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 2004  agosto 15 Domenica calendario

Un anno senza andare in villeggiatura! Che direbbero di me a Montenero? Che direbbero di me a Livorno? Non avrei più ardire di mirar in faccia nessuno»

• Un anno senza andare in villeggiatura! Che direbbero di me a Montenero? Che direbbero di me a Livorno? Non avrei più ardire di mirar in faccia nessuno». la preoccupazione di Giacinta, vivace e arguta fanciulla che anima Le smanie per la villeggiatura. E quella di Goldoni non è un’esagerazione letteraria. Da tempo viaggiatori e pellegrini calpestano in lungo e in largo le strade più o meno sconnesse d’Italia, ma mai come in pieno diciottesimo secolo l’andare altrove diventa una mania. A averne di più, di queste smanie, è la borghesia cittadina, soprattutto quella che si arricchisce col commercio. Quella che magari, nel corso degli anni, è pure riuscita a ottenere un agognato titolo nobiliare. Quella che non pensa al viaggio come un’esperienza quasi mistica, ma molto più prosaicamente desidera un’allegra villeggiatura, una spensierata permanenza nella ”villa” che aveva potuto comprarsi, o costruirsi, in campagna. La storia che Goldoni ci narra è ambientata a Livorno, ma senza dubbio il commediografo doveva aver negli occhi personaggi a lui familiari, mercanti veneziani che viaggiavano verso le coltivazioni dell’entroterra già a partire dal Milletrecento. Nella raffinata Repubblica di Venezia tutto era cominciato quando il Maggior Consiglio, nel 1345, aveva abrogato il divieto che proibiva ai cittadini della Serenissima l’acquisto di terreni in terraferma. I patrizi comprarono e i campi produssero. I riti dell’agricoltura e gli interessi economici a essa legati meritavano d’essere seguiti di persona: fu dunque necessario costruire delle ville. Le splendide dimore venete spesso sorgono ai lati dei fiumi, in particolare il Brenta, via fluviale stesa tra Venezia e Padova. Nel giro di qualche anno le ville-luogo di interessi economici e finanziari lasciano il posto alle ville-luogo di delizia e, manco a dirlo, di villeggiatura. Così per gran parte del Settecento il Brenta fa da scenografia all’incedere lento dei burchielli, le imbarcazioni a fondo piatto trascinate da buoi e cavalli che s’affaticano sulla riva. Con il loro carico di variopinta umanità attraversano il secolo, fino a quando la fine della Repubblica non spinge a più cupi pensieri e piano piano la dolce vita veneta si spegne. Comunque prima che finisca tutto, ci sono decenni di spasso e sperpero da godersi. Tanto più che chi va in villeggiatura ci resta a lungo, anche tre mesi di seguito, fino all’autunno inoltrato, fino a quando non cade l’ultima foglia. Ai più anziani tutto questo non piace: loro in passato ci andavano per le due raccolte principali dell’anno, la mietitura (tra metà giugno e luglio) e la vendemmia (settembre), e si fermano in villa solo il tempo necessario a sbrigare le faccende. Ma andiamo anche noi, proviamo a metterci in viaggio, lasciamoci prendere dalla Smania per le villeggiature e, come è necessario fare ogni volta che si vuole andar via, prepariamo i nostri bagagli. Lo stare nelle ville è soprattutto sfoggio: uomini e donne fanno a gara per mostrare l’ultimo capo, per questo è bene mettere nei bauli da viaggio qualcosa alla moda, oppure farsi ammodernare dal sarto un abito vecchio.
• cosa mettere in valigia Per aggiornarsi sulle novità, le fanciulle guardano alla Francia. L’abbigliamento del Settecento è piuttosto complesso, soprattutto quello delle dame: le intelaiature di osso di balena che gonfiano le gonne sono sostituite da sottogonne e balze di pizzo non meno ingombranti e costose, l’allacciatura del corsetto si sposta sulla schiena. Può tornare utile portare delle mantelle: le più belle sono in taffettà rosa o bianco. Per l’uomo, i pantaloni vanno al ginocchio e devono essere coordinati con le calze. Le code della giacca sono rivoltate sui lati e tenute ferme da bottoni. Una vera raffinatezza sono le scarpe con la fibbia. Un gentiluomo non deve dimenticare il cappello a tricorno, da portare sottobraccio visto che l’ingombro delle parrucche è tale da impedire di calzarlo in testa. Pochi bagni in vacanza L’abbigliamento non è solo vanità, è pure una questione di igiene. duro a morire il sospetto che l’acqua dilati i pori e faccia entrare nell’organismo batteri e quindi malattie. Perciò si ricorre a quella che viene chiamata ”pulizia asciutta”. Ce la spiegano due personaggi goldoniani nelle Avventure della villeggiatura. Vittoria: «Mi piace andare ben vestita. Ogni stagione mi piace farmi qualcosa di nuovo. Tutti hanno la loro passione. Io ho quella di vestir bene e di vestire alla moda». Le risponde Ferdinando: «La pulizia certamente è quella che fa distinguere le persone». Insomma, per stare puliti basta cambiarsi. E l’abitudine della scarsa igiene ha sostenitori piuttosto illustri, dal momento che addirittura Luigi XIV nei sessantaquattro anni (tra il 1647 e il 1711) in cui fu controllato da tre medici che annotavano ogni giorno il suo stato di salute, fece il bagno una volta sola, mentre di solito si limitava a pulire il viso passandoci un panno imbevuto di alcool etilico. Non era il solo, visto che si racconta del fetore che emanava dalle sontuose stanze di Versailles. Ma l’acqua è pericolosa pure per la morale: nel 1768 il filosofo Diderot proibiva alla figlia ogni abluzione totale per tenerla lontana dalle tentazioni del vizio.
• molti i flirt L’abbigliamento è forse innanzitutto uno strumento di seduzione, ci si scambia messaggi in codice e ci si dà appuntamento nel segreto dei giardini anche tenendo il ventaglio in un modo piuttosto che in un altro. In tanto frusciar di stoffe non è difficile immaginare i volteggi di Casanova o anche, più modestamente, di uno dei tanti cavalieri serventi da cui le dame si lasciano accompagnare. In realtà il cavalier servente, che tutti chiamano cicisbeo, non dovrebbe approfittare delle grazie della donna su cui è chiamato a vegliare. Non è lecito per una signora comparire in pubblico se non ”servita” da qualche uomo, che non deve essere il marito: in teoria a questo serve il cicisbeo, a vegliare sulla dama e niente più. Al cavalier servente si chiede che sappia anche conversare dottamente, soprattutto intorno alle scienze di cui tutti a quel tempo sono curiosi. A tal proposito, il divulgatore Francesco Algarotti scrive un trattato di matematica per donne intitolato Newtonianismo per dame. Il suo intento è quello di consentire alle signore di reggere la conversazione in salotto se questa fosse caduta sulle ultime scoperte scientifiche. Manuale di conversazione Algarotti, convinto che fosse l’unica strada per penetrare il cervello femminile, mette in scena un dialogo galante tra una marchesa e il suo cicisbeo. Per mostrare che l’attrazione gravitazionale è proporzionale all’inverso del quadrato della distanza, il cicisbeo diceva: «Io credo che anco nell’Amore si serbi questa proporzione de’ quadrati delle distanze de’ luoghi, o più tosto de’ tempi. Così dopo otto giorni di assenza, l’amore è divenuto sessanta quattro volte minore di quel che fosse nel primo giorno». Dalla conversazione nascono pure i giochi di società: è il caso della sciarada. L’etimologia ne svela l’origine, deriva infatti dal provenzale ”charrado”, ”chiacchiera”, ”conversazione”.
• la dieta L’ospite perfetto, dunque, sa dir facezie e tenere alto il morale della compagnia. E gradisce le raffinatezze della tavola. Perciò nei bauli da viaggio devono entrare anche le ghiottonerie, come il caffè e il cacao, che è una delle bevande più gradite (il cioccolato solido è un’invenzione del secolo successivo). Il cacao come sempre mette d’accordo un po’ tutti: per dire, nello stesso secolo Linneo lo classifica con il nome scientifico di Theobroma cacao (laddove Theobroma significa cibo degli dei), Giuseppe Parini gli dedica dei versi (S’oggi ti giova/ porger dolci allo stomaco fomenti/ sì che con legge il natural calore/ v’arda temprato, e al digerire ti vaglia/ scegli il brun cioccolatte), Voltaire lo usa per concentrarsi. Non è da meno il caffè, che serve anche per fare società: le cose magiche piacciono molto e va di moda trascorrere qualche ora del pomeriggio guardando i fondi nelle tazzine da cui trarre pronostici di vario tipo. Le carestie segnano il secolo e gli italiani scoprono le patate che vengono chiamate ”tartufi bianchi” da usare come base per l’impasto del pane e degli gnocchi, ma sulle tavole dei villeggianti trionfano le salse, come la besciamella e la maionese (arrivate dalla Francia, proprio come l’ultimo vestito), i ragù e le gelatine. Le esagerazioni imperversano e nelle sue teorizzazioni sul gusto uno dei maggiori gastronomi del tempo, Anthelme Brillat-Savarin, scrive: «La scoperta d’un nuovo manicaretto giova all’umanità più che la scoperta d’una nuova stella».
• unica paura la noia Quello che più sta a cuore a questi allegri festaioli del Settecento è non rimaner preda della malinconia, appannaggio della solitudine e della vecchiaia. Contro la noia ogni fatuité è ammessa. Le compagnie si spostano di villa in villa, rumorose, e si tira tardi ballando. E giocando d’azzardo. Il nobile e scrittore milanese Pietro Verri ci dice che l’abilità nel gioco dovrebbe essere contemplata nelle qualità proprie delle fanciulle di buona famiglia, dovrebbe far parte della loro educazione. Difficile dubitare che tale raccomandazione pedagogica sia stata più fedelmente seguita nel corso dei secoli. Nel Settecento è ancora Venezia a registrare un primato: si dice che sia la capitale del gioco tanto che a un certo punto, nel 1774, il senato della città è costretto a proibirlo perché sono davvero troppe le famiglie che si sono trascinate nel fallimento sfidando la sorte sul tavolo da gioco. Ma nelle ville tutto sembra permesso: di pomeriggio le compagnie si siedono attorno ai tavoli e fanno l’alba con le carte in mano. Lasciamo ancora una volta la parola a Goldoni e al suo personaggio, Leonardo, che rivolto al servitore intento a preparare i bauli lo comanda: «Fate che vi sia il bisogno di carte da giuoco con quel che può occorrere per sei o sette tavolini, e soprattutto che non manchino le candele di cera». Tra i giochi più amati in tutta Europa c’è il faraone, che tanto piace a Casanova, il quale nelle sue Memorie lo descrive con minuzia. Proibito oggi come allora, il faraone è un gioco di sola fortuna, dove l’abilità non c’entra nulla. Si gioca con due mazzi completi di carte francesi. Ogni giocatore pesca una o più carte e su ciascuna punta una somma. Il banco estrae due carte: una per sé, l’altra per i giocatori (chiamata carta inglese). Se le due carte sono uguali, il banco vince tutto; altrimenti si prende le puntate di tutti i giocatori che hanno carte uguali alla sua mentre paga quelle che hanno lo stesso valore della carta inglese. Le partite si susseguono a una velocità paragonabile a quella del moderno Bingo. Casanova spiega che l’unico modo per vincere è accordarsi con chi tiene banco, ammesso che sia un baro professionista. Un altro gioco che va per la maggiore è il biribissi, una specie di lotteria dove si estraggono delle palline di legno da un sacco. Così facendo mucchi di zecchini si trasferiscono da un paio di mani all’altro.
• quando la villeggiatura è una rovina Facendo pochi semplici calcoli è subito evidente che la villeggiatura può essere fatale per le ricchezze di una famiglia, per quanto esse siano solide e consistenti: comperare abiti, cibi e spezie, candele, l’occorrente per imbandire tavolate su tavolate (sempre molto frequentate, perché gli scrocconi non mancano mai). A tutto ciò si sommino le inevitabili perdite al gioco. Sintetizza Goldoni, per bocca di Ferdinando: «Spendono più di quello che possono, e consumano in un mese a Montenero quello che basterebbe loro un anno in Livorno». Poi arrivò la storia a decretare che tutto ciò non sarebbe potuto durare oltre, che non c’erano più i soldi e il tanto tempo libero da impegnare. Si sarebbe dovuto aspettare quasi due secoli perché le vacanze si trasformassero in un fenomeno popolare, con tutto il corollario di stabilimenti balneari, delle mezze pensioni, dell’abbronzatura, delle code in autostrada e delle valigie sul tetto dell’utilitaria. Sicuramente tutto meno raffinato, forse pure massificato, ma di certo più democratico e meno costoso. daria egidi
• Gli inglesi scoprirono il mare (nostrum) Chi avrebbe potuto sospettare che l’amore per la vacanza al mare poggiasse sulla scienza medica? Eppure è così. L’Italia è terra di amabili spiagge, ma a capire che il mare fa bene sono per primi gli inglesi: nel 1750 Robert Russel pubblica De tabe glandulari, sive de usu aquae marinae in morbis glandularum. Da allora in poi è un fiorire di medicamenti marini: fa bene l’acqua, fa bene l’aria salmastra, fa bene nuotare. Nell’Ottocento se ne convincono pure gli studiosi italiani, ma di sicuro i lavoratori delle saline di Cervia da tempo immemorabile s’immergevano fiduciosi nelle acque salse. Nel giro di pochi anni si inaugurano parecchi stabilimenti balneari: il primo a Trieste (1823), poi Viareggio (1825) e Venezia (1833). Nella mitica Rimini si aprono i battenti nel 1843. E mentre i nostri aristocratici crapulavano nelle ville, già da metà Settecento, Brighton e Biarritz accoglievano la società bene d’Europa in vacanza sul mare.  ancora una straniera colei che per prima organizzerà una vacanza sul mare d’Italia: si tratta dell’anglosassone Elisabeth Kenneis, moglie del marchese romano Giuseppe Rondanini, la quale nel 1790 stette quindici giorni a Rimini per "attuffarsi nell’acqua di mare", come dicono le cronache del tempo. La donna era abituata a far parlare di sé: corporatura slanciata, capelli rossi, a Roma aveva uno stuolo di spasimanti. Eppure nel 1784, poco più che ventenne, aveva sposato il marchese che aveva quarant’anni più di lei. Comunque solo per gli italiani i bagni di mare erano roba da originaloni: che cosa avrebbero pensato i più interdetti se avessero visto nel 1789 re Giorgio III d’Inghilterra tuffarsi nelle acque di Brighton sulle note della canzone ”God Save great George our King”, intonata da una banda musicale nascosta in una ”macchina per bagno” trainata da cavalli (di simili ce n’erano in molte spiagge del nord)?