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 1999  luglio 19 Lunedì calendario

Forse è il primo delitto filosofico nella storia della criminologia, la prima volta in cui la lama affilata del ragionamento si trasforma nel ragionamento della lama affilata

• Forse è il primo delitto filosofico nella storia della criminologia, la prima volta in cui la lama affilata del ragionamento si trasforma nel ragionamento della lama affilata. Di certo Yan Chanfour, stimatissimo professore di inglese nel liceo di Lurcy-Lévis, una vita da primo della classe, ha ucciso, «con almeno venti coltellate» è il responso dell’autopsia, il suo amico e collega Sébastien Barot nel bel mezzo di una discussione di filosofia, una della tante conversazioni inafferrabili che i due si concedevano durante la notte, con l’aiuto di una bottiglia che, peraltro, non vuotavano mai, davanti al camino acceso, attorno a un tavolo di cucina, come due adolescenti tormentati dalle grandi domande: l’essere e il non essere, la malafede, la paura, la religione, la sofferenza. Yan, che oggi ha 28 anni, non sa spiegarsi perché e ai giudici della Corte d’Assise di Moulins, nella regione francese dell’Allier, ripete: «C’era un grande caos nella mia testa». I giudici cercano ancora un’altra strada che non trovano, inutilmente battono la pista del delitto per gelosia, perché Yan è sposato e Sébastien non lo era; senza esito vanno a caccia di debiti e cambiali. Alla fine dunque giudici e poliziotti tornano alla filosofia perché i soli contrasti tra i due amici - «due carissimi amici, affettuosi e pieni di premure l’uno verso l’altro» - erano appunto dialettici, complicati come il concetto di ”esserci” in Heidegger, sottili come la mente che secondo un proverbio francese «è un filo di capello».
• Yan, per esempio, che era sempre stato un ateo convinto, si era improvvisamente convertito. Il presidente della Corte, sospirando, gli ha chiesto: «A quale fede?». E lui: «A tutte le religioni». Neppure i periti, psicologi e psichiatri, capiscono bene, anche loro dibattono accanitamente l’uno con l’altro, perché la pazzia è un grande problema di filosofia come dimostra il famoso Elogio della pazzia. E poi sarebbe troppo facile per uno psichiatra dire che Yan è matto come direbbe chiunque di noi, anche se Yan non sembra per nulla matto, e non lo sembrava neppure nei mesi che precedettero il delitto quando, colpito da una leggera depressione, si fece vedere da uno psichiatra che gli diede qualche pillola e qualche pacca sulla spalla suggerendogli di divertirsi: «Vada a cavalcare, visto che le piace. Si distragga. Giovanotto, non ho difficoltà a dirle che lei è sano, più sano di me».
• Adesso il dottor Moreau spiega alla Corte che alle volte lo ha trovato matto e altre volte perfettamente normale: «Ha dei momenti di destrutturazione e dei momenti di grande organizzazione. Non avevo mai visto un caso come questo». E infatti prima d’ora nessuno aveva mai pensato al rasoio affilato di Erasmo come a un rasoio vero, a una lama che in qualsiasi momento può uscire dalla metafora e materializzarsi sul tavolo della cucina. Prima d’ora nessuno aveva ucciso un uomo perché la sua filosofia si era fatta «minacciosa, pericolosa, terribile come un serial killer».
• L’omicidio è avvenuto il 20 settembre del 1997 alle quattro e mezza del mattino nella bella casa di Yan e di sua moglie Fatou Gassama, a Coleuvre. Era stato Sébastien a chiedere a Yan di restare ancora un po’ a parlare con lui. La moglie di Yan dormiva mentre i due chiacchieravano «di tutto e di niente», come racconta l’assassino. Qualche considerazione sul «messia» che Sébastian pensa di essere, mentre Yan si considera piuttosto «un profeta», vale a dire «qualcuno che ha scoperto delle cose essenziali sulla vita e vuole condividerle con gli altri».
• Ma ecco che Yan cambia argomento: «Uno degli ostacoli principali alla felicità è la paura, in particolare la paura della morte contro la quale bisogna lottare». Ma Sébastien protesta e replica di non avere «paura della morte ma della malattia». E insiste: «Bisogna che tu abbia paura della malattia. Del resto non hai scelta perché l’essere umano ”è” la malattia». A queste parole Yan comincia a sentirsi male, crede di vedere un Sébastien che non conosce, si agita: «Ritrovavo nei suoi occhi lo stesso identico sguardo dei serial killer che mostrano in tv». Insomma, Yan dice a Sébastien: «Io non ho paura». Ma l’altro: «Tu menti, tu hai paura, e hai paura anche di me». La conversazione acquista velocità, diventa febbrile: «Io non ho paura di te». «Fai male a non avere paura di me». Racconta l’assassino: «Mentre gli dicevo di non avere paura di lui, in realtà tremavo. Vedevo gli occhi di Sébastien e poi vedevo il coltello che stava sul tavolo, accanto alla sua mano. Pensavo che l’avrebbe preso, ”sentivo” che voleva usarlo contro di me. E allora l’ho preso io...». Venti colpi. Il primo contro la paura dei suoi occhi, il secondo contro la malattia, e poi, fino a venti: contro la depressione, contro il non essere, contro la stanchezza... Due ore dopo Yan si costituiva: «C’è un grande caos nella mia testa».