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 1999  novembre 08 Lunedì calendario

Don Aldo Geranzani, il rettore, è figlio di un idraulico comunista di Bollate, periferia milanese

• Don Aldo Geranzani, il rettore, è figlio di un idraulico comunista di Bollate, periferia milanese. Beati gli ultimi, con quel che segue. Beati, ma fino a un certo punto: «Perché se non reggono il passo, se non sono fatti per il San Carlo, noi li salutiamo. successo anche con ragazzi che portavano cognomi di quelli pesanti». Centotrent’anni di storia non sono cosa da poco. Qui, al Collegio arcivescovile San Carlo, hanno studiato Achille Ratti (in seguito promosso Papa col nome di Pio XI), Giovanni Testori, il fondatore della Cattolica Vico Necchi, e poi generazioni di Falck, Lazzaroni, Pirelli, eccetera. Molti figli della borghesia milanese sono iscritti qui, «ma non mi chieda nomi, per motivi di sicurezza: non vogliamo scorte all’ingresso, e garantiamo la riservatezza».
• La famosa classe dirigente. Fa un certo effetto sentirlo dire dal figlio dell’idraulico comunista: «Abbiamo un target medio-alto, e un progetto di formazione della classe dirigente. Un progetto di rigore didattico e di cordialità educativa». Musica per le orecchie dei genitori milanesi che possono permettersi rette dai 7 milioni annui della materna, agli oltre 8 milioni di medie e superiori. Don Aldo, prete spiccio e concreto in maglione nero, parla così: target, strategia aziendale, nicchie di mercato, competenza. E non si capisce se è una lingua indotta dal suo lavoro di manager scolastico, o se invece ha deciso che è l’unico modo per tradurre il ”progetto educativo” di impronta martiniana (nel senso di Carlo Maria, arcivescovo) a figli e nipoti dei ”cumenda”. Perché poi il progetto educativo che si applica qui, è una faccenda seria: «In soldoni: educare alla ricerca della verità, alla libertà responsabile, alla solidarietà effettiva. Non vogliamo creare bigotti, cattolici fanatici, o pupi che si sentano ombelico del mondo. Vogliamo che di qui escano persone serie in grado di pensare, di assumersi la responsabilità dei propri atti. Classe dirigente in quel senso lì: che ovunque lavorino, in alto o in basso, siano un punto di riferimento».
• ”Sancarlini”. Per i ragazzi di sinistra, l’etichetta è diventata una specie di insulto, quel che una volta era ”figlio di papà”, o ”fighetta”. L’anno scorso ci si mise la polizia coi manganelli, qui davanti, per impedire una sorta di assalto alla ”scuola dei ricchi”. A don Aldo la definizione dà l’orticaria: «Le rette sono alte? Mah, non pagano nemmeno tutti i servizi. E poi, se un ragazzo merita, io trovo ogni anno borse di studio per trecento milioni. Qui non ha diritto di ospitalità solo la povertà di spirito. Qui conta l’impegno, la responsabilità. Se un ragazzo ha dieci in condotta, e si comporta male fuori, io lo saluto: non sei più del San Carlo, glielo dico davanti ai genitori». Al San Carlo ci sono 1200 alunni, dai bambini della materna ai ragazzi del liceo, e 140 dipendenti. Don Aldo, a passo di corsa, ci guida per aule scientifiche, sale computer («Li cambiamo una volta l’anno»), piscina, palestra, campi da gioco, biblioteca, bar. Un tour che può dare alla testa di chi abbia figli in una normalmente disastrata scuola pubblica. Ci sono anche alloggi per temporanei soggiorni come studenti «interni». [...]
• Il progetto educativo del San Carlo non prevede esclusioni («Non di censo, e nemmeno confessionali: qui ci sono confuciani, ebrei, islamici, agnostici»), e nello stesso tempo pratica la selezione. Don Aldo la chiama «strategia aziendale»: «La strategia aziendale è: promozione dell’eccellenza, e recupero alla sufficienza. Se in una classe da venti ho gente brava, a volte stacco quelli meno bravi». Succede così, per ora solo nelle lezioni di inglese ma fra poco anche nelle altre: si selezionano tre livelli, che vengono seguiti separatamente da tre insegnanti diversi. Beati gli ultimi, in prospettiva, ma che i primi possano correre più veloci. «Ci possiamo permettere un’attenzione personalizzata: con 45 iscritti a una quarta ginnasio, io faccio tre sezioni». Don Aldo, che ha insegnato 18 anni nelle scuole statali e per vent’anni è stato parroco di periferia [...] dice: «La vera parità scolastica sarebbe questa: che il figlio di un idraulico possa studiare al San Carlo, o che la scuola statale possa avere questi standard [...]». «Se non è ancora possibile, è per colpa dell’appiattimento e della svendita che i sindacati hanno fatto della classe docente. E del centralismo burocratico, che deve mettere ostacoli dappertutto. Queste sono le due cose che asfissiano la scuola pubblica italiana. Che impediscono di premiare e motivare i docenti in gamba». E lei i suoi docenti come li tratta? «Intanto li prendo che abbiano esperienza, o un dottorato di ricerca. Poi chiedo fedeltà all’azienda, al progetto educativo. Ferma restando la competenza: meglio uno competente e meno in linea, che il contrario». E se non funzionano? «Ah, intanto io gli sto appresso e li faccio morire. Poi, quando capita un fannullone, se non posso licenziarlo almeno lo metto in disparte». Privato buono e pubblico cattivo comunque? «Assolutamente no. Se ci fosse una vera parità, molte scuole nostre andrebbero a picco insieme a molte statali. Io sono favorevole ad una authority esterna, che valuti la serietà delle scuole. E poi si vede dove sta il meglio. Perché, mi dica lei, vogliamo davvero avere un sistema-Paese con una classe dirigente adeguata? E allora rimuoviamo tutti gli ostacoli. Facciamo selezione, spendiamo meglio i nostri soldi. Io stimo il ministro Berlinguer: ha un coraggio da leone. Ma quando poi è costretto a fare imbarcate di insegnanti precari...».