirinale sorretto da un grande prestigio culturale e internazionale. Ma anche lui avrebbe dovuto sperimentare nel settennato la durezza del potere democristiano e la difficoltà, per il presidente della Repubblica, di muoversi con autonomia. Agli ostacoli che aveva già incontrato De Nicola (creandosene peraltro di suo), si aggiungevano quelli dell’attuazione, e dell’interpretazione, di una Costituzione appena varata. Nella quale, per l’appunto, il potere del Capo dello Stato era definito con una parolina, che di lì a poco, per decenni, avrebbe fatto la gioia di generazioni di studiosi e di costituzionalisti. Se il Presidente godeva di un potere - del quale cioè non era tenuto a dar conto -, va da sé che per governo, partiti, Parlamento e potere politico, questo rappresentava un’anomalia.
Come la storia del Quirinale dimostrerà trent’anni dopo, i timori democristiani per l’inquadramento, diciamo così, istituzionale del primo Presidente della Repubblica, avrebbero poi trovato qualche fondamento. Ma a quel tempo, pur essendo i dubbi assolutamente teorici, in presenza di uno Stato occupato ad ogni livello dalla Dc, servirono tuttavia a motivare una sorta di schiacciamento del Presidente: in un ruolo che lui stesso, non trovando altri termini, definì.
Dalle crisi di governo, in cui quasi sempre De Gasperi succedeva a se stesso e si limitava a cambiare qualche ministro, e l’unica volta che Einaudi provò a scegliere un altro democristiano la Dc, per prendere le distanze, lo bollò come «governo amico», a leggi anche controverse, che il Capo dello Stato poteva rimandare al Parlamento solo per mancata copertura finanziaria. L’incidente più grosso avvenne a proposito della legge elettorale maggioritaria, voluta da De Gasperi per consolidare la maggioranza centrista, e osteggiata dalle opposizioni che la definivano «legge truffa». L’approvazione finale al Senato, il 29 marzo ’53, si realizzò in una seduta convulsa, tra tafferugli, botte e insulti. Siccome la votazione era stata confusa e risultavano presenti anche alcuni senatori, come il comunista Scoccimarro, che erano usciti dall’aula, l’indomani l’opposizione chiese a Einaudi di non promulgare la legge. Ma il Presidente, basandosi sul verbale ufficiale del Senato che non faceva alcun cenno ai disordini, la firmò.
C’era anche Pertini, tra quelli che erano andati a trovarlo, sperando in un suo intervento: «Einaudi stette a sentire con aria di noia e non rispose», riferì il futuro primo inquilino socialista del Quirinale, descrivendo, adirato, il distacco e l’isolamento del Capo dello Stato. Eppure, in un’occasione, Einaudi decise di ribellarsi: l’occasione di scontro con De Gasperi fu la nomina a senatore a vita di don Sturzo, decisione che la Costituzione incontrovertibilmente affidava al Capo dello Stato. Sturzo era un cattolico radicale, antifascista, autonomista e aveva riparato all’estero. Per il presidente del consiglio, che non voleva averlo tra i piedi, l’ostacolo ufficiale era il veto della Chiesa, per i sacerdoti, ad assumere cariche pubbliche. Einaudi s’impuntò e, confidando nei suoi buoni rapporti con Oltretevere (gli era stata appena concessa la Croce suprema del Cristo, massima onorificenza pontificia), mandò il suo segretario Ferdinando Carbone a parlare con Papa Pio XII. Il quale, a sorpresa, diede il suo benestare. Trovandosi con il decreto di nomina di don Sturzo che recava, visibile, la firma di Einaudi, e invisibile quella del Santo Padre, De Gasperi non potè che accettare.
Nelle elezioni del ’53, la «legge truffa», per poche migliaia di voti, non scattò. Tutt’insieme l’epoca degasperiana, il centrismo, e la Dc pigliatutto del ’48 cominciarono a tramontare, insieme con l’epoca dei vecchi presidenti padri della Patria. Professori entrambe, abituati a studiare e ad annotare, De Nicola ed Einaudi avevano promesso di lasciare ai loro successori appunti e consigli maturati nell’esperienza dei primi anni della Repubblica. Einaudi intitolò il suo primo libro, rimasto un classico, «Lo scrittoio del Presidente». E il secondo, che già tradiva una certa amarezza, «Le prediche inutili».
De Nicola, dopo aver fatto vedere a tutti quelli che incontrava un quadernone, brandendolo come un minaccioso elenco dei peccati politici della classe dirigente, quando se ne andò dal Quirinale, lo dimenticò, o finse di dimenticarlo, su un tavolo. Ma quale non fu la sorpresa di Andreotti, quando, avendolo trovato, e aprendolo, curioso, si accorse che «le pagine erano bianche, dalla prima all’ultima».
Marcello Sorgi (continua)
• Quirinale: elezioni del presidente/2, La Stampa, 6 maggio 2006
I dc al Quirinale
La storia del Quirinale non si può raccontare senza ricostruire quella dei presidenti democristiani, cinque su dieci, da Giovanni Gronchi a Oscar Luigi Scalfaro, che entrano da protagonisti nel mezzo secolo di vita della Prima Repubblica e del partito che, a torto o ragione, ne costituì l’ossatura. Ora che son passati tredici anni dal tramonto della Dc (non dei dc, che prosperano dappertutto), forse bisogna fare un piccolo esercizio di memoria per ricordarsi come funzionava il sistema democristiano, e come sembrava fatto apposta per entrare in collisione con il Colle.
Centrale per collocazione e centrista per definizione, la Democrazia cristiana aveva un dominus assoluto, il segretario, una fitta rete di correnti capeggiate da abilissimi manovrieri e l’aspirazione di rappresentare, al suo interno, l’intero universo politico italiano, «dai fascisti ai fiancheggiatori delle Br», diceva Donat-Cattin. Al centro del centro, attorno al leader pro-tempore, si raccoglievano i suoi principali collaboratori e i suoi prossimi pugnalatori. Ogni due tre anni, in una delle riunioni di routine che in genere precedevano i congressi, e si svolgevano in conventi di suore alle spalle del Vaticano, i capicorrente sancivano i nuovi equilibri, designavano il nuovo segretario, e all’insaputa di quello ancora in carica preparavano le assise per sostituirlo, magari mandandolo al governo.
Illustri esterni
Un potere così accuratamente costruito a corrente alternata mal si poteva conciliare con la lunga durata, sette anni, della Presidenza della Repubblica, non a caso appaltata, all’inizio, a illustri esterni, per non squilibrare gli equilibri interni dc. Ma ai primi, timidi, tentativi di autonomizzarsi dei Presidenti, i democristiani preferirono regolare la questione tra loro. Anche a spese dei segretari.
Nel ’48, all’elezione del primo presidente dopo il Capo provvisorio dello Stato, a farne le spese erano stati un De Gasperi ormai in declino e il suo candidato, il conte Sforza, su cui una composita alleanza di franchi tiratori e dissidenti interni avevano fatto prevalere Einaudi. Nel ’55, alla scadenza del settennato einaudiano, toccava a Fanfani, uscito vincitore dal congresso che aveva giubilato De Gasperi. Portatore di una linea prudente, la cosiddetta «scelta di non scegliere», per non dividere un partito spaccato tra destra e sinistra, il nuovo leader aveva individuato nel presidente del Senato Cesare Merzagora, un esterno eletto nelle liste dc, l’uomo che avrebbe dovuto segnare un piccolo passo in avanti verso la presa diretta del Colle, ma senza una vera candidatura interna.
Sarà la prima della lunga serie di sconfitte di Fanfani sulla strada del Colle. Nella notte tra la terza e la quarta votazione, gli sconfitti del congresso, capeggiati da Andreotti e alleati con Gonella, Togni e Pella, raggiungono un’intesa con socialisti e comunisti sul nome di Giovanni Gronchi, il presidente della Camera sostenuto dal potente presidente dell’Eni Enrico Mattei, e saldamente ancorato alla sinistra dc. E da subito, nel suo discorso inaugurale, il nuovo Presidente lascia intendere che considera superate le cautele dei suoi predecessori. Infatti, sia nei rapporti con il suo partito che in quelli istituzionali con i governi, tenterà un’accelerata, intervenendo attivamente nella formazione degli esecutivi e nei loro programmi. Gronchi non fa mistero di voler spostare l’asse politico a sinistra. Ha una condotta interventista in politica estera: convoca gli ambasciatori al Quirinale, apre alla Cina, nella crisi di Suez si schiera con l’Egitto, progetta un viaggio in Unione Sovietica che si risolverà in un mezzo fiasco e in uno scontro con Kruscev. Se il ministro degli Esteri non lo fermasse, ricordandogli che sta esorbitando, vorrebbe inviare anche una missiva riservata al presidente Usa.
Chiacchiericcio
Ma d’improvviso, più che l’irrefrenabile attivismo di Gronchi, è la sua vita privata che comincia a far discutere. Nell’Italia degli Anni Cinquanta, che non somiglia neanche un po’ all’America di Clinton, un chiacchiericcio insistente comincia a circondare il Quirinale. «Oggi non saprei dire quanto c’era di vero e quanto invece di malevolo e accuratamente diffuso per fargli saltare i nervi - spiega Francesco Cossiga, che all’epoca in cui sedeva sul Colle dovette fronteggiare una forte ostilità democristiana -. Ma certo le voci correvano». In una Capitale da sempre pettegola e mormorante, così, si comincia a sentir dire che il Presidente avrebbe rinunciato alla tenuta quirinalizia di Capranica, vicino a Roma, preferendo quella toscana di San Rossore, perché è lì che avrebbe in animo di farsi un «buen retiro». Poi si vocifera maliziosamente sull’uso intenso che il Capo dello Stato farebbe del vagone reale, un gadget di eredità monarchica in dotazione alla Presidenza. O si chiacchiera sul restauro di un bagno personale, al Quirinale, in cui sarebbero stati installati rubinetti dorati. Si arriva perfino ad attribuirgli un’amicizia, forse qualcosa di più, per Delia Scala, una soubrette della Rai delle origini antesignana di Raffaella Carrà.
L’epilogo tormentato della presidenza sarà nei tragici fatti dell’8 luglio ’60, quando il governo Tambroni, voluto testardamente da Gronchi contro le indicazioni della Dc, riceve l’appoggio dell’Msi e trova nel Paese un’accoglienza tempestosa, con disordini e tumulti che lasceranno, sulle strade, anche morti.
Intanto i centristi democristiani preparano la rivincita. Nel ’62, il loro candidato è Antonio Segni, presidente del Consiglio e capo della corrente Dorotea. Al suo fianco, ad evitare sorprese, si muove la «Brigata Sassari», un gruppo di parlamentari giovanissimi capeggiati dal sardo Cossiga e dal piemontese Sarti. Segni rifiuta perfino di essere inserito in una rosa di candidati, come vorrebbe Moro. E, avvertito che Fanfani vuol correre, con il sostegno di socialisti e comunisti (Togliatti lo comunica a Nenni che lo annota sul suo diario), si fa eleggere con una maggioranza di centrodestra.
Una preoccupazione
E’ il prezzo che la Dc deve pagare al suo interno alla nascita del centrosinistra. Ed è una presidenza breve, austera, silenziosa. Da giurista, Segni si interessa subito ai problemi della magistratura, presiede le sedute del Consiglio superiore, fa discutere quando invia un telegramma di approvazione a un tribunale che ha condannato un gruppo di edili per una manifestazione. Sembra solo una svista, invece è l’inizio di un timore, di una preoccupazione, forse qualcosa di più, che Segni comincerà a manifestare con le persone più vicine. «A un certo punto - ricorda Rino Formica, allora giovane dirigente socialista - quella dell’ordine pubblico per lui era diventata una fissazione». E Cossiga conferma: «Da presidente del Consiglio era stato un uomo di sinistra. Aveva fatto la riforma agraria, danneggiando tra l’altro le proprietà di famiglia. Cosa gli sia capitato a un certo punto, non so. Al ritorno da un viaggio in Francia, in cui aveva incontrato De Gaulle, Segni cominciò a dirsi ammirato del modo in cui il generale faceva funzionare la forza pubblica».
Siamo ai fatti dell’estate del ’64, quando la tensione nel Paese spaventato per l’avvento del centrosinistra era al culmine, i socialisti erano usciti dal governo e Segni faticava a convincere Nenni a tornarci. Se davvero si sia trattato di un tentativo di colpo di Stato, e quanto serio, non sono riuscite ad accertarlo tre inchieste giudiziarie, una amministrativa e una parlamentare. Tre anni dopo, nel ’67, sarà il famoso scoop di Lino Iannuzzi ed Eugenio Scalfari sull’Espresso a rivelare l’esistenza del «Piano Solo», il progetto di un piano d’emergenza, una sorta di golpe che prevedeva arresti anche di personalità politiche della sinistra, e che rimane avvolto nel mistero.
Alti ufficiali
Di sicuro c’è che Segni, nei giorni più caldi del luglio di crisi, convoca al Quirinale, durante le consultazioni, il comandante dei Carabinieri De Lorenzo. E De Lorenzo dirà davanti alla commissione d’inchiesta che spesso il Presidente era solito rivolgersi a lui e ad altri alti ufficiali, per informarsi della situazione reale del Paese e per sapere quali erano i rimedi approntati in caso di emergenza. Quella volta, però, in piena crisi di governo, il Presidente fa uscire un comunicato sulla visita di De Lorenzo. Per Nenni, come dicono i suoi diari, è il segnale che il «rumore di sciabole», per usare una metafora, delle forze armate, serve a vincere le resistenze socialiste. Quanto a Segni, colpito da ictus poco dopo, e presto esautorato dal suo ruolo, non potrà neanche difendersi. Si chiuderà in un silenzio amareggiato, in un’agonia personale e politica nella quale solo Moro gli sarà accanto. «Moro arrivava al Quirinale ogni giorno all’alba - racconta Cossiga -. Non chiedeva nulla, non diceva nulla e si sedeva. Stava assorto e aspettava, Poi chinava la testa come se pregasse, ascoltava quel che i medici gli dicevano, salutava con un mormorio e a tarda sera se ne andava».
Marcello Sorgi (continua)
• Quirinale: elezioni del presidente/3, La Stampa, 7 maggio 2006
I Dc al Quirinale
In piena epopea democristiana, le dimissioni di Segni, per «impedimento personale» che da «temporaneo» diventa definitivo, alla fine del ’64, e dopo soli due anni di mandato, riaprono in anticipo la successione al Quirinale. La Dc non è pronta, sarebbe di nuovo pronto Fanfani, ma non ce la fa. Dopo tre sconfitte consecutive, una con Merzagora da leader, e due da candidato con Segni e Saragat, l’aretino cerca inutilmente la rivincita nel ’71. Ma Fanfani non è solo a correre. Un gran pezzo di Dc, socialisti e comunisti sono per Moro. E tra i grandi elettori, tocca al segretario del Psi, Mancini, capire per primo che nella corsa al Quirinale non si muovono solo i partiti. «Una sera a casa di Mancini - rivela Rino Formica, a lungo dirigente e ministro del Psi -, arrivarono il Gran Maestro della Massoneria Salvini, che si diceva vicino ai socialisti, e Licio Gelli, che sarebbe diventato il capo della loggia P2. Da tempo Mancini era in difficoltà, attaccato da un’odiosa campagna di stampa. Salvini gli parlò chiaramente: "Smetta di adoperarsi per Moro e vedrà che anche le sue cose andranno a posto’». L’indomani Mancini scrive sull’Avanti un articolo in cui, parlando dei «massimi vertici dello Stato» ed esaminando «la storia dei vari settennati», denunciava «strane complicità da cui sono venuti gravi pericoli e attacchi alle istituzioni». Poi decide di insistere personalmente con Moro.
Grandi manovre
A dividersi su Moro e Fanfani, intanto, non sono solo i democristiani. Ne discutono anche i comunisti. Berlinguer, a dire il vero, è preoccupato soprattutto di non rompere con i democristiani per cercare di evitare il referendum sul divorzio. Per questo, incontrandosi con Forlani, che come segretario Dc era schierato con Fanfani, il leader comunista si tiene sul vago. Nel frattempo, Natta, direttore di Rinascita, chiede a Emanuele Macaluso un editoriale dedicato proprio all’elezione del Capo dello Stato. «Cercai di spiegare come secondo il Pci non doveva essere un Presidente - ricostruisce adesso a memoria Macaluso, per decenni ai vertici del Bottegone -. Ma in pratica mi uscì un ritratto in negativo di Fanfani». Il giorno dopo sui giornali l’editoriale di Rinascita viene letto come un «niet» di Botteghe Oscure al candidato della segreteria democristiana, e Berlinguer, va da sé, s’infuria. «Lo vedemmo irrompere nel salone della direzione comunista, avvolto nel fumo delle sue ”Turmac’ - ricorda Macaluso -. Percorse un paio di volte in su e in giù il salone per ritrovare la calma, fumò due sigarette, una dopo l’altra, poi si rivolse a Natta: "Vorrei sapere perché a mia insaputa abbiamo preso posizione sul Quirinale"».
La notte seguente, Mancini fa un ultimo tentativo con Moro, invitandolo a un incontro segreto in casa del suo amico Peppino Di Vagno. Moro è laconico. E neppure si presenta alla riunione dei gruppi parlamentari democristiani che dovevano designarlo. Quando la delegazione di Piazza del Gesù arriva a casa di Leone, ammalato, per fargli la proposta, l’interessato si schermisce. Non ci crede. Telefona a Moro, e capisce che tocca veramente a lui. La vigilia di Natale ’71, così, Leone viene eletto alla ventitreesima votazione, con soli tredici voti di scarto e una maggioranza che va dai partiti laici, alla destra missina, compresi i repubblicani. La Malfa non a caso aveva promesso di «spezzare i garretti ai cavalli di razza della Dc».
Il ritorno di un non politico, o almeno non di un politico puro, al Quirinale, non poteva facilitare i rapporti tra il Colle e la Dc. Tra l’altro, mentre il centrosinistra mostra la corda, e si comincia a cercare il modo di includere il Pci negli assetti di governo, la base elettorale moderata del nuovo presidente non aiuta. Leone è un autorevole penalista (è stato il miglior allievo di De Nicola), un giurista che ha fatto carriera nelle istituzioni e qualche pronto soccorso alla guida di governi balneari o di decantazione. A parte un approccio di Togliatti, che gli offriva sostegno nel ’62 per bloccare l’elezione di Segni, il futuro quinto Presidente ha sempre militato nel centro tradizionalmente anticomunista della Dc. A segnare la sua presidenza, sono proprio questa collocazione e l’imbarazzo di non riuscire a destreggiarsi tra i due grandi partiti. A metà del mandato, quando nel 1975 Leone decide di inviare un messaggio al Parlamento per richiamare una serie di riforme urgenti, a cominciare dalla limitazione del diritto di sciopero, scende il gelo. Le Camere, dopo rapida consultazione, decidono di non discuterlo neppure. E quando, poco dopo, in piena solidarietà nazionale (l’accordo di emergenza antiterrorismo che aveva autorizzato l’ingresso nella maggioranza di governo anche del Pci), l’Espresso fa partire una campagna contro di lui, Leone quasi subito cominciò a vacillare.
Gola profonda
Contro il Presidente, nella storia di tangenti pagate all’americana Lockheed per la fornitura di aerei militari, c’è un’accusa tutta da dimostrare. Poiché la «gola profonda» dello scandalo sostiene che a intascare è stato un «primo ministro», indicato in codice come «Antelope cobbler», il sospetto su un Leone, «mangiatore di antilopi» (pur in una traduzione approssimativa), ci può stare. Ma prove non se ne trovano. E si scopre che a tenere i contatti con la Lockheed è stato un altro ministro, Luigi Gui, che finisce processato dalla Corte Costituzionale. La storia diventa un libro, velenosissimo, di Camilla Cederna, che attacca anche la famiglia del Presidente sotto il profilo dello stile di vita della moglie, Donna Vittoria, e dei figli. Cossiga, ancor oggi, si ribella: «Leone era un uomo per bene, onestissimo e con un forte senso dello Stato - sostiene -, come dimostra il fatto che dai giudici ebbe piena soddisfazione sui suoi accusatori. Anche i figli non facevano niente di male. Da ragazzi, erano arrivati in una reggia. E in una reggia qualsiasi ragazzo si diverte, fa festa».
Per Leone (che sarà pienamente riabilitato vent’anni dopo), lo sfratto dal Quirinale arriva la mattina del 15 giugno 1978. A notificarglielo, a nome della segreteria comunista, è Paolo Bufalini, il dirigente incaricato di tenere i rapporti tra Botteghe Oscure e Colle. «Paolo gli era amico, glielo disse con dispiacere e facendo riferimento, non alla campagna contro di lui, ma al sacrificio da fare per la democrazia e il prestigio delle istituzioni», ricorda Macaluso. Il Presidente ascolta disorientato. Cerca al telefono Zaccagnini, il segretario del suo partito, e non lo trova. Poi, da solo, scrive la lettera di dimissioni e chiede di parlare in tv. Distrutto, si sfogherà con poche parole.
Ora tocca a Pertini, Medaglia d’oro della Resistenza, Presidente assai innovativo di cui ci occuperemo più avanti. Il turno per la Dc al Quirinale torna nel 1985. In un’elezione facile, in cui nessuno ha niente da ridire su Francesco Cossiga, presidente del Senato e candidato del segretario democristiano De Mita. In quell’inizio di estate romana infatti, della tempesta che sta per addensarsi nei cieli della Repubblica, e li coglierà d’improvviso, sono tutti ignari.
Segno del destino
A distanza di tanti anni, forse è lecito trovare un filo tra le ultime due presidenze democristiane. Quella di Cossiga, che con il suo «picconamento» segnerà la fine della Prima Repubblica, e quella di Oscar Luigi Scalfaro, che guiderà il difficile passaggio tra Prima e Seconda. Per una coincidenza che sembra un segno del destino, Cossiga è forse l’uomo meglio attrezzato a cogliere le novità dei cambiamenti mondiali, a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, e gli inevitabili riflessi interni: la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica, l’esaurimento dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano, che era il più grande di tutto l’Occidente con il simbolo della falce e martello.
Cossiga è sardo, cugino di Berlinguer, educato in una famiglia liberale di indole ribelle. Ministro dell’Interno negli anni peggiori del terrorismo, dimissionario dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Br. Presidente del consiglio a rischio di impeachment quando si scopre che un membro del suo governo ha un figlio, Marco Donat-Cattin, ricercato dall’antiterrorismo; poi presidente del Senato. E con questa biografia, al momento dell’elezione, il nuovo presidente si presenta come un tipo particolare, un po’ anomalo per essere solo un dc, e poi curioso, anglofilo, patito delle tecnologie, amico dei carabinieri e dei militari. Dalla convinzione che le Brigate rosse abbiano radici interne, legate anche al ruolo passato di un Paese che è stato una trincea della guerra fredda, nasce a un certo punto l’idea di Cossiga di una pacificazione politica tra i partiti che hanno fatto la storia della Repubblica, coprendo anche rapporti segreti, e ai limiti della legalità, che nascevano dalla situazione internazionale, come quelli sottobanco della Dc con gli Usa e del Pci con l’Urss. Sicuramente è un progetto complicato, anche dopo la caduta del Muro e a due anni dalla fine del settennato. Che salterà per aria quando il giudice Casson, avvertito da un terrorista di destra in carcere, otterrà da Andreotti di poter indagare nell’archivio del Sismi sull’esistenza di «Gladio», una sorta di rete clandestina finanziata dallo Stato, in accordo con gli Usa, come antidoto ad eventuali invasioni sovietiche negli anni della guerra fredda. Le indagini faranno risultare Cossiga tra gli organizzatori di Gladio. E’ l’inizio dell’ultima guerra democristiana, senza esclusione di colpi. Cossiga dal palazzo del Quirinale spara cannonate quotidiane, in modo speciale sulla Dc. Il culmine, il 19 aprile ’91, è una visita dello stato maggiore democristiano - De Mita, Forlani, Gava e Mancino - al Quirinale, che si risolve in una resa dei conti senza precedenti, «a pesci in faccia», come diranno loro stessi, con il Capo dello Stato. Poco tempo dopo arriva una minaccia di impeachment da parte di Occhetto e delle Botteghe Oscure. Cossiga si dimette dalla Dc e da Presidente della Repubblica. «Sottotraccia - aggiunge Formica - c’era anche un accordo segreto, di cui ero stato tramite, tra noi socialisti e il Presidente. Craxi a tutta quell’idea della pacificazione non credeva, ma voleva ottenere lo scioglimento delle Camere un anno prima, nel ’91, per tornare a Palazzo Chigi. Ma non ci fu più niente da fare».
Senza partito
Dopo gli scontri di Gronchi con De Gasperi, di Segni con Fanfani e Moro, di Leone con Zaccagnini, di Cossiga con Forlani e De Mita, Scalfaro è il primo presidente democristiano a non avere il problema del partito, che ha bruciato uno dopo l’altro con i franchi tiratori i suoi candidati, Forlani e Andreotti, nelle undici votazioni che precedono la sua elezione, il 25 maggio ’92. Caduti gli ultimi «cavalli di razza», c’è Occhetto che tenta di inserirsi, proponendo candidature alternative, scelte nella società civile. Norberto Bobbio, saggiamente, fiuta l’aria e si ritira. Leo Valiani, novantenne ex capo della Resistenza, un po’ ci crede.
La svolta avviene dopo la strage mafiosa di Capaci, in cui muoiono Falcone e la moglie. La Dc s’irrigidisce, la spunta Pannella che ha candidato Scalfaro come un «Pertini bianco» e riesce a farlo eleggere. La vecchia Repubblica dei partiti è stata azzerata dai giudici di Tangentopoli, dai referendum elettorali e dall’avvento del maggioritario. Nella nuova, fa irruzione Berlusconi. L’attrito tra le regole della Costituzione, di cui Scalfaro è custode, e la spinta del centrodestra guidato dal Cavaliere, è evidente. Ma Scalfaro tiene duro. E non lesinerà forzature, come il rifiuto (il famoso «non ci sto», gridato a reti unificate in tv) di piegarsi allo scandalo del Sisde, e il varo di un governo tecnico Dini, dopo la caduta di Berlusconi, pur di non accontentarlo con nuove elezioni anticipate. Comincia così una lunghissima epoca di transizione, che dura da tredici anni e non è mai finita.
Marcello Sorgi (continua)
• Quirinale: elezioni del presidente/4, La Stampa, 8 maggio 2006
L’ora dei presidenti laici
La mossa del socialista Pertini: l’amicizia con Wojtyla
PI che una vera regola, con una cadenza precisa, l’alternanza al Quirinale tra laici e cattolici ha avuto sempre caratteristiche di casualità: l’elezione al Colle essendo una lotteria dagli esiti imprevedibili, finché c’è stata la Dc, i laici si son fatti largo nelle guerre interne democristiane, entrando all’improvviso, di soppiatto, di lato, nel gioco delle votazioni, oppure ritirandosi, teatralmente, per poi riapparire al momento giusto. Tattiche come queste sono sempre a rischio: ed anche sulla trincea laica, di conseguenza, sono rimasti i corpi di tanti illustri trombati, da La Malfa e Nenni, a Valiani e Spadolini. Chi ce l’ha fatta, invece, come Saragat e Pertini (Ciampi è un caso a sé), c’è riuscito movendosi in prima persona.
Nell’elezione di un laico, manco a dirlo, è più forte l’ombra del Vaticano, il placet che deve arrivare d’Oltretevere a candidati senza obbedienza diretta. Se Einaudi è un laico che porta la croce, intesa come la più importante onorificenza pontificia, Saragat, che può vantare qualche benemerenza (la Santa Sede preferiva lui, anticlericale credente, a Merzagora, democristiano ateo), se la gioca poco prima di essere eletto, temendo che possa nuocergli con il Pci. Quanto a Pertini, che ha fama di mangiapreti, il problema lo risolve a modo suo: diventa amico personale di Wojtyla e va in montagna a sciare con lui.
Nel ’64, quando Saragat diverrà Presidente, la Dc, come sempre, ha due candidati, Leone e Fanfani, e il Pci per la prima volta gioca in proprio. Al vertice del Bottegone, orfano del Migliore, si svolge una riunione singolare. Togliatti è morto da qualche mese, ma è come se sedesse ancora al suo posto. E i membri della segreteria si misurano con citazioni del suo testamento politico, il «memoriale di Yalta», scritto prima di morire, in cui raccomandava al partito di restare autonomo, ma cercando di uscire dall’isolamento.
Quattro contro quattro
«Eravamo in quattro contro quattro - ricorda Emanuele Macaluso, a lungo dirigente di altissimo rango - e Longo non voleva far pesare il suo voto di segretario». Longo, Amendola, Pajetta e Macaluso sono per Saragat, una scelta più coerente con un riavvicinamento tra le varie anime della sinistra, e con la linea amendoliana che ha vagheggiato, in un articolo su «Rinascita», nientemeno che un partito unico dei lavoratori. Ingrao, Berlinguer, Alicata e Natta puntano su Fanfani, che, con la sua idea fissa dell’impresa di stato, sembra a loro un avversario più credibile del capitalismo privato e dell’odiata economia di mercato. Intanto, si vota. E le votazioni vanno avanti, com’è nella tradizione del Quirinale, senza approdare a un risultato. Leone cala, Fanfani non decolla. A modo suo, senza tante parole, Moro chiede a Donat-Cattin di trovare una soluzione. «I metodi sono tre, il pugnale, il veleno e i franchi tiratori», spiega Donat-Cattin ai suoi, e prevarrà il terzo espediente. Alla fine Nenni scende in campo contro Fanfani, e il Pci, che li vede già sconfitti entrambi, spinge Saragat a chiedere apertamente i voti comunisti. Sarà l’ultima cosa di sinistra che il vecchio leader socialdemocratico farà, pur di essere eletto.
Per il resto, d’intesa con Moro, che è stato il vero artefice della sua elezione, la sua sarà una presidenza prudentissima, burocratica, molto frenata. E rallegrata quasi solo dal telegramma di congratulazioni, che fa ridere mezza Italia, inviato dal Presidente a Sofia Loren per la sua maternità. Al Quirinale Saragat vive solo, silenzioso, anche se di tanto in tanto invita qualche amico a pranzo e ama pasteggiare a champagne. Politicamente, del suo settennato, farà una sorta di guardianìa a un centrosinistra che passa pigramente da un governo all’altro.
La fantasia al potere
Con Pertini, invece, nel ’78 la fantasia arriva al Quirinale. Una ventata di energia e di vitalità che nessuno poteva prevedere nell’anziano capo partigiano, ottantenne, medaglia d’oro della Resistenza, e che lo porta a prevalere in un’elezione arenata sui soliti veti incrociati. Pertini riuscirà a mettere d’accordo tutti i partiti della solidarietà nazionale, a ridargli entusiasmo e a farsi eleggere, in un plebiscito che gli porta ben 832 voti. Il risultato è così clamoroso che tutti, da Pajetta a Mancini, da Zaccagnini a Craxi, correranno a rivendicarne la paternità. Ma come Nenni quattordici anni prima, e come Spadolini e Valiani due settennati dopo, anche stavolta c’è un grande sconfitto: è La Malfa, entrato nella corsa con l’aureola del padre protettore del Pci e della formula di unità nazionale, e uscito tradito da democristiani e Psi. L’altro mezzo sconfitto è Craxi, alla sua prima partita presidenziale: puntava su Giolitti e si ritrova Pertini, il socialista più lontano da lui. «Eppure, posso testimoniarlo, Craxi non se la prese - racconta Rino Formica, per molti anni al suo fianco al partito e al governo -. Il vero risultato era aver portato un socialista al Quirinale. E poi sapevamo cosa Pertini aveva in testa».
Scalzare la Dc da Palazzo Chigi, ecco cos’aveva in mente Pertini. Il Presidente ci prova subito con Craxi, e non gli riesce. Poi ci riprova con Saragat, ed è ancora buca. Con La Malfa, idem. Finalmente ce la fa con Spadolini, che nell’82, primo laico, arriva alla guida di un governo pentapartito. E dopo le elezioni dell’83, in cui la Dc perde due milioni di voti, è il turno di Bettino. Ma adesso che il segretario socialista è diventato premier, il Presidente della Repubblica, pur avendolo voluto, fa la parte di quello che lo vuol tenere a bada.
Craxi attacca il Parlamento per la lentezza e la dispersione dei suoi lavori, e Pertini lo difende. Craxi critica la magistratura, e Pertini si schiera al fianco dei giudici. Craxi ripropone il tema della trattativa con i terroristi nel sequestro del magistrato D’Urso, e Pertini manda un telegramma di congratulazioni al giudice Calogero, grande accusatore in un discusso processo a fiancheggiatori del terrorismo. E a sorpresa, il confronto tra i due protagonismi, quello craxiano e quello pertiniano, invece di nuocergli, gioverà a tutti e due.
Il contraltare
Perché il Presidente non è più solo il contraltare istituzionale del premier. E’ un Capo dello Stato che, assumendosi personalmente la paternità dei governi («L’ho scelto io!», rivendica soddisfatto), si dichiara nel contempo sciolto da tutte le convenzioni che avevano limitato i suoi predecessori. «Non scioglierò mai le Camere!», «Non darò mai la grazia a un terrorista!», «Non varerò governi con ministri di dubbia moralità!»: e a poco a poco, con proclami come questi (non importa se non sempre seguiti da fatti), Pertini si tira fuori, non solo dalle convenzioni e dalle gerarchie del sistema, ma dagli obblighi verso i partiti che lo hanno eletto, comportandosi come se fosse espressione diretta del popolo. Lo fa, rifiutandosi di promulgare l’amnistia, e pretendendo una drastica riduzione dei reati amnistiati; o intervenendo personalmente, per bloccare lo sciopero dei controllori di volo. E poi, quasi tutti i giorni, con una sequela di esternazioni su una miriade di argomenti che vanno dal governo, alle nomine, alla speculazione ai danni delle vittime del terremoto in Belice, alla tragica vicenda di Alfredino, il bimbo morto in un pozzo vicino a Roma, alla morte di Berlinguer, la cui salma, dopo una lunga veglia, riporterà a Roma in treno.
Nessuna cautela
E lo stesso comportamento, esplicito, diretto, fondato sull’autorità di combattente di due guerre, terrà in politica estera, incurante delle conseguenze del venir meno delle cautele classiche della diplomazia italiana. Per due volte attacca Sharon, e dopo aver ricevuto Arafat al Quirinale, invoca una patria per i palestinesi. Poi riceve i padri missionari comboniani, e informato da loro, esprime dubbi sulla effettiva destinazione dei fondi internazionali per la fame nel mondo. Parla con i giornalisti, e dice che Jumblatt «è un cocainomane». Apprende della morte di Cernenko, uno degli ultimi leader sovietici, mentre è in viaggio in Sud America, interrompe il viaggio, e corre a Mosca. Parla più volte di campi di addestramento per terroristi italiani nei Paesi dell’Est, anche se poi si scoprirà che è una bufala di Francesco Pazienza, uno dei tanti spioni in servizio in Italia che finirà la sua carriera in galera.
Sono solo alcuni esempi, di una presidenza che resterà nella storia. E che per i suoi tempi, e per una Repubblica ancora legata ai rituali partitici e parlamentari, segnano la rottura con la tradizione e la svolta verso un rapporto diretto tra l’eletto e gli elettori, tra il politico e la gente, tra le istituzioni e il popolo: ciò che vedremo, in modo assai più sgangherato, pioverci sulla testa con l’avvento del maggioritario e della Seconda Repubblica. Un modello al quale nessun Presidente, dopo Pertini, potrà sottrarsi, che porterà alla presidenza esplosiva di Cossiga, a quella paternalistica ma sussultoria di Scalfaro, e che verrà ripreso e reinterpretato da Ciampi, il terzo grande laico salito al Colle.
L’elezione di Ciampi, nel ’99, matura in pochi giorni. C’è una lunga fila di candidati democristiani (a cominciare dal presidente del Senato Mancino e dal ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino), c’è un premier Ds a Palazzo Chigi che preluderebbe di nuovo a un cattolico al Quirinale. E c’è un accordo segreto, tra il presidente del Consiglio D’Alema e il segretario dc-popolare Marini, che prevede che al Colle andrà il secondo. Ma a far saltare l’intesa e a costruire in pochi giorni la piattaforma elettorale di Ciampi, con l’appoggio di tutto il centrosinistra e di quasi tutto il centrodestra, sarà Veltroni. Il segretario ds è convinto che l’andamento mediocre, le risse intestine e lo scontro defatigante, che hanno accompagnato la legislatura, abbiano prodotto un disamoramento dei cittadini verso la politica. C’è bisogno di un uomo nuovo, non di un professionista dei partiti, sostiene Veltroni. Per cominciare, dà appuntamento a casa sua a Fini e Casini, che subito ci stanno. Rapidamente, il discorso si allarga a Gianni Letta, che parlerà con Berlusconi. Poi c’è un incontro ufficiale tra premier e capo dell’opposizione, in cui, alla vigilia della prima votazione, il Cavaliere finalmente dice sì. Nel giro di una settimana, così, la situazione s’è capovolta. «L’ho fatto per il bene dell’Italia e del’Ulivo», scriverà imbarazzato D’Alema a Marini. E Marini: «L’hai fatto per i cazzi tuoi».
Di città in città
Forse proprio perché non se l’aspettava, forse perché, non essendo mai stato eletto in Parlamento ha conservato sempre, in tutte le cariche che ha ricoperto, l’abito del cittadino, Ciampi, giunto al Quirinale, volgerà tutto il suo mandato al recupero dei valori patriottici e a una missione, come una specie di peregrinazione, di città in città, di paese in paese, per convincere gli italiani che, malgrado tutto, ci sono ancora molte ragioni per credere nell’Italia. E’ un messaggio sommesso, tutt’altra cosa da quelli passionali e furiosi dei suoi predecessori. E’ fatto di parole semplici, viene da un uomo che non ha mai fatto comizi in vita sua, ed è accompagnato da un sorriso che presto farà dire a tutti di Ciampi che è diventato «il nonno d’Italia».
Dopo un settennato duro, pieno di momenti difficili e anche di incomprensioni e contrasti, sia con il governo che con l’opposizione (cinque dei sette anni sono stati di non semplice coabitazione con il centrodestra), Ciampi ora è stanco e ha deciso di lasciare e di non accettare offerte di rielezione. Ai suoi più stretti collaboratori, che gli chiedevano di restare e che hanno tanto insistito, fino all’ultimo giorno, anche a costo di farlo adirare, il Presidente ha spiegato che è meglio così. I cento viaggi della sua presidenza, fino al saluto finale alla sua Livorno, lo hanno convinto che la gente, gli italiani, cominciano a riaffezionarsi all’Italia. Sono in tanti ad amarla più di quanto si creda. Mentre i politici stentano a capirlo. Ma per questo, ormai, anche Ciampi non ha rimedi.
Marcello Sorgi