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 1999  ottobre 18 Lunedì calendario

Tutto l’incasso ai dipendenti

• Tutto l’incasso ai dipendenti. Perché siano premiati, perché siano felici, perché sì. Prego, lavorate, sorridete e scappate pure con la cassa. Ed ecco che il sogno proibito di intere generazioni di commessi, garzoni, magazzinieri, direttori commerciali e sciampiste si è realizzato ieri all’Ikea, cioè quello strano negozio di mobili svedesi dove il cliente arriva, parcheggia il bimbo in sala giochi, imbraccia una borsa gialloblù nazionalista, sceglie una libreria che si chiama Artist o un tavolino che si chiama Hemlinge, li compra a pezzi e se li monta a casa. E forse era inevitabile che la socialdemocrazia del cacciavite producesse anche la quindicesima mensilità fai-da-te.
• L’idea, anzi l’Ikea, è venuta allo storico inventore di questi empori dove il cliente deve avere l’anima del falegname, cioè il signor Ingvar Kamprad. Tipo strano e geniale: i suoi molti nemici dicono sia un filonazista, finanziatore clandestino di gruppi skin, ma per i suoi adoranti dipendenti è solo un uomo speciale che ha capito come nel commercio dei mobili esistano due costi, il montaggio e il trasporto, che alla fine incidono sulla qualità. Eliminati quelli, cresce questa. E il cliente spende pure meno. Dunque il signor Ingvar si è messo a far di conto, ha scoperto che nel ’99 il fatturato è esploso a quota 14.762 miliardi (più 19,2 per cento nel mondo, più 37 per cento da noi) e ha deciso di premiare in modo originale i costruttori di questo trionfo montato, era inevitabile, pezzo dopo pezzo. Così ha inventato il ”giorno del commesso”. Tutto l’incasso mondiale, si prevedono 110 miliardi, diviso tra 49.405 dipendenti. Ognuno di loro, senza differenze gerarchiche o geografiche, dovrebbe portarsi a casa due milioni e trecentomila lire. [...]
• E ieri i sottoposti avevano un sorriso a salvadanaio, il loro. «Grande idea, penso sia una novità assoluta» dice Alessandra Massolini tra poltrone e divani. una delle duecento giubbe rosse (la divisa sociale) dell’Ikea di Grugliasco, periferia torinese, tangenziali e librerie con nomi di donna. «Certo che si lavora con più entusiasmo, ma qui accade spesso. Perché l’impresa funziona e così stiamo bene tutti». Qualità della vita, o della vite. Pubblicità gratuita. Filosofia della gioia aziendale che prova a riprodurre una piccola Svezia, tra il mito efficientista e le tonalità calde del legno, ambienti costruiti in laccature pastello e nodosità, odori di trucioli e tecnolampade, quasi ci si aspetterebbe una renna oltre la finestra. Le giubbe rosse corrono come su rotaie, emanano gentilezza giapponese e il cliente è contagiato. Gente che non saprebbe neppure avvitare una lampadina si lancia nell’acquisto di scaffali destinati ai solutori più che abili. In Italia, in dieci anni lo hanno fatto oltre 45 milioni di aspiranti Geppetto.
• «Una vita migliore per la maggioranza è il nostro slogan» racconta Marco Boretto, direttore dell’Ikea torinese. «Ma qui si dice store manager, è più informale». Ah, ecco. «Ridurre i costi, migliorare la qualità e dare incentivi ai lavoratori, facendoli sentire una squadra da scudetto. Noi, per esempio, ci diamo tutti del tu». Parla tra sedie arancione e ripiani in frassino, e spiega che il cliente non sapeva che per un giorno i suoi soldi sarebbero finiti direttamente in tasca al commesso, dalla cassa alla cassiera. «Ci sembrava inelegante puntare su questo aspetto, abbiamo preferito le offerte speciali». Tipo colazione gratis, cappuccino più brioche, oppure cena a metà prezzo nella Bottega Svedese: filetto di cervo al forno, diecimilacinquecento. Hamburger di selvaggina, settemilanovecento. Oppure consegne gratis entro sessanta chilometri. Oppure lampadina omaggio ad alto risparmio energetico, luminosamente corretta. Oppure libreria e piumino scontatissimi: e attenzione agli oggetti, non è una scelta casuale perché trapunte e letture fanno molto inverno svedese, qui contano anche le atmosfere, le sfumature. E i numeri: 12 mila visitatori dalle 9 alle 22, e nel parcheggio i ragazzi con una maglietta dall’enorme scritta «Possiamo aiutarti?». Facchini travestiti da tazebao. E se invece di essere un filonazista, il signor Ingvar fosse un astuto psicologo della semplicità? O un bieco paternalista? «Beh, noi siamo molto felici di lavorare per lui» ammette Alessandro M. «Il cognome, per favore, lo abbreviamo. Sa, non potremmo concedere interviste». Perché felici, che è una parola così grossa? «Perché siamo un gruppo, e c’è pure amicizia. Perché è giusto che questo premio venga diviso in parti uguali in tutto il mondo, anche tra i lavoratori dei paesi più poveri. Perché noi diamo l’idea al cliente, lo spunto iniziale, poi ci penserà lui. Lo facciamo diventare creativo, e il cliente è contento dopo avere montato una scarpiera». [...]