Libero, 11 novembre 2016
I sondaggi sbagliano solo se sono manipolati
Qualcosa non torna nella storia dei sondaggisti d’America che avrebbero, tutti quanti e all’unisono, preso una cantonata tremenda: a poche ore dal voto, dopo una campagna elettorale durata quattordici mesi, ancora davano Hillary Clinton vincente all’85%. Quand’è contenuto in qualche punto, l’errore statistico rientra nei rischi del mestiere, ma il margine con il quale Donald Trump s’è assicurato la presidenza degli Stati Uniti è di straordinaria ampiezza: i suffragi a suo vantaggio si contano a milioni. Com’è stato possibile che siano sfuggiti a ogni rilevazione? Le giustificazioni addotte a fatto compiuto non convincono. Chi intendeva votare per il candidato repubblicano, ci hanno detto, si vergognava di ammetterlo; una moltitudine d’indecisi l’avrebbe scelto all’ultimo minuto, quando ormai era tardi per tenerne conto; se non bastasse, ecco la categoria, quanto mai nebulosa, dell’America profonda, a tal punto inabissata nei meandri della sociologia da apparire insondabile nei suoi umori e pulsioni, ovviamente riprovevoli. Bazzecole, quisquilie e pinzillacchere, come avrebbe sentenziato Totò: il sistema dell’informazione ha finto di dar loro credito per non correre il rischio di affrontare il problema.
Oggi le indagini demoscopiche hanno raggiunto un livello di affidabilità elevato, grazie all’impiego di complessi modelli per l’elaborazione dei dati. A maneggiarli con competenza è gente molto preparata, che di solito non si muove nell’incerto territorio della politica, ma aiuta le grandi aziende ad affinare le proprie strategie di mercato. Svarioni come quelli commessi nelle presidenziali americane non sarebbero tollerati: addio clienti e fallimento assicurato. Sappiamo d’altra parte che i sondaggi elettorali, pur svolgendo una funzione conoscitiva, costituiscono un potente strumento per influenzare il consenso, al punto che da noi la legge vieta di diffonderli nell’imminenza del voto. Un candidato che si presume in vantaggio si rafforza a scapito dell’avversario, i cui sostenitori meno motivati saranno indotti a non appoggiare un perdente: funziona, o meglio dovrebbe funzionare in questo modo. Peccato che gli americani non si siano lasciati abbindolare.
Visto come sono andate le cose, non è da irriducibili complottisti sospettare che i committenti delle rilevazioni intendessero tirare la volata alla Clinton e che, in ogni caso, non volessero sentirsi dire che le loro speranze erano malriposte. La stampa liberal, stile New York Times o Washington Post, non avrebbe certo accolto con entusiasmo previsioni favorevoli al «fascist pig», come stava scritto su alcuni cartelli agitati dai democratici che, in difesa della democrazia, hanno manifestato in molte grandi città degli Stai Uniti.
Chi paga il direttore decide che cosa suona l’orchestra: i sondaggisti, forti della loro esperienza, potrebbero aver pilotato i metodi d’indagine affinché garantissero l’esito richiesto. Non si può dire che abbiano mentito; piuttosto, hanno modificato il punto di vista. Chissà mai che ingigantendo a dismisura un’illusione si possa tradurla in realtà: ci aveva già provato l’establishment inglese con la Brexit, salvo poi fingere sconcerto per il risultato.