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 2004  ottobre 10 Domenica calendario

Emiro con gli occhi blu

• Emiro con gli occhi blu. Con questa suggestiva espressione, i media di tutto il mondo indicano un ipotetico terrorista occidentale, convertito all’islam e al servizio di Al Quaeda, che si sappia confondere con gli arabi e coi wasp, a seconda delle esigenze, nel suk o nella city. Nessuna figura degna di nota, per fortuna, ha mai incarnato questo inquietante e intrigante archetipo che agita i sonni dei servizi europei e americani. Ma nei primi anni della seconda guerra mondiale, tra il 1941 e il ’43, un tenente italiano pare abbia rivestito un ruolo di questo genere. Almeno a detta degli inglesi. Si chiamava, anzi si chiama, visto che, ultranovantenne, è ancora vivo e risiede in Irlanda, Amedeo Guillet. Di nobile e antica famiglia piemontese fedele ai Savoia, basso, magro, gli occhi grigiazzurri e un aristocratico naso aquilino proteso sopra i baffi, Guillet era l’incubo delle truppe britanniche in Africa orientale. Lo spauracchio dei soldati di Sua Maestà. Dopo che l’esercito italiano si era sfaldato, per palese inferiorità tecnica, coi carrarmati Fiat-Ansaldo, soprannominati le ”scatole di sardine”, non in grado di affrontare i Mathilda I britannici, Guillet continuò una guerra personale. Compiva assalti ai convogli inglesi per rubare armi e viveri, sabotaggi ai binari dei treni e altre azioni di guerriglia che Londra considerava atti di banditismo o peggio di terrorismo. Perché, naturalmente, ci scappava sempre qualche morto. Le autorità inglesi temevano addirittura che Guillet potesse sequestrare dei pezzi grossi dell’amministrazione coloniale, proprio come oggi, sia pure ai danni di pesci piccoli, accade in Iraq, per chiedere un riscatto o porre un ricatto. E come su Bin Laden, sulla testa del tenente italiano era stata messa una taglia. Una sua foto segnaletica infatti circolava per permettere il riconoscimento in quasi tutta l’Africa orientale. Per sua fortuna il conte Amedeo Guillet parlava molto bene l’arabo, vestiva con abiti di foggia musulmana, e pregava in moschea il venerdì, convinto che in fondo Dio l’avrebbe ascoltato anche così. In breve, era invisibile. Non per niente lo chiamavano, Cummundar-as-Sheitan, Comandante Diavolo. Appoggiato dalle tribù eritree ostili agli inglesi, alla testa di un manipolo di mercenari africani che aveva combattuto ai suoi ordini nel Gruppo Bande Amahra, un reparto a cavallo che si era distinto nella resistenza antibritannica, Guillet incontrava i compagni di guerriglia solo di notte nella boscaglia. E di giorno lavorava come giardiniere da un connazionale, tale Rizzi. A dire il vero, la fama del Comandante Diavolo non era limitata alla sua attività di resistenza in Eritrea. Quando gli italiani erano entrati in guerra coi britannici, e le cose si erano messe male per i nostri connazionali, Guillet aveva compiuto una delle ultime cariche di cavalleria della storia. A Cherù. Su un cavallo bianco, battezzato Sandor, come il padre di una sua ex fiamma ungherese, il 21 gennaio del 1941 il tenente aveva guidato l’assalto mentre i soldati britannici, sorpresi dalla audace e desueta manovra, erano rimasti come immobilizzati. Disorientati. Almeno per un po’. Questo aveva consentito al grosso delle truppe italiane in ritirata di evitare pesanti perdite anche se il reggimento di Guillet era stato decimato, coi cavalieri che cadevano sotto i colpi delle mitragliatrici. La valorosa azione era valsa a Guillet una medaglia d’argento.
• Alla macchia con l’amante kadigia. Ma, poiché non c’era possibilità di resistere, il Comandante Diavolo si era dato alla macchia con alcuni fedelissimi e la compagna di letto e di armi che portava il nome della prima moglie del Profeta, Kadigia. Era un’eritrea giovanissima, diversamente dalla prima moglie di Maometto, il collo lungo, sottile e decorato di henné, i lineamenti finissimi, le labbra molto carnose e lo sguardo orgoglioso. Il suo portamento era regale anche quando mungeva una vacca magra. Sognava fin da piccola di mettersi con un capo e Guillet faceva al caso suo. Ma il tenente, che aveva fatto una promessa di matrimonio a una cugina in Italia, all’inizio non ne aveva voluto sapere della bella indigena. Naturalmente Kadigia non ci aveva messo molto a fargli cambiare idea. Le notti in Africa sono lunghe e fredde e quando ti trovi una ragazza nel letto di paglia, non sempre puoi avere la forza di scacciarla, per restare solo in compagnia delle pulci. Tutte e due, dunque, si trovavano insieme nella resistenza eritrea, in una specie di luna di miele partigiana, tra cactus candelabro e boschi di ginepro o acacia. Vivevano nel Dorfù, in un tucul, la capanna di paglia che il Rizzi gli aveva messo a disposizione. Kadigia faceva essiccare la carne per metterla via per chissà quando. Guillet di giorno faceva il giardiniere potando i banani del connazionale e prendendosi cura di altre piante da frutta esotiche. Se qualcuno gli faceva delle domande, il Comandante Diavolo diceva di essere yemenita e di chiamarsi Ahmed Abdullah al Redai. Di sera cospirava. Cospirava contro gli inglesi che avevano distrutto l’impero italiano, appena formato, in Africa orientale. Ma nemmeno nella proprietà dell’amico, un tranquillo proprietario terriero di mezz’età, Guillet e Kadigia erano al sicuro. Una domenica, mentre pranzava con Rizzi, in preda a una tipica nostalgia culinaria italiana, Guillet si vide piombare in casa i soldati inglesi che gli davano la caccia, guidati da Reich, un agente ebreo di origine austriaca che aveva la fissa di catturarlo. Il Comandante Diavolo si alzò con uno scatto felino da tavola, fece in tempo a spacciarsi per cameriere e resse la parte con grande freddezza cucinando persino due uova a Reich. Gli abiti arabi da poveraccio con cui Guillet andava in giro erano del resto perfetti per la messa in scena. Così come la barba che, alla maniera islamica, aveva preso il posto dei baffi alla piemontese. Insomma proprio un’altra faccia rispetto alla foto segnaletica su cui stava scritto ”wanted”. Non fu quella l’unica volta in cui il Comandante Diavolo rischiò di essere catturato dagli inglesi e di finire davanti a un plotone di esecuzione come pericoloso terrorista qual era considerato. Ma fu almeno una delle ultime. Perché, alla fine, la situazione si rese insostenibile. Rizzi, che dava ospitalità al famigerato fuggiasco, era passibile di una condanna ai lavori forzati. Come minimo. Guillet, col suo eroismo, avrebbe potuto rovinargli la vita. E rimetterci la propria. Magari anche la piccola e innocente Kadigia ci sarebbe finita di mezzo. Ne valeva la pena? Dopo tutto, la resistenza eritrea non aveva grandi chance di sopraffare il nemico, e neanche di fargli male, almeno fin quando qualche potenza europea non entrava in gioco fornendo armi, mezzi e via dicendo.
• La fuga nello Yemen. Fu così che il Comandante Diavolo decise di scappare nello Yemen, dall’altra parte del Mar Rosso, misterioso paese della Arabia Felix che si era mantenuto neutrale e dove pochi occidentali avevano messo piede. Per farlo dovette dire addio a Kadigia e dirigersi verso il porto di Massaua con un compagno. La scelta cadde sullo yemenita Daifallah, per via della nazionalità. Nel salutare Kadigia, Guillet non trattenne le lacrime. Ma anche muoversi in quella situazione era un rischio. Il Comandante Diavolo si incistò tra le baracche puzzolenti della periferia di Massaua dove non lo avrebbero cercato, dove nessun inglese avrebbe avuto il coraggio di mettere piede. Non aveva un soldo bucato in tasca perché quei pochi che aveva li aveva dati a Kadigia come buona uscita. Come avrebbe fatto a procurarsi il denaro per pagare un contrabbandiere che lo portasse nello Yemen? Cresciuto nella bambagia, ricco di famiglia, compagno di cavalcate della figlia di Vittorio Emanuele, il Comandante Diavolo era un tipo avventuroso e disposto al sacrificio. Del resto aveva rinunciato a fare parte della squadra olimpica di equitazione che gareggiò a Berlino nel 1936 per farsi mandare in Africa a costruire l’impero annunciato dal duce. E dire che in Italia, preso dagli allenamenti e dalla mondanità, tra gran premi ippici e serate con dive come Elsa Merlin, se la passava come meglio non poteva. Eppure aveva ceduto al richiamo dell’avventura esotica, del pionierismo fascista. Una fase già finita. Ora bisognava salvare la pellaccia, non l’impero. Per pagare un contrabbandiere che lo portasse in Yemen, Guillet lavorava come un mulo. Di giorno vendeva l’acqua al mercato. Di notte faceva la guardia a un magazzino. Qui ogni quindici minuti doveva fare un urlo convenzionale per dimostrare ai colleghi che era sveglio. Per fortuna trovò una donna che lo fece per lui. L’amico Daifallah provò invece a guadagnarsi qualcosa anche lui ma fallì miseramente tentando in vano di vendere delle disgustose torte di sua produzione. Alla fine la situazione precipitò. Perché uno scoppio pauroso sconvolse Massaua. Ci furono decine di morti. Probabilmente era saltato in aria, in modo accidentale, il deposito di munizioni degli italiani, abbandonato dall’inizio della guerra, esposto a piogge e sole. Ma gli inglesi credettero a un attentato del famigerato Comandante Diavolo. Le ricerche del terrorista, o presunto tale, si intensificarono. I soldati inglesi, che poi spesso erano di nazionalità sudanese o indiana, cominciarono a battere anche le baracche della periferia dove prima non avevano il coraggio di mettere piede. Daifallah trovò un losco figuro paragonabile a uno scafista albanese attuale, un uomo disposto a portarli clandestinamente in Yemen. Ma il tipo, che aveva unghie lunghissime per cacciarsele in ogni pertugio e una faccia da pendaglio da forca, dopo averli caricati a bordo della barca e avere intascato i soldi, li buttò a mare, tra gli squali e le murene. Guillet e Daifallah si trovarono contro la loro volontà nella terra più inospitale del pianeta, la Dancalia. Un postaccio da cui nessun esploratore era mai tornato tutto intero.
• Ignudo nel deserto. In Dancalia, seguendo una pista di cacca di capra, riuscirono a trovare dei pastori vicino a un pozzo, che avrebbero potuto dare loro da bere. Ma poiché gli abitanti di quel paese non erano meno aspri del paesaggio l’incontro non fu quel che si dice un idillio. Il Comandante Diavolo e Daifallah si presero un sacco di bastonate e furono spogliati di tutto. In pratica gli rimaneva addosso solo una casacca di foggia araba. Quando se la tolsero per proteggersi la testa, perché una scottatura era meno pericolosa di una insolazione, rimasero completamente ignudi. Gli arabi, com’è noto non portano le mutande e se anche le avessero avute gliele avrebbero rubate. Fu Ibrahim, un commerciante di granaglie, in groppa a un cammello, a salvare i due sventurati che vagavano per la Dancalia, come Don Chisciotte e Sancho Panza, persi nel nulla. Due fantasmi arrostiti dal sole. Uomo molto pio, Ibrahim li portò con sé, li rimise in carne e li congedò con qualche tallero di mancia dopo avere cercato di rifilare la giovane figlia al Comandante Diavolo, una costante da quelle parti. Guillet e Daifallah poterono così tornare a Massaua, dove le autorità portuali inglesi erano diventate di manica larga nel concedere i permessi di viaggio per lo Yemen. Il Comandante Diavolo si spacciò per yemenita. E ottenne il visto per prendere il largo nel Mar Rosso. Una volta arrivato, a bordo di un sanbuco, nello Yemen, Guillet dovette smettere di mentire e calare la maschera. Se un funzionario inglese poteva farsi ingannare dalla scura barba e dai bianchi vestiti di foggia araba, uno yemenita non era semplice farlo fesso. Il Comandante Diavolo, che aveva intenzione di chiedere asilo nel paese che diede i natali alla famiglia Bin Laden, raccontò allora tutta la storia. Spiegò che era un tenente di cavalleria italiano, che aveva partecipato alla conquista dell’impero, che era diventato un guerrigliero della causa eritrea contro gli inglesi eccetera eccetera. Per tutta risposta, gli misero dei ceppi con catene intorno alla caviglia e lo sbatterono in una fetida gattabuia. Ma Yahia, l’imam sciita che governava lo Yemen in modo dispotico, voleva verificare la versione di Guillet. Non aveva niente contro di lui. Se la sua incredibile storia si fosse rivelata vera lo avrebbe liberato. E così fece. Il Comandante Diavolo poté rimanere in Yemen indisturbato e trattato benissimo, finché una nave italiana, la Giulio Cesare, attraccò nel porto di Massaua. Gli inglesi non ne potevano più degli italiani, che del resto, dopo la riunione del Gran Consiglio, si erano liberati di Mussolini e si apprestavano a firmare una pace separata. Così avevano deciso di lasciarne partire un po’. In breve la nave che stava salpando da Massaua fu più che piena. Ci fu persino chi, per salire a bordo, ingoiò la saliva di un tubercolotico per passare per malato terminale e chi si travestì da donna dopo essersi accuratamente depilato e truccato. Il Comandante Diavolo si nascose vicino all’àncora. Ma fu subito stanato. Da un marinaio italiano che ebbe pietà di lui e lo mise nel reparto psichiatrico della nave spacciandolo per pazzo furioso, cosa che forse non era molto lontana dal vero. Così poté arrivare in Italia dopo una pericolosa navigazione durata cinquantuno giorni. A Roma Guillet apprese di essere stato promosso al grado di maggiore e, nel giro di qualche giorno, col suo carisma entusiasta di eroe, riuscì a mettere insieme i mezzi per una missione in Eritrea. Un aereo, in circa trenta ore di volo, lo avrebbe portato in Africa orientale e lì il Comandante Diavolo, sarebbe tornato a tirare le fila della guerriglia contro gli inglesi. Questa volta con le tasche non bucate ma piene di soldi. L’8 settembre si mise in mezzo tra Guillet e questo progetto. Ma questa è un’altra storia.
• «In famiglia ho sentito parlare delle sue gesta fin da bambino, perché un mio zio ha combattuto in Africa accanto a lui», racconta Edoardo Winspeare, salentino, 39 anni, regista, che tra qualche mese comincerà a girare La guerra privata del tenente Guillet, tratto dall’omonimo libro di Vittorio Dan Segre. L’occasione di cimentarsi con uno degli eroi dell’infanzia arriva dal suo collega e amico Marco Tullio Giordana che gli gira la proposta della società di produzione Cattleya di un film su Armando Guillet. Winspeare accetta: può finalmente raccontare le rocambolesche avventure di un uomo che, nato all’inizio dello scorso secolo, ancora oggi cavalca attraverso le brughiere d’Irlanda. « un personaggio che mi ha sempre affascinato. A una lettura superficiale sembrerebbe un uomo tutto d’un pezzo, giovane piemontese di nobile famiglia e ferrea fede savoiarda, imbevuto di valori militari e cavallereschi, desideroso di avventure e di gloria. Ma a un’analisi più approfondita emergono tutte le contraddizioni di un’anima quasi schizofrenica: giunto in Africa, infatti, scatta in lui una sorta di empatia con i popoli che la abitano e diventa egli stesso africano. un colonialista che a contatto con un continente sconosciuto ne è travolto, sopraffatto dalle sue meraviglie. Tanto da cambiare radicalmente il suo punto di vista: si veste da arabo, prega in arabo e addirittura si innamora di una bellissima eritrea. E rimane per un anno a combattere una guerra che non è più la sua, diventando una sorta di guerrigliero per l’indipendenza eritrea e trascinando con sé nella lotta musulmani, cristiani copti e ebrei falasha». «Per questo in Eritrea Guillet è ancora amatissimo, è stato il precursore della guerra di liberazione», aggiunge Pierpaolo Pirone, sceneggiatore del film insieme a Winspeare. «Quando è tornato lì è stato accolto come un capo di Stato e portato in elicottero a Cherù, dove aveva organizzato la famosa carica contro gli inglesi». Ma come è oggi questo novantaseienne Lawrence d’Arabia italiano? «Forte personalità, voce fermissima, palpebre immobili e occhi vispi e spalancati, grande autorevolezza, con qualcosa del felino, del predatore», dice ancora Winspeare che l’ha incontrato nella sua residenza in Irlanda. « al tempo stesso un inglese e un africano. Insomma, un vero italiano».