Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 novembre 2016
Semplice caso o preoccupante fatalità? L’arrivo nei cinema a metà dello scorso settembre de Il Pianeta delle Scimmie di Tim Burton, è stato preceduto da una pubblicazione scientifica tanto originale quanto inquietante
• Semplice caso o preoccupante fatalità? L’arrivo nei cinema a metà dello scorso settembre de Il Pianeta delle Scimmie di Tim Burton, è stato preceduto da una pubblicazione scientifica tanto originale quanto inquietante. Poco più di un mese prima ”Science”, la più prestigiosa rivista scientifica statunitense, rivelava che in un cervello di scimmia potevano svilupparsi cellule umane! Più precisamente: l’équipe coordinata da Evan Snyder, presso la Scuola di Medicina di Harvard a Boston, era riuscita trapiantare e a far crescere cellule staminali nervose umane nel cervello di tre macachi.Come è stato possibile portare a termine un’operazione che sembra uscita proprio da una pellicola di fantascienza? In questo modo: i ricercatori americani hanno iniettato circa 20 milioni di cellule nervose umane in una regione del cervello delle scimmie molto simile a quella dalla quale erano state prelevate qualche giorno prima. L’iniezione è stata somministrata ai macachi mentre si trovavano ancora nel ventre materno, a poche settimane della nascita.
• Il fatto sorprendente è che le cellule umane impiantate nel cervello delle scimmie non solo sono sopravvissute, ma si sono addirittura differenziate ed evolute proprio come se appartenessero al nuovo tessuto! Snyder e i suoi hanno soppresso i piccoli macachi subito dopo la nascita per andare a vedere che cos’era successo nei loro cervelli. Hanno allora constatato che, a cinque settimane dall’impianto, gran parte delle cellule umane si era perfettamente integrata nel cervello delle scimmie. Non solo: molte di esse avevano camminato parecchio nel tessuto nervoso. In media intorno a 1,6 cm. Vi sembra poco? Provate a pensare che per ognuna di queste cellule uno spostamento del genere significa coprire un percorso pari a 1600 volte il proprio diametro.
I risultati innovativi descritti dagli americani hanno suscitato molte riflessioni sulla nostra storia evolutiva, ma anche tante nuove speranze terapeutiche. «L’eccitazione è comprensibile» spiega Evan Snyder, «perché nei prossimi anni i trapianti di cellule nervose potrebbero diventare molto comuni, e se è vero che le conoscenze vanno ancora affinate, non è affatto remoto pensare di poter operare addirittura nell’utero materno. Magari per trapiantare cellule sane nel cervello di un feto al quale è stata diagnosticata una malattia molto grave». Nella stessa pubblicazione apparsa su ”Science” i ricercatori ipotizzavano infatti un intervento del genere per la sindrome di Tay Sachs, una malattia di origine genetica che provoca lesioni cerebrali molto gravi e rapidamente mortali nel neonato.
• Quello di Snyder è un successo notevole, ma non è un esperimento isolato. I primati, a noi vicinissimi sulla scala evolutiva, sono da tempo utilizzati come modello della biologia umana. Esistono già da diversi mesi scimpanzè transgenici, «umanizzati» perché portatori di geni umani. Al punto che, astronavi a parte, certi personaggi de Il Pianeta dele Scimmie rischiano di non sembrare poi così fantascientifici. Lo scopo non è però quello di creare una nuova specie di scimmie più intelligenti, ma di studiare il funzionamento dei geni o di eseguire esperimenti improponibili sull’uomo. Ma soprattutto, queste chimere dimostrano la fragilità delle barriere biologiche tra specie. Il DNA del nostro genoma è stato interamente sequenziato e manca poco al completamento delle sequenze di quelli del macaco e dello scimpanzé. ormai assodato che condividono almeno il 98,4% del nostro codice genetico.
• «Quel margine di differenza dell’1,6% nei genomi non deve creare false speranze» avverte Paolo Menozzi, Professore di ecologia all’Università di Parma «perché non vi troveremo mai la spiegazione di cosa ci fa uomini». Il numero dei geni umani, fino a pochi anni fa stimato intorno a 100.000, potrebbe infatti non superare i 30.000. Sarebbe quindi ridotta di molto l’importanza delle caratteristiche genetiche e invece aumentata quella dell’ambiente in cui cresciamo. «Esperimenti come quello di Snyder sono molto interessanti» continua Menozzi, «e di grande valore per capire il funzionamento e la crescita delle cellule staminali nervose, che è indubbiamente molto simile nelle due specie. Il nostro antenato comune risale però a qualcosa come 5-10 milioni di anni fa e le differenze tra il nostro cervello e quello di un primate sono ormai profondissime». La diversità tra uomo e scimmia sembra in realtà un delicato cocktail di codici genetici e stimoli ambientali. La genetica sembrerebbe favorire l’uomo rispetto alla scimmia. Sono infatti i nostri geni a fornirci un cervello più grande con regioni del linguaggio più sviluppate. Queste, situate nei lobi frontali, sono invece praticamente assenti nelle scimmie. Ma anche l’ambiente conta: se un bambino non vive in una famiglia e non viene esposto quotidianamente all’uso delle parole nei primi anni di vita, quasi certamente non imparerà più a parlare.
Niente paura però: per quanto geneticamente talmente simili da poter ingannare le nostre stesse cellule e farle crescere nel cervello di una scimmia, le differenze tra le specie rimangono fondamentali. I piccoli di scimpanzé che sono stati allevati da famiglie umane si sono dimostrati ben più svegli e rapidi di un bebè nell’assimilare nuove parole per tutti i primi tre anni di vita. Ma in seguito non hanno più manifestato curiosità di fronte alle parole. La più spiccata caratteristica della nostra specie sembra allora questa: una vera e propria passione per il linguaggio che ci accompagna da migliaia di anni.
• Ai è una femmina di scimpanzé di venticinque anni nata e cresciuta nell’Istituto di primatologia dell’Università di Kyoto in Giappone. Un soggiorno che l’ha resa molto diversa dai suoi simili, tanto da meritarle l’onore delle pagine di ”Nature”, la rivista scientifica più importante del mondo. Nulla di strano: Ai sa riconoscere i numeri da zero a nove, associarli alle quantità giuste e ordinarli. Questa matematica un po’ troppo pelosa è anche in grado di distinguere la maggior parte delle lettere dell’alfabeto latino e diversi ideogrammi giapponesi.
Che le grandi scimmie avessero familiarità con colori, forme e taglie lo si sapeva da una trentina d’anni, ma questa è la prova che sanno anche pianificare e memorizzare concetti astratti. Ai può inoltre imparare e riconoscere una sequenza di numeri fino a cinque cifre. «Come un bambino dell’asilo, se non meglio!» precisano i suoi insegnanti.
• Nel cervello umano sono molte le regioni coinvolte nell’articolazione del pensiero, ma linguaggio e parole sono prodotte soprattutto dall’area di Broca, situata nel lobo frontale sinistro (1). L’area di Wernicke (2), è invece coinvolta soprattutto nel riconoscimento e nella comprensione del linguaggio. I lobi frontali dei primati hanno una superficie molto meno sviluppata rispetto a quelli umani e l’area di Broca è praticamente assente.