Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 23 gennaio 2005
Il 13 febbraio 1861, con la presa di Gaeta da parte dell’esercito sabaudo, ebbe fine il Regno delle Due Sicilie, dopo circa 730 anni di vita
• Il 13 febbraio 1861, con la presa di Gaeta da parte dell’esercito sabaudo, ebbe fine il Regno delle Due Sicilie, dopo circa 730 anni di vita. La conquista del Meridione era avvenuta attraverso una vera guerra civile, in cui due mondi si erano contrapposti. Se da un lato latifondisti, gentiluomini e soprattutto l’alta gerarchia militare erano facilmente passati dalla parte del più forte, corrotti da promesse mai mantenute, il popolo e l’esercito fedele al re borbone non avevano nessuna voglia di essere liberati. Anzi, reagirono contro quelli che furono considerati, da subito, degli invasori.
Se abbiamo sempre saputo che il Regno delle Due Sicilie si presentò all’appuntamento con l’unità nazionale in uno stato di miseria diffusa e di oppressione, un’altra storia ci racconta che il Sud rappresentava per il Piemonte un bocconcino decisamente prelibato.
Lo Stato piemontese versava, allora, in una situazione di enorme debito pubblico causato dalle tre guerre espansionistiche combattute in dieci anni. Le sue riserve auree garantivano solo un terzo della moneta circolante, mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d’oro e d’argento oltre alle ”fedi di credito” e alle ”polizze notate”, i primi assegni bancari della storia economica, alle quali corrispondeva l’esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie. Lo stesso oro, attraverso provvedimenti successivi quali la legge sul corso forzoso, sarebbe passato nelle casse piemontesi.
Secondo questa storia, infatti, nel 1861, 668 milioni di lire in oro avevano contribuito alla formazione del tesoro italiano: di questi, 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie e solo 8 alla Lombardia. E non finisce qui.
• I primati del sud. Vale la pena, quindi, dare un’occhiata a un’altra storia, molto lontana da quella che abbiamo sempre conosciuto e per la quale l’aggettivo ”borbonico” è diventato sinonimo di oppressivo, antiquato, esoso e improduttivo.
Le ferrovie fecero la loro prima apparizione a Napoli, quando ancora erano sconosciute al resto d’Italia, nell’ottobre 1839 con la realizzazione della tratta Napoli-Portici. Nel 1840 fu fondato lo stabilimento di Pietrarsa, destinato alla costruzione di locomotive con materiale fornito dall’Inghilterra. Era il più importante stabilimento industriale di tutta la penisola, con 1000 operai.
Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico, primi in Italia. Il teatro San Carlo fu costruito in 270 giorni e lo seguirono l’Officina dei papiri, il Museo archeologico, l’Orto botanico, l’Osservatorio astronomico e, primo al mondo, l’Osservatorio sismologico vesuviano.
La navigazione si sviluppò tanto che il governo borbonico fu il primo in Italia a promulgare il Codice marittimo, creando una rete di fari su tutta la costa. Qui fu realizzato il primo vascello a vapore del Mediterraneo e il primo al mondo a navigare per mare aperto, il Francesco I.
Il primo ponte sospeso in ferro d’Italia fu costruito dai Borbone nel 1832 sul Garigliano. Carlo III, che intuì l’importanza turistica di Pompei, fondò l’Accademia di Ercolano, dando inizio agli scavi. Furono istituiti collegi militari come la Nunziatella, accademie culturali, scuole di arti e mestieri. La prima cattedra di economia politica al mondo fu creata con Antonio Genovesi nel 1754.
Nella rassegna internazionale di Parigi del 1856 il Regno vinse il terzo premio in Europa come sviluppo industriale, dopo Inghilterra e Francia. La rendita di Stato era quotata alla Borsa di Parigi al 120 per cento. Casse agrarie e monti frumentari fornivano mutui a interesse quasi nullo. Gli operai del Regno furono i primi a usufruire di una pensione statale, dacché fu istituito un sistema pensionistico, che prevedeva una ritenuta del 2 per cento sugli stipendi.
Dal censimento del 1861 si deduce che al momento dell’Unità il Regno impiegava nell’industria il 51 per cento della forza lavoro italiana. Secondo l’Annuario statistico italiano, edito a Torino, nel 1864 il Regno borbonico produceva tra il 50 per cento e il 100 per cento dei principali prodotti agricoli nazionali.
• Incivili beduini. In un quadro del genere è difficile non credere a chi sostiene che la resistenza ci fu e pure pesante. Ma chi resisteva veniva sconfitto e quindi imprigionato.
Sempre questa storia ci racconta che furono distrutti 51 paesi, tra i quali Casalduni e Pontelandolfo. Gli abitanti del Sud anche nei rapporti ufficiali venivano definiti «incivili beduini». Massimo d’Azeglio scriveva che «unirsi ai Napoletani è come andare a letto con un lebbroso».
Qualche dubbio sullo svolgimento dei fatti sorge anche dalla lettura delle poche voci che si levarono. Napoleone III da Vichy scriveva al generale Fleury: «Ho scritto a Torino le mie rimostranze. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli e indegni sono considerati normali espedienti: un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borbone non hanno mai fatto cose simili».
Il deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861 affermò: «Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala». Il 18 aprile 1863 il deputato Miceli, che aveva visto massacri di truppe in Calabria, dichiarava che gli uomini venivano fucilati senza processo.
• Fenestrelle e San Maurizio. Ma un bel problema che i piemontesi si trovarono a affrontare da subito fu la gestione dei soldati vinti: 1700 ufficiali e 24.000 soldati, come riportava il 26 gennaio 1861 il giornale L’Armonia. E a questa data non avevano capitolato ancora Gaeta, Civitella del Tronto e Messina.
Del resto l’esercito napoletano nel maggio 1860 contava circa 97.000 uomini e nel dicembre dello stesso anno non esisteva più. Pare che solo un 2 per cento si fosse arruolato nel nuovo esercito. E una parte aveva disertato. Ma tutti gli altri? Erano stati imprigionati.
Una prima e provvisoria sistemazione fu effettuata nelle carceri e nei Depositi generali del napoletano. Ma già alla fine del 1860 era stata avviata la seconda fase del piano, che prevedeva l’internamento dei prigionieri al Nord, onde evitare il contatto con le popolazioni locali devote ai Borbone. Il proclama di addio che il re aveva lanciato da Gaeta il 14 febbraio 1861 aveva complicato ulteriormente le cose, suscitando nuovi entusiasmi e generando illusioni: «Non vi dico addio, ma a rivederci; serbatemi intatta la lealtà come eternamente vi serberà gratitudine e amore il vostro re Francesco».
I prigionieri venivano stipati nelle navi e inviati a Genova dove, oltre che a Alessandria, erano stati organizzati i più importanti depositi di raccolta. Da qui venivano poi smistati nei veri campi di concentramento, sostanzialmente due: Fenestrelle e San Maurizio.
La stampa del tempo faceva continui riferimenti a queste spedizioni: «In Italia, o meglio negli Stati sardi esiste proprio la tratta dei Napoletani. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati, vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Finestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento tra le ghiacciaie!», si legge su Civiltà Cattolica.
I prigionieri erano oggetto di maltrattamenti e di ludibrio: «Quasi tutti i prigionieri sono unanimi a dichiarare che furono derubati ed insultati in ogni paese, e non pure dalla marmaglia delle popolazioni, ma ben’anco dagli ufficiali e soldati del Piemonte».
• Come in Siberia. Ai borbonici fu assegnata la prigione di Fenestrelle, che «in quei tempi tanto spaventava in Italia, quanto suol farlo nelle parti settentrionali d’Europa la rilegazione in Siberia», scriveva il Cardinale di Pio VII, monsignore Pacca, che vi fu rinchiuso da Napoleone per tre anni.
Situata a duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi coperte di neve per buona parte dell’anno, la costruzione di Fenestrelle fu iniziata da Vittorio Amedeo di Savoia all’inizio del Settecento. Qui gli ufficiali, i sottufficiali e i soldati borbonici, che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo e che si dichiararono apertamente fedeli al re Francesco II, subirono il trattamento più feroce. È l’unico campo cui fanno esplicito riferimento anche le proteste ufficiali del governo borbonico in esilio.
I prigionieri non si volevano arrendere all’evidenza della conquista piemontese. L’11 gennaio 1861 Il Popolo d’Italia scriveva: «Essi non vogliono essere de’ nostri, si gloriano di essere militi di Francesco II per cui solo intendono spargere il sangue; opporranno forza alla forza».
Furono infiniti gli episodi di fughe, congiure e ribellioni. Il 22 agosto del 1861 i detenuti organizzarono una rivolta per impadronirsi della fortezza, ma il tentativo fu sventato e ebbe come conseguenza l’inasprimento delle pene, palle al piede da 16 chili, ceppi e catene. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Le condizioni di vita erano durissime. Si racconta che anche i più forti non sopravvivessero per più di tre mesi, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. I morti venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del forte. All’entrata su un muro l’iscrizione sinistra: «Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce».
• Migliaia di deportati. Il campo di San Maurizio, presso Torino, non era da meno. Fu destinato a raccogliere e rieducare i militari richiamati forzosamente alle armi con la leva obbligatoria del 20 dicembre 1860. Con questo decreto si volevano recuperare tutti gli uomini delle province napoletane che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell’esercito borbonico.
Fu un fallimento: se ne presentarono 20.000 su 72.000. Furono organizzate battute di rastrellamento ovunque per catturare coloro che si erano dati alla macchia e vennero deportati tutti i maschi tra i 20 e i 25 anni.
Altre migliaia di prigionieri furono confinati a Capraia, Giglio, Elba, Ponza, Sardegna e nella Maremma malarica. Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili, capitolati a Gaeta e detenuti a Ponza, scrissero a Biagio Cognetti, direttore di Stampa Meridionale, per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto. Erano già trascorsi 8 mesi.
Di loro parlò anche Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, in Parlamento: «Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro re sventurato, e rilegarli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte... Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?».
• La profezia di Franceschiello.
Anche Milano aveva un suo campo di prigionia. Così scriveva Cavour al luogotenente Farini: «Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano», ammettendo l’esistenza di un altro campo di prigionia lì situato per ospitare soldati napoletani.
Questa la risposta di La Marmora: «Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia... e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di carogne che avessimo trovato modo di metterli alla ragione. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al più presto».
Sulla Gazzetta di Gaeta che riprendeva alcune notizie della Gazzetta di Milano si leggeva: «Quei poveri soldati sono abbandonati sulla paglia in corridoi aperti ad ogni vento, nei loro abiti d’estate, senza avere di coprirsi e sfamarsi. Fu loro conceduto una misera coperta, in cui si sono avvolti giorno e notte per ripararsi dal freddo in un paese ove il clima è così diverso dal loro natio».
Nel 1862 la situazione per il governo italiano era di difficile gestione. Tentò di trovare una soluzione finale al problema dei prigionieri. Trattò con il governo portoghese la concessione di un’isola disabitata dell’Oceano Atlantico per poterli relegare lì, così come l’Inghilterra aveva fatto in Australia. La richiesta fu rifiutata. Ci riprovò anni dopo con il governo argentino. Nulla da fare.
L’emigrazione, che da lì a poco avrebbe visto il Sud grande protagonista, in parte risolse il problema in modo ”naturale”. Ma questa è un’altra storia ancora.
L’Italia, dunque, era fatta. Più o meno. O forse di Italie ce n’erano e ce ne saranno sempre due, almeno. Con passato diverso, cultura diversa e storie diverse.
Di sicuro, che la si veda in un modo oppure nell’altro, aveva ragione Francesco II, «Franceschiello», quando, salpando per Gaeta il 6 settembre 1860, aveva profetizzato «ai napoletani rimarranno solo gli occhi per piangere».