Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 1 novembre 1999
L’uomo che abbiamo davanti potrebbe anche non esistere
• L’uomo che abbiamo davanti potrebbe anche non esistere. Non ha un nome, non ha un cognome, e adesso non ha neppure una vita che gli appartenga. Non ha paura, non ha rabbia, non ha futuro, non ha nient’altro che questa faccia da samurai con i capelli corti tirati indietro e gli occhi che ci fissano senza muoversi mai, come due fessure intagliate sul volto. Keito dice che è uno dei 18 che entrò quella notte di un mese fa nell’impianto della «Sumitomo metalli» per spegnere la Cernobyl del Giappone. Siamo a Mito, a qualche chilometro da Tokaimura, davanti a una casetta di legno e dei cespugli affacciati su una strada che porta il frusciare della pioggia. Noi abbiamo davanti quest’uomo e cerchiamo un segno, la pelle arrossata che si stacca a brani, gli occhi di un alieno, il fremito della morte, qualunque cosa che ci racconti l’orrore di un lampo blu che ha ucciso un’altra volta le speranze di un mondo nucleare. Ma non c’è niente, oltre quello sguardo immobile. Lui non parla inglese. Qui, quasi nessuno parla inglese. Keito traduce quel che dice: «Sono sotto controllo. I medici mi seguono».
• Keito ci ha portato qui perché diceva che tutti conoscono i nomi dei 18. Lei lavora in un negozio vicino alla stazione. Parla inglese. Però, i loro nomi devono restare segreti, dice. Perché? «Perché lo vogliono loro». Balle. «Forse lo vuole la Jco. Ma è lo stesso». La Jco è la società che gestisce l’impianto nucleare che s’è incendiato. Keito, chiedigli cosa ne pensa della Jco. Lui risponde: «Io non parlo». Chiedigli se era un volontario. «Non parlo. Sono vivo. Non ho niente da dire». Keito che lo dice: «Non tutti i 18 erano dei volontari». Cioè, li hanno obbligati ad andare dentro a spegnere un incendio nucleare? «Hanno estratto a sorte quelli che mancavano: ce ne volevano 18». Vorremmo chiedergli se ha paura di morire. Ma non osiamo. Un mese dopo, la vedova di Vassily Ignatenko, uno dei 27 pompieri sacrificati a Cernobil, aveva di fronte un uomo che perdeva anche gli occhi, che sbriciolava la sua pelle, che emanava radiazioni col suo respiro. I medici le dicevano: ”Signora, quello non è più suo marito. Scappi via”. Lei restò, perché esiste ancora qualcuno che ha deciso di aspettarti. passato un mese a Tokaimura. Quella mattina, il direttore dello stabilimento, Kogi Kitani, venne fuori e fece un inchino: «C’è stato un terribile incidente. Vi chiedo scusa». I giorni che sono venuti dopo hanno spiegato bene il significato di quell’inchino: tutto lì dentro era fuori legge. L’azienda non seguiva le norme del manuale di sicurezza dell’Agenzia nazionale per la scienza, in pratica il ministero dell’Energia giapponese. [...]
• Allora, un mese dopo siamo venuti qui a Tokaimura, sulle tracce delle vittime e dei colpevoli, degli eroi e dei mandanti. Se c’è stato un disastro nucleare, quanti ne pagheranno un prezzo? E quanti ne pagheranno la colpa? L’ultima ispezione nell’impianto della Sumitomo Metalli era stata fatta nel ’92, e Toru Nakahara, il direttore delle relazioni esterne dell’Agenzia per la scienza e le tecnologie, ha già detto ai giornali che «ci sono state serie responsabilità anche penali, e in quel posto sono state violate le norme di sicurezza». Però, ha detto che «le attrezzature erano in ordine: sono state usate male». Come dire, che gli unici colpevoli starebbero qui. Arriviamo a Tokaimura un giorno che piove. I campi di riso, i boschi di susini, le distese piatte coltivate con la lattuga. Poi, alberi che si perdono, mura alte, cancelli, filo spinato, capannoni. Polvere. Giardini, un parcheggio di biciclette. Un tempio. Splendidi pini a ombrello in un cortile di ghiaia. Ancora polvere. Tokaimura sta fra la collina e il mare, riempito di cartelli celesti, verdini, arancioni, di scritte che fanno pensare a chissà quale sogno americano, Group, Family, Phone 88-3700, Driven by imagination. Poi sfili davanti a queste case grige, fra queste strade piene di polvere, come in una città costruita in fretta e furia. Era un antico borgo di pescatori, Tokaimura. Oggi qui c’è: la compagnia Sumitomo Metalli per la fusione dell’uranio e dell’acido nitrico, la Naka Fusion, l’impianto di combustibili nucleari della Mitsubishi, la Società per la conversione del carburante nucleare, il Centro di Sviluppo Nucleare, l’Istituto giapponese di ricerca sull’atomo, l’Istituto giapponese per lo sviluppo del ciclo nucleare, la Società giapponese dell’energia atomica, il Gruppo di industrie del carburante nucleare, l’Istituto ingegneristico sulla separazione atomica attraverso il laser. Ha trentamila abitanti. Vivono tutti per questo. un fortino del nucleare: siamo capitati in mezzo al futuro.
• La gente del futuro ha un’altra visione del mondo. Questa è la nuova vita, questa la nuova morte. Yoshihisa Mura, 42 anni, tecnico, dice che tutta la città «è andata in processione a ringraziare i 18 che sono entrati dentro. Ma loro non hanno fatto quello per distruggere tutto questo. L’hanno fatto per salvarlo». E Mika Marutomi ricorda che «in questo villaggio siamo abituati a vivere con la paura, è già successo altre volte. Un mese fa è stato solo peggio. Però, non c’è altro da fare, perché è questo che ci dà da vivere». Così, la gente ha cominciato a rientrare, appena hanno riaperto la stazione e appena cessato l’allarme, 20 giorni fa. Hanno spalancato le case affacciate sulle fabbriche e sulle ciminiere. Hanno riportato i loro bambini. [...] Una, Hisami Kawasaki, raccontava con stupore ai giornalisti: «I miei genitori sono stati controllati con quell’aggeggio che misura la radioattività». Eppure, in questo mondo gli alieni siamo noi. A Tokaimura succede la stessa cosa che è successa a Cernobyl, quando tre anni dopo i contadini volevano tornare ai loro campi, alle loro case. C’erano gli animali che nascevano deformi con delle strane cose al posto degli occhi, dei maiali con delle facce da rana, delle mucche senza collo, senza ano. Alle donne era stato chiesto di non procreare. Però, volevano tornare tutti alla loro terra sporca di cenere nera, a guardarsi le galline senza gambe e i conigli senza occhi. Keito mangia tranquillamente la verdura cruda, si chiama «renkon». Hishashi Ouchi, uno dei feriti di Tokaimura, sopravvive con le trasfusioni di sangue dal cordone ombelicale dei neonati. Glielo dico: «Gli mancano milioni di cellule del sangue». Keito fa cenno di sì, «ah-ah». Altri due colleghi suoi sono conciati così. E altri 3 pompieri. E poi ci sono i 18: «Sì, hanno assorbito delle radiazioni», ha ammesso Nakahara. Se vivranno, dovranno passare la vita a guardarsi il sangue. Davvero è giusto, è normale, tutto questo? Eppure Keito prima di portarci dall’uomo senza nome disse solo così: «Siete voi che rovinate la vita a quei 18. Ma perché?».