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 2004  luglio 04 Domenica calendario

Biografia di Eugenio Torelli-Viollier

• Anche se non mancarono i soliti incidenti, persone travolte dai carri e nobili che si sfidavano a duello dopo avere esagerato negli scherzi, il carnevale del 1876 a Milano fu meno fastoso di quelli precedenti. La giunta comunale aveva ridotto il sussidio per le luminarie e le corse dei cavalli. Il passivo del bilancio era passato da 36 a 43 milioni nell’ultimo biennio, e, come si espresse il consiglio, «tali feste carnevalesche non sono più in consonanza coi tempi moderni». I festeggiamenti si protrassero come sempre fino alla mattina della prima domenica di quaresima, tra le strade fitte di folla mascherata. Nel tardo pomeriggio la città, dopo essersi riposata della baldoria, si riversò nei caffè e per le vie. Si accesero i lampioni a gas e alle nove gli strilloni cominciarono a spargere nell’aria il nome di un nuovo giornale, il Corriere della Sera. Coloro che strapparono le copie dalle mani degli strilloni, prevedendo qualche infuocata polemica politica, restarono delusi. «Pubblico – si leggeva nella dichiarazione d’intenti del giornale – voglio parlarti chiaro. In diciassette anni di regime liberale tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci più gabbare dalle frasi. Sai leggere tra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle solenni declamazioni d’altri tempi (...). Noi dunque lasciamo da parte la retorica, e veniamo a parlarti chiaro. Noi siamo conservatori. Un tempo non sarebbe stato politico, per un giornale, principiar così. Il Pungolo non osava confessarsi conservatore (...). Ora dice apertamente: ”Siamo moderati, siamo conservatori”. Anche noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto, perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità, la libertà, l’ordine».
• Il programma, che dopo un esordio rassicurante prometteva di non lesinare critiche al governo, non era firmato ma l’autore era certamente Eugenio Torelli-Viollier. Nato nel 1842 a Napoli, era un napoletano atipico. Chiuso, scontroso, biondo, permaloso, privo di senso dell’umorismo, ex garibaldino e dunque antiborbonico, il direttore della nuova testata era figlio di secondo letto di Francesco Torelli e di Giuseppina Viollier, francese. Il padre, avvocato benestante, era un letterato della scuola di Basilio Puoti, condiscepolo del patriota Luigi Settembrini e di Francesco De Sanctis. Favorevole all’indipendenza del Regno delle Due Sicilie, sia pure in un contesto di riforme, cospirò alla vigilia del 1848 con Paolo Emilio Imbriani nel gruppo dei liberali capeggiato da Paolo Bozzelli che compilerà la costituzione di breve durata concessa il 10 febbraio di quell’anno da Ferdinando II. Quando il Bozzelli fu nominato ministro degli Affari interni, chiamò l’avvocato a dirigere un dipartimento del ministero. Morì nel 1850. Poco dopo la moglie lo seguì nella tomba lasciando orfani Eugenio, Titta e Carlo. Vennero affidati a Luisa, figlia di primo letto di Francesco che aveva un modesto istituto elementare. Prediligeva Eugenio, ma l’educazione che poté offrirgli non andò oltre una superficiale infarinatura di materie che vanno dal francese alla matematica alla declamazione.
• Quando il ragazzo aveva 18 anni, Francesco II, succeduto a Ferdinando II, fu costretto a concedere la costituzione. E furono richiamati gli uomini del breve governo del 1848 o, se non erano disponibili, i figli. Eugenio fu nominato ”alunno” (impiegato in prova) al ministero dove aveva lavorato il padre. Ma non seppe della nomina. Si era dato alla macchia nell’avellinese. Arruolato nei cacciatori irpini, volontari che operavano al fianco di Garibaldi, partecipò col grado di sottotenente alla repressione delle sollevazioni filoborboniche e alla proclamazione del governo provvisorio nazionale a Benevento. Tornato a Napoli, prese possesso, il 3 gennaio 1861, dell’impiego che gli era stato conferito cinque mesi prima e di cui ignorava la nomina. Assente giustificato, percepì gli stipendi arretrati, rimase in servizio qualche settimana e quando furono soppressi i ministeri a Napoli rifiutò il trasferimento a Torino. Alexandre Dumas padre lo accolse come redattore dell’Indipendente, quotidiano che usciva dal 1860 e veniva considerato il suo romanzo quotidiano. Così esordì nel giornalismo Eugenio Torelli-Viollier. Di Dumas, disse che raccoglieva in sé le doti dei tre moschettieri messi insieme. Di Torelli-Viollier, Dumas disse che non gli avrebbe mai fatto mancare il suo calore d’inverno e la sua ombra d’estate. Il sodalizio durò quattro anni. Il ragazzo aggiunse al cognome paterno quello francese della madre, Viollier, mossa che gli garantì il passaporto con cui seguì a Parigi il proprio scopritore giornalistico. Ma di fare il negro o il semplice segretario non gli andava. E quando Edoardo Sonzogno, editore dell’Illustrazione Universale, alla quale Torelli-Viollier mandava corrispondenze da Parigi, gli propose un lavoro a Milano, non ci pensò su. A Milano lavorò per vari giornali dello stesso editore, dall’Illustrazione Universale all’Emporio Pittoresco al Secolo, non disdegnando servizi sensazionali come un volo in mongolfiera con R. G. Wells che fece scalpore. A disagio per le posizioni sinistreggianti e fortemente repubblicane del gruppo, passò al Corriere di Milano di Emilio Treves, triestino, liberale e monarchico. Ma quando il Corriere di Milano si fuse col Pungolo di Leone Fortis, rimase disoccupato dalla fine dal 1874 al 1875. Senza soldi si nutrì unicamente di maccheroni. Un ozio forzato in cui rafforzò la tendenza a vivere in isolamento e covò l’idea del nuovo giornale. Il periodo di inattività finì quando Torelli-Viollier riuscì a inserirsi nelle trattative per la nomina del direttore de La Lombardia, giornale importante nel panorama della stampa della regione. Dopo una serie di trattative al caffè Gnocchi, ottenne il posto che gli permise di entrare in un giro di persone importanti per la fondazione del Corriere della Sera.
• Milano si fregiava del titolo di capitale morale, conferitogli da un altro napoletano, direttore de La Perseveranza dal 1866 al 1874, Ruggero Bonghi. Soprattutto era la capitale della cultura. Le iniziative editoriali fervevano, solide e ben ponderate non estemporanee come a Roma. La Scala e Verdi davano il primato musicale. Una decina di teatri quello drammaturgico. Caffè, osterie e ristoranti erano i cenacoli delle nuove tendenze letterarie come la scapigliatura. Glorie del passato erano ancora in circolazione come il nonagenario pittore Francesco Hayez. L’analfabetismo, la cui media nazionale era del 68 per cento, scendeva a Milano al 45. La popolazione, in dieci anni, passò da 300 a 400 mila. Gli stabilimenti industriali non trovavano più spazio nella cerchia dei Navigli e sorgevano fuori porta contendendo il terreno ai contadini. Le osterie, gran parte delle quali con alloggio, erano ben 600 a testimonianza di un ingente flusso migratorio. Trecentocinquanta opere pie provvedevano ai diseredati. Un esercito di questurini combatteva la mala. Anche politicamente la situazione era favorevole. Non esistevano risentimenti antipiemontesi. I conservatori erano in numero minore che altrove. La classe operaia era divisa tra socialisti, anarchici e repubblicani. Ritrovava unità solo nei grandi scioperi per le vertenze salariali. L’arcivescovo, monsignor Luigi Nazari, era conciliatorista e moderato. I partiti non esistevano su scala nazionale. C’erano cellule, nelle maggiori città italiane, prive di strutture di collegamento. Non si concepiva attività di militanza che prescindesse dai giornali. Una serie di condizioni propizie alla nascita di un nuovo quotidiano. Ma ne esistevano già otto per una tiratura corrispondente a un terzo di quella nazionale che era pari a 500 mila copie. Contando anche i periodici, si stampavano, nel 1873, a Milano 137 testate contro le 109 di Roma, le 107 di Firenze e le 85 di Torino. L’arte fotografica si andava perfezionando. Illustratori e disegnatori accorrevano dal resto del Paese.
• Come poteva il Corriere della Sera farsi spazio tra tutte queste testate? I presupposti per una destra moderata si crearono alla fine del 1875. La destra aveva i giorni contati. In quindici anni di gestione del potere, la questione meridionale era irrisolta, il brigantaggio incalzava, la classe politica era senza ricambio. Si preparava l’epoca del trasformismo. Vittorio Emanuele II non temeva la sinistra al governo e accennava di rompere gli indugi. L’avvicendamento veniva accolto come una opportunità a patto che non sconvolgesse l’ordine costituito. La linea politica moderata di Torelli-Viollier era adatta per affrontare la situazione. Nel giro di pochi mesi il direttore de La Lombardia trovò tre soci disposti a investire in un progetto che desse voce alla destra liberale. Il deputato Riccardo Pavesi, classe 1849, avvocato lodigiano di agiata famiglia, neoproprietario de La Lombardia, fu il primo. Uscì subito ma fu lui a trovare gli altri due finanziatori, Riccardo Bonetti e Pio Morbio, entrambi avvocati. entrambi avvocati. Bonetti entrò nel progetto solo per dare una mano a Pavesi. Morbio, novarese, figlio dello storico e archeologo Carlo, lascerà invece traccia di sé. Nel febbraio del 1876 i quattro si misero all’opera. Il capitale necessario alla partenza era di 100 mila lire. I proventi dovevano venire dalle vendite, perché la pubblicità giocava un ruolo marginale. Fu escluso il ricorso al fondo ministeriale per la stampa, detto dei rettili. Invece della somma stabilita si riuscì a mettere insieme 30 mila lire. Torelli Viollier non diede un centesimo. Per il nome il campo era libero. C’era già stato un Corriere della Sera a Torino, dieci anni prima, ma non era durato molto. Torelli Viollier aveva il titolo di direttore e non firmava il giornale. In quel periodo la responsabilità delle testate, incombenza che poteva portare facilmente in carcere, era affidata a un gerente, un uomo di paglia disposto a sacrificarsi. La scelta cadde sull’oscuro Fortunato Gervasio. Forse uno dei finanziatori, Pio Morbio, non fu reclutato da Pavesi ma da Torelli Viollier stesso. Il direttore aveva sposato una ex istitutrice di Novara, città da cui proveniva Morbio. Si chiamava Maria Antonietta Torriani, era famosa come scrittrice e per la sua bellezza. Con lo pseudonimo di Marchesa Colombi firmò una cinquantina di romanzi, tutti con intenti educativi. Croce scrisse che «qualche volta riuscì semplice e commovente». Intraprendente, forte e disinvolta fu trattata con ostilità dalla cognata, Luisa Torelli, che non aveva simpatia per le donne emancipate. Ne fece le spese il sistema nervoso della moglie del direttore. La donna sospettava una simpatia tra il marito e una giovane nipote in vacanza a Milano e scoppiò una scenata di gelosia. Per la vergogna la ragazzina si buttò dalla finestra. Due anni dopo l’uscita del primo numero, nel 1878, Torelli Viollier si separò dalla moglie. Per qualche mese andò a stare da solo, con un cane, nella villa Passalacqua di Montrasio, sul lago di Como. Non avrà più alcuna compagna. Un altro suicidio segnò gli esordi del Corriere della Sera. La sede scelta doveva essere di prestigio anche se di dimensioni ridotte vista la scarsità di mezzi economici. Fu scelto un ammezzato in Galleria Vittorio Emanuele, due passi dal Duomo. Il nuovo giornale fece in tempo a intervenire nella polemica tra l’architetto Giuseppe Mengoni, progettista della galleria che sosteneva la necessità di variare il piano originale dell’arco, e coloro che criticavano le modifiche considerandole fronzoli inutili. Mentre poneva l’ultimo fregio, Mengoni, il 30 dicembre 1877, cadde dalla cima dell’arco. Molti ritengono si sia suicidato. Torrelli Viollier ottenne che sulla targa che lo ricordava venissero menzionate le circostanze della morte. Fu la prima battaglia vinta dal Corriere della Sera.
• Tornando alla preparazione del primo numero, per far quadrare i conti fu designato un amministratore, non remunerato, Titta Torelli, fratello di Eugenio. Il giornale non disponeva di una tipografia propria. Nella adiacente via Marino, Enrico Reggiani aveva una stamperia sotterranea. Molto sospettoso, in cambio di salatissimi anticipi accettò di comporre il giornale. Un barattolo di latta legato a una cordicella serviva a calare gli articoli e le bozze dalla redazione alla tipografia e viceversa. Una macchina Marinoni, antiquata anche per l’epoca, stampava 4000 fogli all’ora, 8000 pagine. Fu necessario assumere un fattorino che portasse a piedi i pacchi dei giornali da piazza della Scala, dove sboccava la tipografia, alla stazione (allora si trovava in quella che oggi è piazza della Repubblica) e alle librerie-edicole. Si reclutò qualche strillone. C’era il problema dei redattori. Torelli-Viollier svolgeva il grosso del lavoro, il taglia e cuci di dispacci, notizie vecchie di due tre giorni per l’Italia, dieci quindici per l’estero. Come corrispondente dalla capitale si offrì gratis Vincenzo Labanca, conterraneo e amico del direttore. Il primo redattore assunto fu Raffaello Barbera, veneto che fino a pochi giorni prima aveva fatto l’impiegato al comune di Venezia e covava ambizioni letterarie. «Quando arrivai a Milano – ricorda Barbera – il Torelli-Viollier era fermo alla stazione ad aspettarmi; mi baciò e mi abbracciò: primo e ultimo abbraccio. Benché nato nella terra del Vesuvio, egli era uomo chiuso, compassato, gelido». Il secondo redattore assunto fu il livornese Ettore Teodori Buini. Poliglotta e colto, dopo una gioventù salgariana si mise con entusiasmo al lavoro di cucina del giornale. Come disse Torelli-Viollier, «si inebriava per il profumo di inchiostro e si incupiva per un punto e virgola sbagliato». La figlia, Luciana, assunta come impiegata sarà la prima donna dipendente del Corriere della Sera. Terzo e ultimo redattore, Giacomo Raimondi, unico milanese del gruppo. Soprannominato Passerin, afflitto da tisi dall’infanzia, già incaricato da Garibaldi di missioni di fiducia, fu divulgatore in Italia della teorie di Manchester e si occupò della parte economica del giornale. Sempre creduto a un passo dalla morte, se ne andrà nel 1917, a 77 anni, dopo un quarto di secolo al Corriere della Sera. Per il primo numero, che recava la data 5-6 marzo 1876, erano già state spese 23 mila delle 30 mila a disposizione a fronte di 15 mila copie vendute e 500 abbonamenti. Una copia costava 5 centesimi, 7 fuori città. Entro lunedì mattina tutta la tiratura andò esaurita. La curiosità che andava attirando su di sé in quelle ore di postumi dei bagordi carnevaleschi si doveva all’attesa che il quotidiano di quattro pagine aveva creato, alle prese in giro da parte della concorrenza sul nome crepuscolare della testata, e al fatto che usciva in un giorno in cui solitamente non c’erano giornali, a parte l’Indipendente, edito dal Pio istituto tipografico, i cui introiti andavano agli stampatori. Il Corriere della Sera approfittò della circostanza. Per non inimicarsi i tipografi il ricavato delle vendite del primo numero, 700 lire, fu devoluto al Pio istituto. I quattro fogli recavano cronache di carnevale, la dichiarazione programmatica di cui abbiamo riportato qualche estratto, alcuni dispacci, la narrazione di un episodio di avvelenamento, avvenuto nel 1617, per mano di Caterina Medica ai danni di un patrizio, e una spigolatura sulle piante carnivore.