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 2016  novembre 12 Sabato calendario

La storia di Larruy Gagosian

• First Panorama 23 novembre 2007. L’ultimo film del mitico Sidney Lumet si intitola Before the devil knows you’re dead (Prima che il diavolo sappia che sei morto). Pensando al gallerista americano Larry Gagosian si potrebbe immaginare una versione intitolata Before the devil knows you’re an (good) artist, ovvero Prima che il diavolo sappia che sei un (bravo) artista. Infatti, nel mondo dell’arte, molti considerano Gagosian il Diavolo, uno che, per comprarsi l’anima di un grande artista, è disposto a spendere qualsiasi cifra. Go-Go, come lo chiamano gli addetti ai lavori, non è in realtà né più buono né più cattivo di altri galleristi, ma è il più bravo. In ogni caso, nell’infernale mercato dell’arte contemporanea di oggi, è meglio essere Lucifero, Satana o Belzebù che un diavoletto qualsiasi. Gagosian ha una grande passione per l’arte, anche se ancora più grande è la sua passione di venderla. I detrattori, sbagliando, dicono che sia ignorante e cinico, non accorgendosi che la sua è solo una strategia per muoversi indisturbato fra i collezionisti spesso sospettosi di chi ne sa più di loro. La storia di Larry Gagosian, classe 1945, inizia a Los Angeles, quando vendeva manifesti a Santa Monica per 15 dollari. La leggenda vuole che i primi grandi affari li abbia fatti fotografando capolavori di Lichtenstein, Warhol o Jackson Pollock dalle riviste di arredamento e architettura, per poi proporli a possibili acquirenti all’insaputa dei proprietari. Quanto di vero ci sia in questa storia non si sa, ma certo descrive bene il personaggio. Gagosian, infatti, è famoso per essere uno che non ha fretta, anzi. Quando lo intervistai molti anni fa nella sua, allora unica, galleria su Madison Avenue (oggi ne ha due a Chelsea, due a Londra e il 15 dicembre ne inaugurerà una a Roma con una mostra di Cy Twombly), gli chiesi se avesse mai provato a convincere Bruce Nauman, uno dei più importanti artisti americani contemporanei, a esporre nella sua galleria. Mi rispose, serafico: "Certo! Ma la risposta è stata no". La cosa lo disturbava? "Nemmeno per sogno, una delle mie regole è ”mai dire mai”". In-fatti, con tanti altri, da Jeff Koons a Damien Hirst, da Richard Serra a Cy Twombly, a giovani rampanti come il nostro Francesco Vezzoli o Ellen Gallacher e Douglas Gordon, non c’è voluto molto per strappare un sì.

Oltre al denaro, sul piatto, il nostro Larry mette anche il glamour delle sue inaugurazioni dove arrivano stelle di Hollywood, quelle della finanza e i più importanti collezionisti e direttori di museo del mondo. Gagosian, con il suo aspetto a metà fra lo Steve McQueen di Bullit, Lee Marvin e il Clint Eastwood dell’Ispettore Callaghan, ha un fascino molto particolare.
Ai suoi opening, anziché lavorarsi istericamente gli invitati come molti suoi colleghi, si aggira rilassato come se quello che gli sta attorno non lo riguardasse. Non ignora - ma nemmeno adora - i suoi ospiti, creando attorno a sé un alone intrigante. In un mondo dell’arte dove i galleristi si comportano con gli artisti come madri troppo protettive, Gagosian si presenta come il compagno di scuola con il quale si può giocare a tennis, farsi una bevuta o semplicemente cenare parlando di donne e di macchine, senza annoiarsi con l’arte e con gli affari.
Chi lo ha visto in azione conferma che questo eterno giovanotto dai capelli bianchi e la faccia segnata dall’acne ha la capacità di mimetizzarsi di un camaleonte. Se, a una cena, Cy Twombly lo fa sedere accanto alla zia novantenne anziché al direttore di un museo, lui non fa una piega, conversando amabilmente con la vecchietta e magari aiutando a sparecchiare. La potenza di Gagosian è quella di saper nascondere il proprio potere e di esibirlo solo quando necessario. Un’altra delle sue qualità - o difetto, dipende dai punti di vista - sta nel saper individuare le persone giuste con le quali lavorare. Arrivato a New York, Gagosian capì subito che la persona giusta era il mago del business dell’arte contemporanea, il leggendario Leo Castelli, dal quale si fece prendere sotto protezione. A vederli insieme, i due galleristi non potevano sembrare più diversi: uno piccolo, l’altro grande; uno elegante e fragile, l’altro grezzo e robusto; uno più diplomatico della Regina d’Inghilterra, l’altro sfacciato come un cowboy. Eppure, in arte e in affari, erano sulla stessa lunghezza d’onda. Castelli, che non aveva eredi qualificati ai quali passare lo scettro e i segreti del mestiere, trovò in Gagosian il suo successore naturale. La difficoltà, per il vecchio gallerista, era tenere a freno la curiosità e la bramosia del collega più giovane.

Si racconta che un giorno Gagosian, dopo infinite suppliche, ottene da Castelli il permesso di seguirlo da un collezionista molto riservato per vedere un’importante opera di Roy Lichtenstein assolutamente non in vendita. La visita durò solo pochi minuti. Qualche settimana dopo Castelli, visitando la casa di un altro collezionista, si trovò davanti lo stesso quadro. Sconcertato, chiese al proprietario da chi lo avesse acquistato e la risposta fu: "Da Larry Gagosian". Gagosian, infatti, non solo vende arte, ma è in grado di farla vendere e di farla comprare rendendo felici contemporaneamente, e sorprendentemente, acquirente e venditore. Recentemente ha ”aiutato” un collezionista a comprare una Marilyn di Andy Warhol per 80 milioni di dollari riuscendo a convincere, si fa per dire, chi ce l’aveva a rinunciarci. Per la galleria di Gagosian lavorano ex esperti di Sotheby’s e Christie’s, ex critici ed ex galleristi molto ben pagati. Gli spazi che Gagosian apre non sono mai semplici sfoggi di grandiosità, ma hanno obiettivi precisi. La prima galleria a Chelsea, Gagosian la costruì pensando esclusivamente alle mastodontiche opere dello scultore Richard Serra. E a convincere l’artista fu proprio il luogo che il gallerista era stato in grado di mettergli a disposizione per la sua arte, dimostrando di capire meglio di altri di cosa si trattava. C’è chi si chiede perché uno come Gagosian venga ad aprire una galleria a Roma, piazza sonnolenta per l’arte contemporanea in confronto a Londra o Manhattan. Sicuramente, come nel caso di Serra, l’obiettivo anche se non dichiarato deve essere preciso. L’Italia è una miniera inesplorata di collezioni di arte moderna e contemporanea private e nascoste. Il mercato di artisti come Fontana o Burri, per non parlare di quello di De Dominicis, è ancora tutto da sfruttare, nonostante i prezzi possano sembrare già alti. Uno come Larry Gagosian, in una situazione come questa, va a nozze. Per uno che ogni anno maneggia centinaia di milioni di dollari e ne guadagna di persona probabilmente una cinquantina, una galleria a Roma influisce sulla sua economia come un posto macchina in un garage per una persona normale. La sua libertà di manovra sarà dunque totale. L’unico pericolo, allora, per il nostro gallerista ”pigliatutto” è che il Diavolo, prima o poi, si accorga di chi è davvero Larry Gagosian.
FRANCESCO BONAMI


• Viaggio nello stato dell´arte. I musei statali e gli scavi archeologici nel 2006 hanno superato i 34 milioni di visitatori, le esposizioni temporanee i sei milioni. Se aggiungiamo pinacoteche e gallerie civiche si raggiunge facilmente quota cinquanta milioni. E´ un´intera nazione che si sposta in continuazione in nome e per conto dell´arte antica e contemporanea, il più grande esercito mai sceso in campo in tutta la storia del nostro paese, del mondo se rapportiamo il dato alla grandezza dell´Italia. Eppure la manutenzione del patrimonio è carente, basta vedere gli scavi di Pompei. Lo stato dell´arte. Ottimo, apparentemente. A guardarlo attraverso i numeri c´è da gioire. I musei statali e gli scavi archeologici nel 2006 hanno superato i 34 milioni di visitatori, le esposizioni temporanee i sei milioni. Se aggiungiamo pinacoteche e gallerie civiche si raggiunge facilmente quota cinquanta milioni. E´ un´intera nazione che si sposta in continuazione in nome e per conto dell´arte antica e contemporanea, il più grande esercito mai sceso in campo in tutta la storia del nostro paese, del mondo se rapportiamo il dato alla grandezza dell´Italia. Si potrebbe definire un record dei record che - stando alle previsioni - sarà sicuramente bissato in questo 2007 ma non altrettanto facilmente nel futuro. Questa gioiosa macchina da guerra, che sposta persone d´ogni nazionalità e muove affari - direttamente e indirettamente - per centinaia di milioni di euro, presenta vistose crepe. La prima, la meno appariscente ma forse la più pericolosa, riguarda l´università, gli insegnamenti artistici. A livello mondiale gli italiani contano sempre meno. E´ chiusa da tempo l´epoca delle star, di Adolfo Venturi, Pietro Toesca, Roberto Longhi, Cesare Brandi, Giuliano Briganti, Giulio Carlo Argan; è scemata l´era delle dispute sull´occhio del critico, «l´occhio storicizzante, l´occhio del conoscitore dei tempi e delle epoche» che per l´intero Novecento ha scatenato durissimi scontri attributivi su Caravaggio o Rubens; ed è giunta al termine la carriera dei successori dei grandi maestri della storia dell´arte, studiosi di straordinario valore come Mina Gregori, Paola Barocchi o Maurizio Calvesi. In generale non hanno lasciato eredi di grido. Di conseguenza abbiamo davanti un´università sempre più povera di docenti in grado di attrarre gli studenti e al contempo cresce, ma non in Italia, il numero delle specializzazioni, non per un periodo storico vastissimo, ma per artisti. E su questo fronte le università, soprattutto quelle anglosassoni, spesso strettamente alleate alle proprie istituzioni museali, stanno conquistando spazi e potere. Dominano riviste, saggistica, editoria specialistica in ogni grado di qualità. Oggi per avere notizie su certi artisti antichi è più facile rivolgersi oltre Oceano che in Italia, stessa cosa per gli arredi, per arazzi o tappezzerie, per arrivare addirittura al presepe napoletano: è la mostra che il Metropolitan offre durante queste festività natalizie. A fronte di tutto questo non corrisponde nel nostro paese - altro punto dolente - la necessaria attenzione nei confronti di un patrimonio artistico in grado di spostare, come narrano le statistiche, cinquanta milioni di persone. L´ordinaria manutenzione dei beni è da tempo dimenticata, si procede per strappi e interventi straordinari, tanto violenti che è stata chiesta una moratoria, uno stop ai restauri. Il degrado e l´abbandono, lo sporco, le montagne di cartacce oleose sono ben visibili al Colosseo, con i suoi finti centurioni e le notti cariche di sesso, che ogni anno attrae due milioni di visitatori, o a Pompei, attraversata da un milione e duecentomila persone di solito accompagnate da grignanti cani selvatici, da custodi in ciabatte. Brutte visioni a cui sono da aggiungere le grandi delusioni, un ventennio di promesse, di speranze accese da ministri di governi tecnici, di sinistra, di centro destra. E´ una Grande Italia quella che è stata disegnata ma che ancora non s´è vista e dove dovrebbero incontrarsi i Grandi Uffizi, la Grande Brera, le nuove gallerie dell´Accademia di Venezia, la Grande Barberini. Meraviglie, magnifici musei di un´Italia che per ora è rimasta da sogno ma per la quale il ministro Francesco Rutelli spende fede e parole anche se solo poche cose sono state fatte, non ci sono fondi, i lavori non sono appaltati. Ci vorranno decenni per arrivare a scrivere la parola fine. Più ottimista appare, nonostante tutto, la situazione dell´arte contemporanea, forse perché è il momento storico, perché è «fashion». Abbiamo, per la verità, un passato straordinario dove si incrociano l´Arte Povera di Germano Celant, la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, un passato che ha lentamente portato alla formazione di un pubblico di massa. Quest´anno la contestata Biennale di arti visive diretta da Robert Storr ha superato i trecentomila visitatori. Non accadeva da venticinque anni. E´ un segno eclatante di un altro fatto: non è più vero che in Italia mancano i musei d´arte contemporanea. C´è ormai un vero e proprio tour che parte da Torino, dal Castello di Rivoli, che ha una collezione che comprende opere di Long, Merz, Paolini, Pistoletto, Sol Lewitt, Vedova, Cattelan. A Rovereto è nato il Mart, su progetto di Mario Botta, a Bologna, il Mambo, a Prato il Pecci, a Roma sono in costruzione il Macro, con un progetto di ampliamento dell´architetto francese Odile Decq e il Maxxi, il museo nazionale disegnato da Zaha Hadid, a Napoli è ormai perfettamente funzionante il Madre, un museo sta per aprire a Palermo, in Sardegna, a Nuoro, è funzionante il Man. A queste istituzioni legate al pubblico vanno aggiunte quelle private. E´ ormai un lunghissimo elenco che comprende la Fondazione Sandretto e la Fondazione Merz di Torino, la Fondazione Prada di Milano, la Fondazione Maramotti di Reggio Emilia, la Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia (che riesce ad attirare più di trecentomila visitatori), la Fondazione Querini Stampalia e la Fondazione Bevilacqua La Masa, Palazzo Grassi che è controllato dal magnate francese Pinault e presenta a volte bene e a volte maluccio la sua collezione, la raccolta d´arte ambientale di Giuliano Gori, che si trova a Celle, non lontano da Pistoia, ed è una delle più belle al mondo. Vanno poi sommate le esposizioni temporanee. Sono un gran bell´affare: per "America" che s´è appena aperta a Brescia il bilancio è di otto milioni di euro, per "Cézanne" a Firenze era di 3,5 milioni di euro, per Raffaello era di un paio di milioni. Complessivamente più di quaranta milioni l´anno di investimenti con costi sempre più alti, saliti per i trasporti, le assicurazioni, e i quadri. Oggi il prestito generalmente non è gratuito, ha un prezzo. Si parte dai quarantamila euro e si sale verso l´alto per i capolavori. Questa è la cornice generale del Bel Paese che troppo spesso, però, si dimentica dei propri artisti e spalanca i portoni a galleristi e soprattutto mercanti che hanno interessi personali: presentano opere per moltiplicarne il valore attraverso l´esposizione. Usano le nostre istituzioni per creare una pubblica valorizzazione. In un momento storico come quello odierno in cui il mercato dell´arte si è trasformato, almeno parzialmente, in uno strumento finanziario sono giochi assai pericolosi. Vietati in Borsa. A sparger voci sulle quotazioni azionarie si rischia l´arresto. Non accade sul mercato dell´arte contemporanea dove i mercanti acquistano e riacquistano le opere dei propri artisti e ne modificano il corso e le stime. L´ultimo caso è quello di Larry Gagosian che per oltre 23 milioni di dollari ha comprato Tag, Cuore sospeso di Jeff Koons, visto - guarda caso - a Palazzo Grassi. L´artista americano, noto presso il grande pubblico per aver sposato la pornostar Ilona «Cicciolina» Staller, è uno degli artisti della scuderia del signor Larry Gagosian, che è considerato una potenza mondiale e da oggi uno dei protagonisti di "Miami Art Basel". Il 15 dicembre aprirà una galleria anche a Roma, atto dovuto perché si occupa in maniera sistematica dell´archivio di Cy Twombly, altro americano - legatissimo a Roma - assai celebre, le cui quotazioni difficilmente scendono sotto i cinque milioni di dollari e per il quale sta preparando una mostra la Tate, ovviamente destinata a sbarcare in Italia. E il Bel Paese sembra destinato a subire, anzi ha già subito, l´irresistibile fascino di «Larry», come lo chiamano tutti quelli che dicono di essere suoi amici. Negli ultimi due anni istituzioni pubbliche (statali o comunali) hanno organizzato non meno di venti mostre dedicate ad altrettanti artisti della scuderia Gagosian. Sarà un caso, come sostengono i direttori dei musei, ma non v´è dubbio che tra Roma, Rovereto, Bergamo, Napoli, Milano sono stati esposti più «stranieri» che italiani: Ghada Amer, Rachel Whiteread, Ed Ruscha, Richard Serra, Richard Hamilton, Damien Hirst, Takashi Murakami. Sembra in corso, sensazione assai spiacevole, una strisciante colonizzazione che investe sia l´arte antica sia l´arte contemporanea. E lo stato dell´arte del nuovo millennio senza statistiche appare a stelle e strisce. Che fare? si chiese Mario Merz in una celebre installazione del 1968. Che fare?
• Il Giornale 16 dicembre 2007. Quando, durante la scorsa Festa del cinema, un sedicente performer «neofuturista» colorò di rosso l’acqua della fontana di Trevi, qualcuno lo interpretò come il chiaro segnale che, a breve, la Dolce Vita all’ombra della capitale sarebbe passata dall’arte contemporanea, altro che Anita Ekberg e Sharon Stone. E non è un caso che ieri, a rendere omaggio all’apertura della settima galleria del mercante californiano Larry Gagosian, il re dello star system globale dell’arte, fosse presente una parterre di Vip dello spettacolo inusitata per il mondo delle mostre: come Bob Geldof, William Defoe, Valentino, Marco Tronchetti Provera con Afef, Miuccia Prada, oltre al sindaco Veltroni, ansioso di vedere che svolta darà questo evento tanto atteso (e temuto), al decantato neorinascimento della città.
Per l’inaugurazione, il sindaco ha fatto addirittura transennare la strada della neo-galleria situata, manco a dirlo, a ridosso di via Veneto, in via Crispi. Del resto, a differenza della Festa del Cinema che è una passerella di stelle semel in anno, lo sbarco di un personaggio come Larry «Go-Go» (così è stato ribattezzato per la sua rapidità nel fiutare il mercato), è di quelli che fanno poca polvere e molti fatti. E cambiano le carte in tavola. Ne sanno qualcosa soprattutto a Londra, dove il suo ingresso, consacrato nel 2004 dalla trasformazione di uno straordinario spazio nell’East End, ha fatto fare le valigie nientemeno che ad Anthony D’Offay, fino a quel momento numero uno assoluto del mercato dell’arte europeo.
Sì perché Gagosian, detto anche «The shark», «lo squalo», è una specie di re Mida dell’arte, il gallerista che per la prima volta ha portato a cifre astronomiche artisti viventi e la cui scuderia oggi annovera tutti i nomi che contano nel contemporaneo, da Damien Hirst a Anselm Kiefer, da Jeff Koons a Richard Serra. Con lui, degno successore del deus ex machina della pop art Leo Castelli, l’arte contemporanea ha assurto il ruolo di status symbol nel mondo dello spettacolo, della moda e dell’alta finanza: tra i suoi collezionisti pullulano infatti divi hollywoodiani e personaggi come Arnold Schwarzenegger e Charles Saatchi. Oggi il nome Gagosian, nella classifica delle cento persone più importanti dell’arte mondiale, è secondo solo a François Pinault, il magnate più ricco di Francia proprietario della casa d’aste Christie’s.
Da Manhattan a Beverly Hills a Londra, il suo impero da oggi si è esteso anche all’Italia. E non nella Milano delle gallerie, ma nella ex sonnacchiosa Roma, tradizionalmente poco sensibile all’arte contemporanea. Al suo arrivo, Larry ha dichiarato: «Sono molto felice di aprire una galleria a Roma, da sempre fonte di ispirazione insostituibile per gli artisti, e mi auguro di diventare parte della vita culturale di questa città straordinaria».
Sarà. Di certo la presenza dello «Squalo», che iniziò la carriera negli anni ”70 vendendo manifesti incorniciati sulla spiaggia di Santa Monica (il suo motto era: «compro a due e vendo a 15»), sposterà l’asse di un mercato italiano fino a oggi periferico e che da sempre guarda con soggezione Oltreoceano. «Ma non siamo certo venuti qui per fare i talent scout dell’arte italiana», dice Pepi Marchetti Franchi, direttrice dello spazio inaugurato ieri in un sontuoso palazzetto anni ”20 dalla facciata classicheggiante ma trasformato all’interno nel gelido «stile Gagosian» dall’architetto Firouz Galdo in collaborazione con lo Studio Caruso St. John Architects. Il sottotesto è che, almeno all’inizio, la sede italiana sarà più che altro un palcoscenico della scuderia di «King Larry» nell’incantevole vetrina della Città eterna, ma anche una testa di ponte per i mercati emergenti, Est e Paesi arabi compresi.
Per la «prima» italiana, la galleria diretta dalla Marchetti Franchi (di ritorno a Roma dopo lunga esperienza alla Fondazione Guggenheim) ha comunque optato per una scelta in un certo senso glocal, ovvero una mostra personale di Cy Twombly, il 79enne grande espressionista astratto americano molto legato a Roma, di cui condivise gli spumeggianti anni ”50. Per l’occasione, l’artista ha realizzato tre tele monumentali che compongono il tema della mostra intitolata «Three notes from Salalah». Ma «non faremo più di quattro-cinque mostre l’anno», precisano i vertici. Calma, la Dolce Vita dell’arte contemporanea è solo cominciata.

•  arrivato Mr. Gagosian. Il Sole 24 Ore 16 dicembre 2007. Si dice che Larry Gagosian fosse un giovane audace. Dopo i suoi studi in arte, in California, capì anzitutto che gli era più congegnale venderla che farla. Si narra che per anni abbia girato tra ricchi collezionisti con fotografie di opere inarrivabili. Se allettava il potenziale compratore faceva di tutto per vendergli il lavoro. A quel punto scattava il piano acquisto e la medesima opera di seduzione: occorreva entrare in possesso dell’opera che aveva già venduto. Quelle sue prime mosse lo hanno portato dalla felice condizione del mercante che non ha galleria, quindi nemmeno spese, né opere né capitale immobilizzato, alla condizione ancor più felice di chi ha un mucchio di capitale mobile e immobile e, di gallerie, addirittura ne ha sette. L’ultima è nata a Roma in questi giorni. Naturalmente lo spazio scelto è fantastico: 750 metri quadri di sapore hollywoodiano proprio a Roma, una città dove anche le migliori gallerie d’arte contemporanea stanno dentro a garages, appartamenti e scantinati. Gli architetti chiamati a sistemare quella che era una banca sono Caruso e St. John, molto amati anche in area Tate Britain. Sfarzo anche a Roma, quindi, sebbene austero come vuole l’estetica del tutto-bianco. All’esterno il pubblico è accolto da un piccolo colonnato; all’interno si apre una sala da favola, un cuore ovale lungo 23 metri, largo 13 e alto 6. Per ora ospita delle grandi opere di Cy Twombly e non poteva esserci artista più azzeccato: un grande vecchio dell’arte internazionale, che ha saputo mantenere la qualità dai tempi dell’informale postbellico, ma anche un americano che ha scelto Roma come patria. Non rimane che chiedersi che impatto avrà sull’indolente mercato italiano l’arrivo di un asso pigliatutto come questo. Molto dipenderà da quale dei suoi programmi possibili Gagosian sceglierà per l’Italia. Nessun gallerista come lui, infatti, ha proposto al suo pubblico una scelta altrettanto vasta. Così come nessuno ha offerto mai a un artista la possibilità di fare parte di un determinato settore del mondo dell’arte. Gagosian li incarna tutti. La sua politica sembra infatti spiegare le teorie del sociologo Howard Becker sulla pluralità dei «mondi dell’arte»: non un unico circolo, ma molti e dispersi nel mondo, da chi ama i classici delle avanguardie storiche ai nostalgici della pittura neoespressionista, da chi rincorre la sperimentazione degli anni settanta a chi ama i video, le performance, le opere interattive dei nostri anni. La differenza di Gagosian rispetto ad altri galleristi è che lui, questi segmenti di cultura che sono anche segmenti di mercato, ha voluto appunto coprirli tutti. La ricetta del suo successo, paradossalmente, sembra stare in una grande umiltà: se ha dei gusti personali non si vedono. La prima mostra, nel 1985, la dedicò a una collezione già fatta, quella dei coniugi Tremaine. Fino al 1996 ha condiviso una galleria con Leo Castelli, al quale ha fatto da giovane di bottega che guarda e impara. Gli unici denominatori comuni degli artisti che rappresenta sono un curriculum inappuntabile, con grandi mostre e attenzioni dei critici più credibili, nonché la capacità di reggere mostre di grande impegno. Gagosian non si arrende davanti a nulla: lavora con sonori rompiscatole (pare che Rachel Whiteread lo sia), con artisti che concedono pochissimo della loro produzione (Richard Hamilton gli darebbe solo stampe), con giovani che pretendono produzioni costose, come Douglas Gordon e Piotr Ulkanski, ma anche con sempreverdi dagli estate complicati come Francis Bacon, Andy Warhol, Joseph Beuys (tra gli italiani ha scelto Francesco Vezzoli, Vanessa Beecroft e Alighiero Boetti). Come il grande Kahnweiler, il gallerista che aiutò Picasso, Gagosian ha la pazienza di aspettare che le opere arrivino da lui. Diversamente dal quel pioniere, l’americano non è un cane da tartufi: vuole per il suo elenco solo nomi che qualcun altro prima di lui ha già testato. Sapendo che una mostra da lui, una vendita milionaria, un suo cenno possono spostare le fortune di un artista in modo decisivo, quantomeno sul breve-medio termine: nessuno è esente dalle mode e nemmeno Larry, che sa condizionarle ma accetta anche qualche boomerang. Forse allora non è il gambler della leggenda. Audace sì, ma su una base sicura. Gioca su molti tavoli, primo e secondo mercato, ricompra oggi quello che ieri ha venduto, fa passare in un anno un artista dalla categoria giovani a quella dei classici. Tutte le vecchie regole nelle sue mani si sbriciolano e lui ne rifà di nuove. Artista o collezionista, chi viaggia con lui sta sul treno più potente del mondo. Ma non è più un’avventura. Angela Vettese Il personaggio Il gallerista americano di origine armena Larry Gagosian è nato nel 1945. Nel 1980 ha aperto a Los Angeles la sua prima galleria d’arte. Nell’85 apre a New York con la mostra della celebre collezione di Emily and Burton Tremaine. Fino al 1996, Larry Gagosian è stato co-titolare insieme al leggendario Leo Castelli, di una galleria a SoHo. Attualmente la Gagosian Gallery occupa uno spazio su Madison Avenue a New York e due gallerie a Chelsea disegnate da Richard Gluckman. Tra il 2000 e il 2004 ha aperto due spazi espostivi a Londra. Ultima nata: la galleria di Roma diretta da Pepi Marchetti Franchi.
• A Roma Gagosian divide la sinistra. Corriere della Sera 20 dicembre 2007. Larry Gagosian? «Un venditore d’auto usate. Non un mecenate. Se uno dice una cosa del genere scoppiano tutti a ridere. Ma da noi non è successo... Un furbacchione che sa fare bene i suoi affari... La sua mi sembra la classica attività di export-import di quelle che servivano al Kgb o alla Cia per coprirsi». Chiacchierando al telefono con Luca Mastrantonio de Il riformista, l’architetto e urbanista Massimiliano Fuksas ha offerto il meglio (per altri il peggio) della sua sperimentata capacità polemica. Ha preso di mira l’inaugurazione-evento della Gagosian Gallery romana in via Francesco Crispi di sabato 15 dicembre (pedonalizzazione della strada dietro piazza di Spagna decisa dal Comune, gran ricevimento per 400 «pochi intimi» a palazzo Barberini con il placet del ministero) per una mostra di tre inediti di Cy Twombly. Poi ha fatto fuoco: «Sono un garantista e non parlo dei processi per frode fiscale o altri presunti traffici poco chiari ». Nel suo bersaglio non c’era solo Larry Gagosian, ex socio del mitico Leo Castelli, titolare della scuderia più ricca dell’arte contemporanea del momento (Jeff Koons, Richard Serra, Damien Hirts, Anselm Kiefer, gli archivi di Willem De Kooning e Alberto Giacometti) sbarcato a Roma dopo essersi radicato a Los Angeles, New York e dal 1995 a Londra. Nel mirino c’era anche Francesco Rutelli, ministro per i Beni e le attività culturali. E anche Walter Veltroni, sindaco di Roma nonché leader del Partito democratico. La polemica potrebbe essere archiviata come una tra le tante che Roma produce. Ma stavolta c’è di mezzo un archi-star impegnato in mezzo mondo, amico personale e ascoltato consigliere di un sindaco di Roma con il quale ha appena inaugurato il 12 dicembre all’Eur l’immenso cantiere per la «Nuvola» fuksasiana, centro congressi che (parole proprio di Walter Veltroni pronunciate quel giorno) «sarà una delle opere più spettacolari dell’architettura contemporanea». Il perché dell’attacco è presto detto: il trattamento riservato a mister Gagosian, definito «un mecenate» proprio da Veltroni. «A Londra, Ken il rosso fa per Gagosian quello che ha fatto Veltroni? Non credo, non è molto british. E Rutelli, che si impegna tanto per recuperare in beni trafugati, sa chi è Gagosian? Cosa faceva prima e come ha fatto la sua fortuna?». La verità, assicura Fuksas, è che Gagosian è arrivato non per vendere ma per comprare l’arte italiana degli Anni ’50 e ’60, «un patrimonio ancora poco valorizzato, punterà su Manzoni, Fontana, Pino Pascali». L’ironica previsione dell’architetto («sia chiaro, stimo Rutelli e Veltroni che hanno fatto molto bene per questa città») è che Gagosian finisca tra poco come il famoso Marziano a Roma di Flaiano, «gli si offre un caffè a piazza del Popolo, una pacca sulle spalle e tutto è come prima». Secco no comment dall’universo Gagosian, come assicura Pepi Marchetti Franchi, direttrice dello spazio romano. Nessun commento da Veltroni. Nessun commento da Rutelli. Commenta invece con un pizzico di sarcasmo Achille Bonito Oliva, teorico della Transavanguardia che ha salutato con favore l’approdo di Gagosian: «Il sistema della cultura, quindi dell’arte come dell’architettura, è ormai globale. Non si capisce perché artisti e anche noti architetti italiani possano lavorare nel resto del mondo, e perché io stesso abbia potuto esportare la Transavanguardia e l’Arte Povera italiane negli Stati Uniti, e invece Gagosian non possa aprire uno spazio in Italia. Certi territori ormai sono fluidi e non possono essere difesi con una mentalità doganale ». E il caloroso benvenuto di Rutelli e di Veltroni? «Leggono nell’arrivo di Gagosian un indotto del mito della città. In fondo usano lo stesso sistema adottato dall’impero romano: trasformano tutti in Cives Romani». Ma non teme, Bonito Oliva, che Gagosian davvero faccia incetta di artisti italiani per poi rivenderli? «Cosa ci sarebbe di male? Dimostrerebbe pluralismo culturale. Non viene a imporre una cultura, come avvenne con la Pop Art. Se è per questo, già immagino gli altri artisti che Gagosian ricercherà: Alighiero Boetti, Gino de Dominicis, lo Schifano storico. Probabilmente Francesco Lo Savio. Ripeto: e allora?». Replica anche l’interessato, ovvero Fuksas: «Sono intervenuto perché un intellettuale ha il dovere di esprimere critiche alla società in cui vive. Ciò non vuol dire che abbia sempre ragione o che dica sempre cose perfette...». Ma non c’è contrasto tra la collaborazione urbanistica con Veltroni e l’attacco per Gagosian? «Non perderemo per questo la stima che ci lega, siamo due persone leali che apprezzano la sincerità e la schiettezza. Resto dell’avviso che chiudere via Crispi per l’apertura di una galleria privata, organizzare un ricevimento a palazzo Barberini sono cose che non si fanno. Parliamo di Gagosian, cioè di un mercante. Non della fondazione Guggenheim». Fuksas rinnova «stima e affetto per Veltroni e Rutelli che hanno reso Roma una città più dinamica e aperta al mondo ». Segue un messaggio: «Forse la mia polemica servirà a far riflettere sulla scarsa considerazione con cui trattiamo la nostra arte contemporanea. Perché Fontana non ha ancora un suo museo a Milano? ». La parola ora torna a Rutelli e al sindaco Moratti. E il circuito polemico si riapre. Non senza una degna conclusione: «Attenti, comunque, ai troppi venditori di pezzi di ricambio fasulli...». PAOLO CONTI