Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  luglio 11 Domenica calendario

Lavoriamo per il padrone! / La giornata è bella e stiamo al fresco, / i buoi tirano e tirano, / il cielo è secondo i nostri desideri, / lavoriamo per il padrone!»

• Lavoriamo per il padrone! / La giornata è bella e stiamo al fresco, / i buoi tirano e tirano, / il cielo è secondo i nostri desideri, / lavoriamo per il padrone!». E ancora: «Trebbiate per il vostro bene, / trebbiate per il vostro bene, buoi / trebbiate per il vostro bene. / Mangerete la paglia, il grano è per il vostro padrone. Non siate stanchi, è proprio fresco, / buoi, trebbiate». Così cantavano, malinconici e disincantati, i contadini dell’Egitto faraonico. Vita grama la loro. Differenza con i buoi, poca. «Il lavoro dei campi era duro; le malattie potevano distruggere la messe; i buoi da lavoro potevano morire di fatica o annegati nel fango; le tasse venivano però inesorabilmente riscosse» (R. Caminos). Le tasse, appunto. Un incubo nel tempo del raccolto. Gli esattori giungevano puntuali con un codazzo di sorveglianti, scribi e servi che venivano a misurare i campi e a controllare la quantità del raccolto, per stabilire l’ammontare delle imposte che l’agricoltore avrebbe dovuto versare al proprietario delle terre da lui coltivate, che fossero della Corona, di una istituzione religiosa o di un privato. Nella celebre Satira dei mestieri risalente al Medio Regno (2150-1750 circa a.C.) un certo Duaf-Kethy, mentre accompagna il figlio alla capitale per farlo studiare nella scuola governativa per scribi, dipinge un quadro impressionante: «Sii scriba. Questo ti salverà dalla fatica e ti proteggerà da ogni tipo di lavoro. Ti risparmierà il portare la zappa e il piccone, in modo che non dovrai portare il canestro. Ti risparmierà l’aratro e ogni tipo di fatica. Lascia che ti ricordi lo stato miserevole del contadino quando vengono i funzionari per stabilire la tassa del raccolto. Quando i serpenti hanno portato via metà del grano e l’ippopotamo si è mangiato il resto. Il vorace passero porta disastri ai contadini. Ciò che restava del grano sull’aia se n’è andato, i ladri lo hanno portato via. Egli non può pagare quello che deve per i buoi presi in prestito: inoltre, i buoi sono morti per l’eccessivo arare e trebbiare. E proprio ora attracca alla riva del fiume lo scriba per calcolare la tassa sul raccolto, con un seguito di servi con bastoni e di nubiani con rami di palma. Essi dicono: ”Mostraci il grano!”. Ma non ce n’è, e il contadino è battuto senza pietà. legato, e gettato a testa in giù in uno stagno, e è tutto inzuppato d’acqua. Sua moglie è legata in sua presenza, i suoi figli sono in ceppi. Ma lo scriba comanda tutti. Colui che lavora scrivendo non è tassato; non è obbligato a pagare. Ricordalo bene». In tempi più recenti, stando al racconto dell’alessandrino Filone (Sulle leggi speciali), le cose non erano affatto cambiate: «Poco tempo fa una certa persona fu nominata esattore delle tasse nel nostro distretto. Quando alcuni debitori, che erano in arretrato con i pagamenti, naturalmente a causa della povertà, presero la fuga per timore delle possibili conseguenze di un’insopportabile punizione, egli prese a forza le loro mogli, i loro figli ed i loro genitori, ed altri parenti, e li percosse, li calpestò e li sottopose ad ogni tipo di oltraggio e trattamento ignominioso, per far sì che costoro dicessero dove i loro parenti si erano rifugiati, oppure perché pagassero i debiti di costoro». Anche senza far uso di misure estreme, lo scriba con la sua asfissiante presenza non dava mai tregua. Appena i contadini avevano finito di vagliare il grano, eccolo arrivare con la tavolozza e la tavoletta con cui prendeva accuratamente nota, ai fini di stabilire l’importo del tributo, dell’ammontare del prodotto dei campi, che era stato calcolato in sua presenza prima che il grano ripulito fosse raccolto in sacchi per essere immagazzinato nei granai. Eppure per i contadini c’era qualcosa anche di peggio delle tasse: la corvè. Si trattava di un servizio di Stato forzato, non pagato e obbligatorio cui venivano sottoposti tutti gli agricoltori (a volte anche altre categorie di lavoratori): costruzione e manutenzione di strade, canali di irrigazione, dighe e canali di scolo, erezione di grandi edifici, templi, piramidi, oppure incarichi di tipo militare, lavori nelle cave e nelle miniere. (Tale pratica fu abolita, almeno sulla carta, solo nel 1889). Le eventuali esenzioni erano regolate da appositi decreti reali. Ogni tanto capitava che qualche contadino, particolarmente angariato da fisco, corvè, padroni spietati, paghe miserabili (si veniva pagati in natura, le monete furono introdotte solo in epoca ellenistica: una manciata di grano, qualche volta una misura d’olio, una giara di birra nei giorni di festa) e condizioni di vita inumane decidesse di fuggire abbandonando terre, casa e famiglia. Tutta la storia dell’Egitto faraonico, dal’inizio della XII dinastia (2000 a.C. circa) al Nuovo Regno fino all’epoca dei tolomei e dei romani, quando divenne fenomeno endemico, è segnata dall’ànachoresis. Una fuga disperata e inutile che certo non migliorava le condizioni dell’ex agricoltore, ridotto a fare il predone o il mendicante. Intanto, i campi andavano a male e nessuno sfruttava le acque del Nilo.
• il fiume della vita L’inondazione del grande fiume (anonimi e solerti amministratori, i primi matematici della storia, avevano provveduto a misurarlo: 106 miglia fluviali da nord a sud), che ogni anno irrigava e fertilizzava la terra, era l’elemento fondamentale dell’agricoltura e dunque dell’Egitto. Quando le acque erano scarse (’Nilo basso”) o troppo abbandonati (’Nilo alto”), erano guai: se il livello del fiume non si alzava abbastanza per irrigare tutta la terra coltivabile, veniva arata una superficie troppo scarsa per il raccolto della stagione successiva e questo era il preludio a tempi di carestia; se l’inondazione era troppo copiosa, distruggeva le dighe e i canali di irrigazione causando spesso pesanti perdite di vite umane, di messi e di bestiame. Anche nel caso di un livello delle acque ottimale (’Nilo grande”), i contadini avevano il loro bel da fare: «Canali, dighe e rigagnoli ostruiti dal fango, danneggiati o asportati dal flutto, dovevano essere riparati o ricostruiti, poiché erano essenziali per il buon funzionamento del sistema di irrigazione mediante bacini. Per rimettere in efficienza l’apparato, il contadino doveva lavorare duramente e in fretta; l’operazione doveva essere condotta a termine nel minor tempo possibile, prima che la terra si seccasse: l’opera della zappa e dell’aratro, che con la successiva semina concludevano la prima parte del ciclo agricolo, era assai più facile quando la superficie del suolo era ancora fangosa, soffice e umida, e certo non rimaneva a lungo così, sotto il caldo sole egiziano» (Caminos).
• in nome della maat Negli acquitrini melmosi circostanti il Nilo si consumavano così le esistenze dei contadini. Ma le paludi erano frequentate anche dai ”vip”. Ci si poteva imbattere, infatti, in qualche notabile e persino nel faraone stesso. Costoro praticavano caccia e pesca per sport, mentre i contadini lo facevano per rimpinguare in qualche modo la magra dieta quotidiana. Gli uni e gli altri, in ogni caso, rientravano nell’immutabile ordine cosmico della Maat, il principio dell’armonia nella natura e nella società. Un’armonia che in Egitto, nonostante episodiche catastrofi naturali, non fu mai veramente messa in discussione. «Lo Stato è il faraone. Egli ha inserito i suoi monumenti nella natura e l’ha resa produttiva senza farle violenza. Anche le piramidi ne fanno parte. Natura e Stato poggiano entrambe sulla Maat, cui sono vincolati tutti gli strati sociali, compreso il re. Su di essa si fondano giustizia e verità, e ogni forma di vita cosmica e sociale. Il faraone sottolinea sempre che anche lui, come gli dei, ”vive di Maat ”, è cioè vincolato a tale principio; questa concezione viene espressa anche iconograficamente attraverso la scena dell’’offerta di Maat ”: il re porge agli dei una piccola figura di Maat, in forma di dea accovacciata e ornata sul capo dal simbolo della piuma. In ambito sociale, il principio di Maat impedisce che il debole subisca ingiustizie, garantendogli un equo trattamento. Compito del re è di far valere tale principio sulle forze avverse e sul naturale ”diritto del più forte”» (E. Hornung). Nei suoi risvolti concreti, invece, l’amministrazione egiziana era caratterizzata da: assenza di metalli che circolassero come denaro; assenza di bestiame o terra di proprietà del popolo; uguaglianza generalizzata fondata sulla comune schiavitù rispetto al faraone. Al culmine della piramide sociale, infatti, stava il re: «Più vicino agli dei, appartiene di fatto al loro mondo e non è da essi separabile. In casi particolari egli si presenta agli uomini come un dio, oggetto dunque di venerazione culturale. Ma in primo luogo è lui stesso amministratore del culto e rappresentante dell’umanità di fronte agli dei» (Hornung). Anche nei periodi più bui, come durante la dominazione degli hyksos o dei persiani, la sacralità della sua figura non venne mai meno. I diversi appellativi divini ne descrivono il ruolo: come sostentatore della nazione è per gli uomini un Hapi (l’inondazione del Nilo), quale padre del paese è un Khnum (che forma gli uomini sulla ruota del vasaio), nella sua collera è la terribile Sekhmet, nell’indulgenza è la pacifica Bastet, mentre in battaglia diventa Montu, il dio della guerra. La simbologia animale ha lo stesso significato: il faraone è leone, toro e falco; più tardi verrà raffigurato come una figura ibrida, la sfinge e il grifone (che unisce la natura del leone e del falco). In Egitto, il toro non rappresenta solo la fertilità, ma soprattutto la sovranità. La figura del falco è quella che ha più successo (nelle prime dinastie il faraone è il falco Horo), mentre la divinità con cui si identifica maggiormente è Ra, dio del sole.
• forever young La cerimonia più importante era la festa Sed (chiamata anche ”giubileo”): documentata fin dalle epoche più antiche, esprimeva il concetto che il potere e la sovranità devono rinnovarsi completamente a ogni generazione, sia in terra sia nell’Aldilà. Nonostante fosse menzionata e raffigurata molto di frequente, la festa Sed veniva realmente celebrata, tranne rare eccezioni, dopo che il faraone aveva compiuto i trent’anni di regno, cioè dopo il passaggio di una generazione, e era poi ripetuta a brevi intervalli di tre o quattro anni. Il centro del rituale era a volte la sepoltura di una statua del re, che personifica il vecchio sovrano, a volte la ripetizione dell’incoronazione dove il re, tornato giovane, mostra la sua vigoria fisica con una corsa davanti agli dei. Secondo lo storico greco Diodoro Siculo, l’intera giornata del sovrano era minuziosamente programmata e la sua vita era circondata da norme-tabù. Il sacerdote Rawer, in un’iscrizione nella sua tomba a Giza, racconta un episodio per lui potenzialmente molto pericoloso: durante un rito, fu urtato accidentalmente dalla mazza del re Neferirkara (V dinastia), che dovette affrettarsi a dichiarare che il gesto non era intenzionale e che il sacerdote non andava punito.
• amore e guerra Se nella letteratura ufficiale il re «non dorme mai» e si preoccupa «giorno e notte» del benessere della nazione, altri testi lo descrivono in atteggiamenti più umani: cerca passatempi per vincere la noia, scruta il futuro o cerca formule per allungare la propria vita; stando al racconto del re Neferkara e del generale Sisene (VI dinastia), si dedicava persino all’amore omosessuale. A proposito: «Molte delle campagne militari tramandate non esprimono una reale necessità politica o economica, ma solo uno ”sconfiggere il nemico” puramente rituale; il faraone infatti, dal momento stesso in cui prendeva il potere, doveva immediatamente affermarsi come trionfatore dei nemici» (Hornung). I testi lo esaltano definendolo «efficace come milioni di soldati» o «muro per il suo esercito» e celebrano esclusivamente le sue gesta, i nomi dei generali e degli ufficiali non vengono mai citati. Secondo l’ideologia reale, il faraone non conduce guerre di aggressione e di conquista, ma è costretto a reagire alle provocazioni e alle ribellioni dei suoi nemici. Insomma, non c’era Maat che tenesse. Il faraone, Signore della guerra e dei monumenti, ci teneva eccome a distinguersi dal resto dell’umanità, rifacendosi alla sua natura divina. Ecco il perché del simbolo più famoso dell’Egitto: la piramide, il sepolcro esclusivo del re e della sua consorte. Senza mai dimenticare, come osserva Ricardo Caminos, che «le piramidi di Giza, le syringae tebane, le statue colossali, gli obelischi ed i templi imponenti che stupirono i visitatori greci e romani, così come stupiscono oggi i moderni turisti, i gioielli finemente lavorati, i lini raffinati, la suppellettile e gli utensili di ogni tipo, oggi sparsi tra le collezioni di tutto il mondo, il benessere domestico della classe superiore della popolazione, le conquiste militari, l’espansione commerciale, l’influenza e il prestigio all’estero, in una parola, tutta l’eredità lasciata all’umanità dall’Egitto, hanno alla base il sudore della fronte del contadino». Il contadino e il faraone, dunque, asse portante di tutta la civiltà egiziana. Certo senza trascurare l’artigiano e lo scriba, il soldato e il sacerdote, il funzionario e lo schiavo. Ma è sull’uomo che coltivava la terra e sull’unico e indiscusso capo che resse un equlibrio fragile eppure capace di durare tremila anni. Marco Burini