Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 12 febbraio 2001
Se si espunge dalla storia, com’è necessario e doveroso in simili casi, la straziante realtà, dolore, disperazione, umana abiezione, se si guarda soltanto alla superficie narrativa del mistero, non c’è dubbio che si tratti di un mistero di buon livello, nonché forse del genere di mistero preferito dai lettori
• Se si espunge dalla storia, com’è necessario e doveroso in simili casi, la straziante realtà, dolore, disperazione, umana abiezione, se si guarda soltanto alla superficie narrativa del mistero, non c’è dubbio che si tratti di un mistero di buon livello, nonché forse del genere di mistero preferito dai lettori. Perché va osservato anzitutto che questa è una storia da leggere, non da seguire in tv, dove poche immagini ricorrono pressoché uguali da un giorno all’altro. Non è senza significato che molti quotidiani abbiano fatto ricorso alle piantine schematiche in uso ai tempi di John Dickson Carr e dei suoi delitti ”della camera chiusa”: il vestibolo, la porta-finestra, la terrazza, lo strapiombo... Badate, questo è un ”giallo”, sembrano suggerire, anche se l’eccitante colore si applica oggi a qualsiasi cosa, una pallonata in faccia all’arbitro, un mancato incontro tra due sottosegretari.
• E tutta l’ambientazione è prepotentemente ”d’epoca”, a cominciare dalla villa con le sue trentasei stanze e i suoi settantamila metri di parco. Fu fatta costruire nell’Ottocento da lord Carnavon, famoso per essere stato il primo a metter piede, o profanare, la tomba di Tutankamen; e come fondale è già di un ricco spessore semantico, sepolcro, mummia, maledizione, Boris Karloff... Senza contare che anni dopo una nipote del profanatore precipitò in mare da quella stessa scogliera di Portofino. Portofino era del resto praticamente obbligatoria, unica o quasi superstite della Liguria anglosvernante ormai subissata da condomini, autostrade, industrie, locuste in pensione. Pochi anni fa, sulla riviera di Ponente, nei temperati ex incanti tra Bordighera e Ventimiglia lasciò il suo segno terrorizzante Donato Bilancia, un serial-killer simbolo dei tempi nuovi, brutali e folli. Il mistero di Portofino si può vedere come una risposta della riviera di Levante: ecco, qui da noi il vecchio stile resiste, è ancora in grado di produrre rompicapi tradizionali, enigmi con signore dalla chioma rossa che scompaiono, eredità miliardarie, giardinieri (tre) e un maggiordomo sia pure polacco e descritto come non proprio all’altezza del suo altisonante nome professionale. E così è anche per gli altri personaggi del dramma: non proprio all’altezza di Poirot, ma senz’altro alla portata di Marlowe e dei suoi californiani ricchissimi e viziati e sempre un rien viscidi.
• La vittima non poteva non essere una contessa, vedova di un conte senza antenati alle Crociate, nobilitato per meriti industriali, con un cognome che nessuno sembra sapere come vada pronunciato, àgusta, o agùsta. Fabbricava e piazzava elicotteri in mezzo mondo, si presume di buona qualità, e bussava alla porta dei possibili acquirenti in compagnia di un vero principe di stirpe reale, Vittorio Emanuele di Savoia, prezioso per i ”contatti”. Ma qui si apre un subplot nella direzione piuttosto di Le Carré, ci furono scandali politici, tangenti, ricatti, l’omicidio di un eminente socialista belga. Il conte nel frattempo incontra la bellissima indossatrice (secondo altri commessa di boutique). vedovo, ha un figlio di primo letto, e si innamora irresistibilmente di questa creatura incendiaria, estroversa, spiritosa, sboccata, esuberante in tutto. Sempre libera degg’io: l’incarnazione della vitalità spensierata e instancabile di Violetta e delle demi-mondaines registrate in ogni tempo e in ogni tipo di società abbiente. «Il minor difetto di una donna galante», scriveva La Rochefoucauld, «è di essere galante», con ciò alludendo agli eccessi non dentro ma fuori dall’alcova che di solito le si accompagnano, troppo belletto, troppi vestiti, voce troppa alta, troppi capricci, ospiti, viaggi, scenate, troppo feu au derrière.
• Il conte la sposò, ne fu gelosissimo, la lasciò dopo una decina d’anni che possiamo immaginare ”divertenti” (per chi ama il genere) ma tempestosi. Non ci fu divorzio. La villa di Portofino andò a lei, oltre a varie altre cospicue proprietà in luoghi canonicamente ”di sogno”, tra i quali si intuisce anche qualche paradiso di fiscale splendore. La bella vita che segue ha una coloritura letteraria ancora diversa, prevale Balzac con le sue movimentate ambizioni e illusioni, le miserie, gli intrighi, le rapacità, le connessioni politiche e finanziarie, l’arrivo dei gendarmi, le favolose eredità contese. Craxi e il suo ”tesoro” vero o virtuale, il frenetico andirivieni di miliardi su conti svizzeri, ora turgidi ora pelle e ossa come le vittime di Dracula, e gli ordini di cattura, la beffa della fuga in Messico sotto il naso degli inquirenti. E laggiù, sotto il vulcano, altra villa ”di sogno”, altri giardinieri e domestici e l’amore con Raggio, figlio di un celebrato ristoratore di Portofino, celebrato a sua volta per l’abilità con cui si muove nei più disparati sottoboschi. Un salvatore? Un profittatore? Il romanziere non può scegliere, ha solo il compito di rilevare luci e ombre dei suoi personaggi e sia poi il lettore a decidere. Il che vale naturalmente anche per l’ultimo amante della contessa, il messicano Tito, un play-boy di ambiente discount, messo sullo scaffale per far numero, per complicare la scena, insieme alla giovane Susanna, ex commessa ed ora dama di compagnia dell’agitata nobildonna. Qui allora si passa a Sartre e al suo ”A porte chiuse”, tre dannati che escono di rado dalla gabbia arredata da Mongiardino e passano il tempo a far cosa? Nessuno dei giornalisti inviati sul campo ha potuto metter piede all’interno, non si sa se i tre leggessero e che cosa, probabilmente niente: guardavano la tv, le cassette, giocavano a rubamazzo, bevevano, subivano le sfuriate della contessa.
• La contessa è invecchiata, sfiorita, la sua gloria è tramontata per sempre e lei lo sa. Ha già tentato il suicidio in Messico due o tre volte. Beve, prende psicofarmaci, forse si droga. Ha improvvise euforie, crisi depressive abissali, passa di stanza in stanza in silenzio o scoppiando in lacrime o in confuse recriminazioni. una donna fragilissima e disperata, che telefona molto, si chiude a volte in un armadio col cellulare, rinfaccia tutto a tutti, invoca la morte, minaccia di farla finita, nessuno la sa o la può confortare. Siamo alla contessa Anna Karenina (morfinomane, ai tempi libertari dello zar), a quelle sue ultime ore erratiche e monologanti in cui ogni minima cosa, persona, foglia, gelato, le appare insopportabilmente orrendo. Tolstoj addirittura? Ma nessuno come lui ha rappresentato la corsa mentale verso il suicidio, un convulso inabissamento di pari tragicità a Mosca o a Portofino, sotto un treno o ai piedi di una scogliera.
• La contessa italiana esce in giardino urlando e sbattendo la persiana (che poi gli altri due non riescono ad aprire) e scompare in accappatoio e pantofole. Cominciano le ricerche, partono le ipotesi, tra le quali manca l’ipotesi di omicidio. La villa non viene perciò sequestrata, la scientifica non piomba fulminea sul luogo dell’eventuale delitto. Si fruga giù per il dirupo, si spezzano rami e rametti, si calpestano impronte, indizi, si favoleggia di un veliero nero che avrebbe raccolto la fuggiasca portandola chissà dove. Raggio, che è stato il primo ad avvisare i carabinieri (da Miami, e da dove sennò) arriva in volo, è sconvolto, accusa di inettitudine il messicano e la dama di compagnia, ma non manca di consultarsi con gli avvocati a proposito del testamento, dei vari testamenti. Viene ritrovato l’accappatoio con uno squarcio sulla schiena: scoglio o pugnale? Poi saltano fuori le ciabatte scompagnate e si continua a cercare nelle grotte sottomarine sotto il dirupo. Pochi accennano alle correnti, che intanto fanno la loro strada silenziosa per quattrocento chilometri. Quando un cadavere di donna viene ritrovato nei pressi di St. Tropez, nessuno degli inquirenti francesi (Maigret era in ferie, settimana bianca) lo collega alla contessa italiana, passano otto giorni prima che qualcuno glielo suggerisca. Comincia una guerra tra procure, anatomopatologi, polizie dei due Paesi, ministeri. Ma ormai non c’è più niente da fare per la lente di Sherlock Holmes, il cadavere è divorato dai pesci, la villa è stata ripulita da mastro lindo. Restano e resteranno per sempre sospese sulla scogliera le libere congetture di chiunque. La donna fuori di sé, barcollante sul sentiero, uno scivolone, la disgrazia; la donna attesa da un killer professionista tra lecci e pitosfori, una botta in testa, una spinta, l’omicidio; la donna perduta in un suo logorroico, bruciante rifiuto del mondo, un salto a capofitto, il suicidio. E l’eredità? Se ne saprà qualcosa, mai fino in fondo. Il ”caso” tornerà periodicamente sui giornali, affioreranno testimoni inverosimili, lettere smarrite, indagatori dilettanti di fervida fantasia. Nei mesi estivi, quando non succede niente, la contessa entrerà a far parte della silly season, la stagione delle notizie tenute su con lo scotch. Ci saranno ricostruzioni televisive, libri, forse un film, destinati comunque a deludere. Molti pretenderanno di raccontare ”La verità su Francesca”, ricostruire ”Il puzzle della contessa”. Per alcuni anni. Poi verrà lasciata riposare nella sua buia, insondabile pace.