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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Perché i porci non hanno le ali



Ci sono due parti nella teoria darwiniana dell’evoluzione. Una è la filogenesi, la storia ormai familiare delle nostre origini. L’altra è la teoria della selezione naturale, che vuol caratterizzare non solo il meccanismo della formazione delle specie, ma tutti i cambiamenti evolutivi delle proprietà innate degli organismi. Secondo tale teoria, il fenotipo di una creatura – l’inventario delle caratteristiche ereditabili, e addirittura di quelle mentali – è un adattamento alle esigenze delle sue circostanze ecologiche. L’adattamento è il nome del processo con il quale, tra le creature di una data popolazione, le variabili ambientali selezionano quelle con le proprietà ereditabili più favorevoli ( fit) alla sopravvivenza e alla riproduzione. Così, la selezione ambientale per la fitness è il processo per eccellenza che pota l’albero dell’evoluzione. Nella versione darwiniana classica, si può dire che l’evoluzione risponde alla domanda «perché certi fenotipi si somigliano più di altri?». A grandi linee, per Darwin la somiglianza derivava da antenati comuni: più sono simili i fenotipi di due creature e più recente è l’ultimo antenato condiviso da entrambe. Esistono esempi isolati del contrario, ma non c’è dubbio che in sostanza ciò sia corretto. Alla domanda di Darwin, si può rispondere con la risposta di Darwin. Se invece chiedete perché certi fenotipi non compaiono mai, la spiegazione adattazionista oscilla spesso tra l’improbabile e l’assurdo. Per esempio nessuno, nemmeno l’adattazionista più sfegatato, spiegherebbe l’assenza di maiali con le ali dicendo che sebbene ce ne fosse stato qualcuno, le ali erano un intralcio tale che la natura le ha selezionate via. Nessuno si aspetta di trovare fossili di una specie di maiali volanti ormai estinta. Il fatto è che i maiali non hanno le ali perché sui maiali non c’è un posto dove metterle. Per poterle attaccare bisognerebbe ricostruire tutto l’animale, più leggero, con i muscoli e il metabolismo giusto, un sistema di navigazione in tre dimensioni, una forma aerodinamica e sa dio cos’altro. Senza dimenticare le penne. Il maiale andrebbe riprogettato da cima a fondo. La selezione naturale non ce la potrebbe fare, perché procede per incrementi e accumulo in un processo intrinsecamente conservatore. Una volta che la creatura è avviata sulla strada che porta al maiale, le scelte successive si riducono e il retrofit delle penne diventa impossibile. A prima vista ciò appare ragionevole. Però quell’avviamento (detto channeling) pone dei vincoli su quanto i fenotipi possono evolvere che la selezione naturale non spiega. I maiali non sono stati privati delle ali da una selezione negativa. Non le hanno mai avute. Quanti casi simili ci sono? Quante volte un fenotipo contiene informazioni non sull’ambiente di una creatura, bensì su aspetti della sua struttura endogena? Nessuno lo sa. Gli ambienti esterni sono strutturati nei modi più diversi, ma anche l’interno delle creature che ci abitano. In linea di principio, qui c’è un’alternativa all’idea di Darwin, secondo la quale i fenotipi «contengono informazioni implicite» sull’ambiente in cui evolvono, ed è quella che contengano informazioni implicite sulla struttura delle creature di cui sono i fenotipi. Tale idea va sotto l’infelice nomignolo di evo-devo (la teoria evoluzionistica dello sviluppo embrionale). Se ora pensiamo all’evoluzione nell’ottica del maiale con le ali, i meccanismi per costruire fenotipi diventano parecchi ed eterogenei. questa la differenza rilevante tra l’evo-devo e l’adattazionismo. Per i darwinisti, nell’evoluzione la selezione naturale ha il ruolo principale, anche se non proprio esclusivo. Invece è impensabile che il channeling da solo spieghi la struttura dei fenotipi. Semmai farebbe parte degli svariati meccanismi con i quali un fenotipo esprime una struttura endogena, e l’insieme di tali meccanismi potrebbe spiegare alcuni (molti? tutti?) fatti dell’evoluzione. Se, come credo, l’idea di selezione naturale è concettualmente sbagliata, alternative simili sarebbero certamente benvenute. Un altro processo, diverso sia dall’addatamento che dal channeling, sembra spiegare alcuni fatti (piuttosto singolari) della formazione dei fenotipi. L’ipotesi di partenza fu così riassunta da Lyumidla Trut nel 1999: «Poiché il comportamento è radicato nella biologia, selezionare per la docilità significa selezionare per cambiamenti fisiologici nei sistemi che regolano ormoni e sostanze neurochimiche. A loro volta, tali cambiamenti potrebbero avere effetti cospicui sullo sviluppo degli animali, e spiegare perché animali diversi rispondono allo stesso modo alle stesse pressioni selettive». Ci sarebbe quindi da aspettarsi una galassia di caratteri fenotipici endogenicamente legati alla docilità, i quali approfittano della sua selezione per scroccare un passaggio e coevolvere, anche se hanno poca o nessuna influenza sulla fitness. Un’evoluzione in assenza di adattamento, insomma, con effetti simili in creature molto diverse. L’esperimento per verificarlo ha richiesto 40 anni di incroci fra individui docili per 30 generazioni di volpi argentate. I risultati sono impressionanti. Diversamente dalle cugine selvatiche, le volpi allevate per la docilità tendono anche a condividere altri caratteri fenotipici come orecchie cascanti, muda bruna, peli grigi, coda corta e riccia, gambe corte e pelliccia pezzata. Sono tutti tratti che anche altri animali domestici quali cani, gatti, capre e mucche tendono ad avere. A un adattazionista verrà da chiedersi che cosa ci sia mai in cani e gatti per cui una coda riccia ne migliora la fitness in un’ecologia di addomesticamento. A quanto pare la risposta è "niente". La coda riccia non accresce la fitness, è solo collegata alla docilità e selezionando per quest’ultima la si ottiene volenti o nolenti. Gli effetti secondari sul fenotipo sembrano del tutto arbitrari. E soprattutto non sembrano adattamenti: non esiste alcuna spiegazione teleologica (una qualsiasi spiegazione in termini di fitness) per la tendenza alle orecchie cascanti degli animali domestici. Può darsi che il channeling e la coevoluzione di caratteri secondari siano fortuiti e che i determinanti evoluzionistici della struttura fenotipica siano in gran parte, se non tutti, esogeni. può darsi che i paleontologi scoprano maiali fossili con le ali, anche se non ci scommetterei. Qual è la morale di tutto ciò? La più immediata è che il classico resoconto darwinista di un’evoluzione dovuta innanzitutto alla selezione naturale è nei guai sul piano sia concettuale che empirico. Ma c’è una seconda morale e riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti di questa scienza. Dopo Darwin, sono proliferate le teorie che volevano cooptare ai propri fini la selezione naturale. Oggi è la psicologia evoluzionistica, ma ci sono esempi a iosa in quasi tutte le scienze comportamentali, in epistemologia, teologia, storia della filosofia, etica, sociologia, teoria politica, eugenetica ed estetica. Tutte tentano di spiegare perché siamo così e cosà e perché il così e cosà è un vantaggio per noi o per i nostri noi antenati. «Ci piace raccontare storie, perché questo esercita l’immaginazione la quale avrebbe a sua volta avantaggiato un cacciatore-raccoglitore». «Disapproviamo che si mangi la nonna perché nell’ecologia del cacciatore-raccoglitore conveniva tenerla come baby-sitter». Trovate versioni di queste e altre teorie simili negli scritti degli adattazionisti. Non le sto inventando. Ma non tutti i nostri caratteri hanno una spiegazione strumentale. Ci capita di averli semplicemente per il tipo di creature che siamo. Inutile dirlo forse, ma quelle spiegazioni sono sostanzialmente post-hoc, e se non s’ammantassero del prestigio della teoria della selezione naturale, non ci sarebbe motivo di ritenerle vere. L’alta marea dell’adattazionismo teneva a galla barche variopinte, ma forse si sta ritirando. Se si scopre che la selezione naturale non è il motore dell’evoluzione, quelle barche finiranno per incagliarsi e ci appariranno un po’ ridicole. La storia della scienza insegna che le migliori teorie di oggi risulteranno più o meno false domani pomeriggio al più tardi. Nella scienza come altrove, non conviene mai puntare tutto su un cavallo solo. Jerry Fodor
• Quante vertebre ha il collo della giraffa? Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Secondo Lamarck la giraffa era un esempio perfetto per spiegare gli effetti del prolungato uso di un organo. La lunghezza del collo era il risultato degli sforzi continui di generazioni di giraffe per raggiungere le alte fronde delle acacie. Darwin, si sa, ne diede invece una spiegazione basata sulla selezione naturale: gli individui che mano a mano producevano colli più lunghi avevano maggiori possibilità di sopravvivere e di riprodursi, trasmettendo il carattere alla discendenza. Sono cose che si leggono su tutti i manuali. Ma poniamoci un’altra domanda. Quante vertebre ha il collo della giraffa? Di più o di meno dell’uomo o degli altri mammiferi? la domanda che permette alla giraffa di mantenere oggi il suo ruolo di icona biologica, in quanto protagonista dell’ultima rivoluzione nelle scienze della vita come lo fu della prima: la sintesi dell’evo-devo, la biologia evoluzionistica dello sviluppo embrionale. Nel lunghissimo collo della giraffa ci sono sette vertebre, come nel nostro e in quello della maggior parte dei mammiferi. Ciò fa supporre che ci possano essere dei limiti fisici alla selezione, la quale si è esercitata sulla forma e non sul numero delle vertebre. Naturalmente si penserà, com’è di moda, che questa sia una pecca nella teoria darwiniana. Ma al di là di ogni polemica, come non vedere in ciò, e con rinnovata meraviglia, quanto fosse corretta l’intuizione di Darwin sulla straordinaria unità del vivente? I geni che generano i colli – anzi, l’intera spina dorsale – sono gli stessi, nell’uomo, nella giraffa e anche in animali diversissimi da noi. un fatto, e può bastare come tale. Ma ognuno è libero di trarne le conseguenze morali e religiose che gli pare. Armando Massarenti
• Riduzione uguale creatività. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Capita talvolta che quando il titolo di un libro promette molto il contenuto non sia poi all’altezza delle attese. Non è il caso dell’ultima monografia di Alex Rosenberg, che si richiama nel sottotitolo al kubrichiano dottor Stranamore e che mantiene la promessa di dimostrare che il riduzionismo darwiniano consente di far piazza pulita di tutti i luoghi comuni antiriduzionistici contro la biologia molecolare, e che dunque non è il caso di aver paura ma si deve amare la biologia molecolare perché ci può liberare da tanti pregiudizi culturali. L’argomento di Rosenberg è intrigante perché parte dalla constatazione che sia gli intellettuali di destra (quelli liberali ovviamente!) sia quelli di sinistra sono concordi nel rifiutare il riduzionismo biologico, in quanto lesivo della dignità umana. In realtà, lo confondono con il determinismo. Quindi si lanciano in battaglie contro il determinismo senza rendersi conto che è sbagliato non perché è contrario a valori umani fondamentali o a qualche valore politico come l’eguaglianza, bensì in quanto è epistemologicamente insostenibile. A dimostrare la falsità del determinismo non sono però le tesi antiriduzionistiche, che a meno di non ammettere dei miracoli devono accettare il fisicalismo (cioè che anche la biologia è governata dalle leggi della fisica e non servono leggi naturali di tipo speciale). piuttosto una comprensione riduzionistica, cioè scientifica e a livello molecolare, di come funzionano i processi biologici. Liquidata l’epistemologia neopositivista, che grosso modo identificava riduzionismo e fisicalismo, Rosenberg può dimostrare che il riduzionismo biologico è di un tipo molto particolare, perché dipende dal fatto che, come diceva Dobzhansky, «nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione». Qualsiasi meccanismo molecolare e quindi qualunque struttura funzionale osservata all’opera negli organismi si è selezionata in rapporto ad altre. Ma, come osserva Rosenberg, la selezione naturale «non vede» le strutture e quindi «conserva» tutte quelle che svolgono in modo soddisfacente una funzione adattativa. Il contesto della selezione è quindi fondamentale e la biologia è necessariamente una scienza storica, che però, a differenza della storia umana, è governata da «leggi ferree»: quelle darwiniane. La legge fondamentale della biologia è il principio della selezione naturale. Diversamente da quello che accade quando si ha a che fare con sistemi fisici o chimici non viventi, nei sistemi viventi esiste una ridondanza funzionale di base. Questa ridondanza funzionale, che Edelman ha chiamato degeneranza, è il presupposto stesso della selezione. E nega la possibilità di stabilire una correlazione univoca tra una struttura e una funzione. Il risultato è che in biologia il riduzionismo non implica determinismo, tanto meno quello genetico. Proprio alla luce del riduzionismo darwiniano si può prevedere che l’assunzione di un determinismo biologico produrrà necessariamente abusi sociali, in quanto cercherà di forzare all’interno di una visione meccanicistica dei processi che non hanno nulla di meccanicamente determinato. Il riduzionismo darwiniano, al contrario, implica e spiega la creatività dell’evoluzione, in tutte le sue manifestazioni. E non è un caso che i sistemi fisiologici adattativi che rispondono in modo creativo a situazioni ambientali impreviste, come il sistema immunitario e il cervello, siano governati da una principio selettivo. Coloro i quali sono spaventati dal determinismo, conclude Rosenberg, dovrebbero abbracciare il riduzionismo, e valorizzare proprio l’insegnamento e la comprensione della biologia molecolare come antidoto contro le illusioni e i pericoli del determinismo. Gilberto Corbellini
• Il lattosio di Charles. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Com’è noto, in Italia abbiamo 58 milioni di aspiranti commissari tecnici della nazionale di calcio. un po’ lo stesso, in piccolo, anche nel campo dell’evoluzione. Ne parlano in tanti, spesso a vanvera. Alcune delle polemiche recenti, se non altro, ci obbligano a ripensare al posto di Darwin nella scienza moderna. E nella modernità, perché sono convinto che non penseremmo quello che pensiamo, noi occidentali del ventunesimo secolo, senza che Copernico e Galileo avessero tolto la Terra dal centro dell’universo, e senza che Darwin avesse dimostrato che l’umanità non sta al centro del mondo vivente. Mi fermo qui, queste cose le ha dette benissimo gente come Musil e Calvino. Resta il fatto che da Darwin in poi la teoria dell’evoluzione sta alla base della biologia moderna. Evoluzione significa che creature diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni. Darwin ha sviluppato questa idea che altri avevano avuto prima di lui, e ha scoperto il principale meccanismo che la può spiegare: la selezione naturale. La selezione naturale funziona così: siamo diversi, abbiamo capelli e stature diverse, diversi gruppi sanguigni e via dicendo. Certi fanno molti figli, certi pochi o nessuno. Quelli che hanno ereditato dai genitori caratteristiche favorevoli hanno più probabilità degli altri di sopravvivere, riprodursi e trasmetterle ai figli. Per esempio, fra i nostri antenati preistorici c’era chi digeriva il latte e chi no; è una caratteristica ereditaria, si chiama tolleranza al lattosio. Chi ce l’ha può sfruttare i prodotti dell’allevamento degli animali domestici e finisce per lasciare, in media, più discendenti. Col tempo, secondo un meccanismo di selezione naturale che Darwin ha capito per primo, in Europa la tolleranza al lattosio è diventata molto comune. Invece non si è diffusa dove non si allevavano ovini o bovini e digerire il latte non portava vantaggi. Perciò i giapponesi mangiano tofu e non formaggio. Darwin non conosceva la genetica. Noi sì, e quindi sappiamo che anche la migrazione e il caso sono importanti nell’evoluzione. La tolleranza al lattosio ha avuto origine in alcune località africane ed europee, ma poi si è diffusa seguendo le migrazioni dei nostri antenati. Altre differenze fra le popolazioni sono invece dovute a deriva genetica, cioè a vicende casuali nel corso della storia. Gli indiani d’America sono tutti di gruppo sanguigno 0. Non è che con un altro gruppo si viva male in America. Semplicemente, i suoi primi abitanti erano piccoli gruppi di cacciatori provenienti dall’Asia: fra loro, per caso, i gruppi sanguigni A, B e AB non erano rappresentati. Darwin non poteva sapere tutte queste cose, scoperte nel ventesimo secolo; ma i suoi critici dovrebbero, e invece pare di no. Tanto per dirne una, il ruolo della deriva genetica l’ha chiarito nel 1932 Sewall Wright, ma nessuno deve averne informato Jerry Fodor, un filosofo di Rutgers, negli Stati Uniti. Nel suo saggio, peraltro ben scritto, uscito nella «London Review of Books» con il titolo Perché i maiali non hanno le ali, Fodor rimane sbigottito dalla constatazione che la selezione naturale non spiega tutto. Ne conclude che forse è necessaria una rivoluzione scientifica, una profonda revisione della teoria evoluzionistica. L’aveva già scritto, senza forse, in un saggio precedente, disponibile nel suo sito web, il cui titolo (ma non il contenuto) ha il pregio della chiarezza: Contro il darwinismo. In Italia le idee di Fodor sono state riprese da Massimo Piattelli Palmarini, in un articolo sul «Corriere della Sera», il 4 novembre 2007. Le loro critiche principali sono schematizzate nella tabella pubblicata sopra. Direi che alcune chiamano in gioco meccanismi dello sviluppo scoperti di recente. Si integrano bene nella teoria evoluzionistica, e non si capisce perché Piattelli Palmarini li veda in contrasto con la selezione naturale. Altre critiche riguardano la riproducibilità sperimentale dell’evoluzione e derivano da un malinteso, peraltro chiarito da un pezzo. Si possono fare, e si fanno, esperimenti per verificarne tantissimi aspetti, ma l’evoluzione in blocco, cioè quattro o cinque miliardi di anni di vita sulla terra, in laboratorio non la può riprodurre nessuno. Insomma, l’evoluzionismo è una scienza storica, e negargli per questo validità sarebbe come non credere alla storia romana a meno che uno non riesca a riprodurre in laboratorio gli Orazi e i Curiazi. Infine, molte critiche non tengono semplicemente conto degli ultimi settant’anni di ricerca in genetica, da Sewall Wright in poi; peccato ma, come diceva il maestro Manzi, non è mai troppo tardi. P urtroppo questi argomenti, proposti da filosofi che si dichiarano laici, vengono poi strumentalizzati da quelli che pensano che Darwin e Dio non possano andare d’accordo. banale, ma vale la pena di ripeterlo: la scienza si occupa di trovare spiegazioni naturali ai fenomeni naturali, e quindi non ha (e non può avere) nulla da dire sul soprannaturale. Giovanni Paolo II l’aveva capito, certi cristiani e anche certi atei molto meno. Sta di fatto che, negli Stati Uniti e ormai anche da noi, fondamentalisti religiosi combattono l’insegnamento dell’evoluzione nella scuola pubblica. Uno dei loro cavalli di battaglia è appunto l’impossibilità, secondo loro, di comprendere il mondo vivente senza un progetto intelligente. Insomma, visto che non ce la fanno a mettere insieme una visione scientifica alternativa, cercano qualche punto debole nel l’evoluzionismo, e poi sostengono che quel punto debole mina la credibilità di tutto il resto. Un giochetto improduttivo, nel senso che non ha ancora prodotto un grammo di buona ricerca. Intendiamoci: parecchi aspetti della storia evolutiva del nostro pianeta non ci sono chiari, e ci mancherebbe altro, stiamo parlando di una storia che copre miliardi di anni. Ma un’enorme massa di dati, sui fossili e sul Dna, dimostra che Darwin ci aveva preso in pieno. Non ci serve, e non è alle porte, nessuna rivoluzione scientifica. Invece, abbiamo bisogno di rendere sempre più completa la nostra conoscenza dei meccanismi e della storia dell’evoluzione, e possiamo solo partire da Darwin per farlo. Un’ultima cosuccia, una questione che forse sembra, ma non è, personale. Piattelli Palmarini se la prende con quelli che lui chiama darwiniani ortodossi. La parola ortodossi rimanda all’accettazione acritica di un dogma, e così su due piedi mi verrebbe da rispondere: «a me ortodosso non me lo dice nessuno». Ma qui non si tratta di me o degli altri come me che studiano l’evoluzione. La teoria dell’evoluzione darwiniana è la spina dorsale di qualunque ragionamento serio sulla biologia, proprio come la tavola periodica di Mendeleev per qualunque discorso serio sulla chimica. Si tratta di semplice buon senso, non di ortodossia. Basta aver letto una sua pagina, una delle sue lettere per esempio, per capire come il pensiero di Darwin sia programmaticamente, radicalmente critico. Darwin e ortodossia sono, semplicemente, un ossimoro. Guido Barbujani
• Gli antenati del dibattito attuale. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. 1790 Il poeta Wolfgang Goethe, nella Metamorfosi delle piante avanza una teoria trasformista per cui tutte le specie avrebbero comuni origini, ma non in quanto derivano da qualche forma organica speciale, ma in quanto riconducibile a «un’idea generale di tipo». 1802 Jean-Baptiste Lamarck conia il termine "biologia" per definire lo studio della vita intesa come materia organizzata, e teorizza un orgasme vital presente in tutte le cellule del corpo, che ne governa le trasformazioni, nonché la trasmissione ereditaria dei tratti adattativi acquisiti dagli individui. 1859 Charles Darwin propone ufficialmente che i cambiamenti delle caratteristiche ereditarie degli organismi e la nascita di specie nuove avvengano in modo graduale, e come conseguenza di una sopravvivenza non casuale degli individui. Poiché ne nascono in eccesso, lottano fra loro per le scarse risorse disponibili e sopravvivono i portatori di variazioni ereditarie vantaggiose. Questo processo è la selezione naturale. Anche per Darwin i tratti acquisiti possono trasmettersi ereditariamente. 1885-1892 August Weissmann nega la possibilità di una trasmissione ereditaria della caratteristiche acquisite durante la vita dell’individuo, e ipotizza che l’ereditarietà dipenda dalla trasmissione di una sostanza chimicamente definita che chiama plasma germinale, fisicamente diversa e separata dal plasma somatico. Il weismannismo veniva chiamato neodarwinismo. 1894 L’embriologo tedesco Hans Driesch pubblica il risultato di un esperimento da cui si evince che lo sviluppo degli organismi non è un processo meccanico, ma autoregolato. Driesch ne ricava una filosofia vitalistica per cui la vita sarebbe regolata da un principio immateriale, che chiama entelechia, irriducibile a qualsiasi fenomeno di tipo fisico e chimico. L’autoregolazione degli embrioni rimarrà a lungo un argomento contro l’approccio genetico e darwiniano in embriologia. 1900 In alternativa al gradualismo della spiegazione darwiniana dell’evoluzione, il naturalista olandese Hugo De Vries, propone un’ipotesi mutazionista per cui ogni specie svilupperebbe nel corso della sua storia una serie di variazioni improvvise (mutazioni) e ereditarie. Le variazioni, che possono essere benefiche, innocue o nocive, si conservano o scompaiono per selezione naturale, e danno luogo in un sol colpo a nuove specie. 1900 Riscoperta e conferma delle cosiddette «leggi di Mendel», che implicano l’esistenza di un fattore discreto responsabile della trasmissione dei tratti ereditari, il gene. 1917 D’Arcy Wentworth Thompson pubblica Crescita e forma in cui ipotizza, in alternativa ai modelli evolutivi, che la vita sia definibile a livello matematico come la geometria di strutture reticolari plastiche analoghe ai cristalli, e che sia governata non dalla selezione naturale ma da leggi fisiche che impongono vincoli strutturali alle forme biologiche, i cui rapporti reciproci possono essere descritti da una matematica delle trasformazioni. 1918 Lo statistico Ronald Fischer concepisce un modello genetico in cui dimostra, utilizzando una metodologia statistica particolare, che la variazione continua dei caratteri può essere il risultato dell’ereditarietà mendeliana. Fino a quel momento darwinismo e mendelismo erano considerati inconciliabili. Nei due decenni successivi lo stesso Fisher, J.B.S. Haldane e Sewall Wright dimostrano matematicamente che il differenziale riproduttivo (fitness) che le diverse mutazioni conferiscono agli organismi, cioè la selezione naturale, causa un cambiamento nella frequenza di geni mendeliani nelle popolazioni. Mentre Fisher e Haldane assegnavano il ruolo principale alla selezione naturale, Wright riteneva operassero anche forze "neutrali", come la deriva genica. 1940 Il fisiologo tedesco Richard Goldschmidt pubblica The Material Basis of Evolution, cui teorizza l’esistenza di processi macroevolutivi, accanto a quelli microevolutivi, dovuti a cambiamenti fisiologici radicali in qualche sistema di reazioni o struttura funzionale primaria. Tali cambiamenti darebbero luogo a "hopeful monsters" (mostri speranzosi) che se sopravvivono intraprendono un cammino microevolutivo. Le idee di Goldschimidt sono state rilanciate da Stephen Jay Gould in un famoso articolo del 1977 intitolato Il ritorno dei mostri speranzosi. Negli anni ’40 con argomenti diversi Ernst Mayr, Theodosius Dobzansky, Julian Husxley, George Gaylord Simpson, George Ledyard Stebbins e Bernhard Rensch concepiscono negli anni Quaranta la teoria sintetica dell’evoluzione, nota anche come neodarwinismo. Le unità che evolvono sono popolazioni di organismi caratterizzate da variabilità genetica e fenotipica, che è la conseguenza della ricombinazione genetica dovuta alla riproduzione sessuale e alle mutazioni casuali. La selezione naturale è la principale forza che plasma il corso dell’evoluzione fenotipica ed è dovuta al differenziale riproduttivo. Le transizioni evolutive nella popolazione sono normalmente graduali, ma possono darsi eccezioni, e la speciazione avviene quando alcune forme diventano incapaci di incrociarsi. La macroevoluzione (la formazione di taxa superiori alla specie) non è altro che un’estrapolazione della microevoluzione (la formazione delle specie a partire da razze e varietà). 1953-1968 In questo periodo le scoperte della biologia molecolare confermano che il neodarwinismo è a grandi linee corretto. 1957 L’immunologo e virologo australiano Frank Macfarlane Burnet ipotizzava che la capacità adattativa del sistema immunitario di sintetizzare anticorpi contro qualsiasi antigene fosse dovuta a un processo di selezione analogo a quello darwiniano, in questo caso però a livello di popolazioni di cellule che producono gli anticorpi. L’idea della selezione clonale, cioè di processi darwiniani che governano la fisiologia dei processi adattativi anche a livello somatico, troverà applicazioni euristicamente rilevanti non solo in immunologia, ma anche in neurobiologia (con la teoria del «Darwinismo neurale» di Edelman e la teoria della stabilizzazione selettiva delle sinapsi di Changeux) e oncologia. 1964 William Donald Hamilton dimostra matematicamente che un gene "altruistico" può essere positivamente selezionato anche a frequenze elevate nella popolazione, lanciando così l’idea che l’evoluzione non promuova il successo riproduttivo dell’individuo, ma quello del gene. I gesti altruistici sono rivolti più frequentemente verso familiari prossimi, con cui si condividono molti geni. Nel 1971, Robert Trivers svilupperà la nozione di "altruismo reciproco", ovvero che un individuo che mette in atto un comportamento altruistico nei riguardi di un estraneo lo farà se i potenziali benefici dell’azione sopravanzano il rischio. Nasce la sociobiologia, tenuta a battesimo ufficialmente nel 1975 con la pubblicazione del famoso trattato di Edward O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi. 1966 George C. Williams pubblica Adaptation and Natural Selection in cui formalizza la tesi che solo il gene è l’unità di selezione, e che il fenotipo è solo un veicolo utilizzato dai geni per massimizzare, in modo particolare attraverso gli adattamenti all’ambiente, la propria rappresentanza nelle future generazioni. Le idee di Williams saranno estremizzate da Richard Dawkins ne Il gene egoista (1976), e ispireranno anche la psicologia evoluzionistica nel senso che questa aderisce comunque alla concezione gene-centrica dell’evoluzione (i comportamenti vengono direttamente ricondotti ai geni e la loro sopravvivenza deve trovare una spiegazione adattativa). 1971 Stephen Jay Gould e Niels Eldredge elaborano nel 1971 la teoria degli equilibri punteggiati, per dimostrare che il cambiamento evolutivo può avvenire in modo relativamente rapido rispetto ai periodi più lunghi di stabilità evolutiva. Il modello non è alternativo al gradualismo neodarwiniano, ma lo inquadra e definisce più appropriatamente su scala geologica. 1973 John Maynard Smith dimostra che le «strategie evolutivamente stabili» sono dei compromessi (trade-off). Applicato al problema sociobiologico se sia più vantaggioso un comportamento cooperativo o egoistico, il suo modello dimostra che una popolazione con un mix di individui egoisti e altruisti è più stabile di una fatta solo di "falchi" o solo di "colombe". 1979 Richard Lewontin e Stephen Jay Gould pubblicano un articolo intitolato I pennacchi di San Marco e il paradigma panglossiano in cui contrappongono al modello panadattamentista del neodarwinismo, nella versione di Williams, l’idea che alcune caratteristiche di un organismo possano essere la conseguenza di processi, come dei vincoli imposti dallo sviluppo, diversi dalla selezione naturale. 1983 La scoperta dei geni homeobox nei vertebrati apre una nuova prospettiva nei rapporti tra biologia dello sviluppo e teoria dell’evoluzione. La teoria sintetica o neodarwiniana di fatto ignorava i processi e i vincoli dello sviluppo, a parte alcuni tentativi di concepire un controllo in rapporto allo spazio dello sviluppo dell’espressione dei geni come nel caso della teoria dell’informazione posizionale di Lewis Wolpert (1969). 2000 Grazie alla scoperta di numerosi meccanismi di regolazione e amplificazione dell’informazione genetica e ai progressi della genetica molecolare dello sviluppo è stato possibile integrare anche lo sviluppo nel modello neodarwiniano. Nasce ufficialmente la biologia evolutiva dello sviluppo o evo-devo. Lo studio dell’evoluzione del controllo genetico sui processi dello sviluppo sta dimostrando la loro importanza nell’evoluzione della diversità morfologica. Negli ultimi due decenni, attraverso l’applicazione delle tecnologie genomiche e postgenomiche il quadro di riferimento teorico della biologia è diventato estremamente ricco e allo stesso tempo complesso. Una nuova frontiera è la cosiddetta epigenetica, cioè lo studio dei tratti che si trasmettono ereditariamente nella divisione cellulare e qualche volta da una generazione all’altra, che non implicano cambiamenti nelle sequenze di Dna. Qualcuno la rappresenta come un ritorno di Lamack. Le caratteristiche epigenetiche della cellula possono essere di natura biochimica, ma anche avere a che fare con la fisica delle strutture molecolari implicate. L’esistenza di fenomeni epigenetici che controllano l’espressione genica e la fisiologia cellulare è compatibile con il neodarwinismo, ma soprattutto con il principio darwiniano della selezione.
• Sì, la vita è proprio così. Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Ricordate le Just so stories di Rudyard Kipling? Erano dei deliziosi racconti per bambini in cui si narrava di Come fu che il leopardo si procurò le sue macchie a Come il cammello ebbe le sue gobbe o della «farfalla che batteva i piedi». Ora, grazie agli sviluppi della biologia, disponiamo di tante altre Storie proprio così. Anch’esse ci raccontano di come si siano formate le macchie, le strisce, le gobbe, i corni. E si spingono anche più in là. Ci dicono che non esiste il bernoccolo della matematica. Ci raccontano di come è fatta la nostra stessa psicologia, e arrivano persino a spiegarci – come fa il Nobel Gerald Edelman – l’intelligenza, la coscienza, la conoscenza. Molte di queste storie sono incantevoli e curiose quanto quelle di Kipling. E in più hanno il vantaggio di presentarsi come vere! Altre sono considerate, almeno da alcuni, irritanti, sbagliate, tautologiche. Just so stories, certo, ma nel senso che in realtà non spiegano niente, sono aggiustamenti ad hoc basati su principi, come quello della selezione naturale, considerati validi dogmaticamente. Tutte storie che hanno sullo sfondo, in positivo e in negativo, le intuizioni di Charles Darwin. Nella maggior parte dei casi per confermarle, come ha fatto la biologia del 900 con gli sviluppi della genetica, della biologia molecolare e della recente sintesi evo-devo. In altri casi per confutarle, o perlomeno correggerle, come hanno fatto in maniera eclatante Jerry Fodor in un saggio uscito di recente sulla «London Review of Books» e Massimo Piattelli Palmarini sul «Corriere della sera». Ed è proprio da qui che in queste pagine ci piace partire: dalla provocazione di Fodor, cui rispondono i collaboratori della Domenica Guido Barbujani e Gilberto Corbellini. Un po’ di storie, dunque, le trovate disseminate nei loro articoli. E la storia, con dentro tutti i contrasti di oggi, che in realtà nuovi non sono, è nella cronologia a pié di pagina. Valutate da voi in quale senso è «proprio così».
• Il Sole 24 Ore 25 novembre 2007. Che cosa dicono gli anti-darwinisti - I neo-darwiniani sono adattazionisti: secondo loro la selezione naturale basta da sola a spiegare tutte le forme viventi e le loro intricate relazioni. - La selezione naturale del più adatto è una fonte marginale delle architetture biologiche. - I neo-darwiniani ricorrono a un sacco di storie adattazioniste, inventate lì per lì, per spiegare come si sono evolute le nostre caratteristiche psicologiche. - I neo-darwiniani si trovano a dover scegliere tra l’attribuzione di un qualche micro-progetto, una micro-intenzione, alla natura, oppure tirare a indovinare, a lume di naso, i risultati della selezione naturale. - E’ impossibile per il gioco cieco della natura selezionare e affinare separatamente ogni organo, tratto o meccanismo. - Le soluzioni ottimali del mondo biologico non sono certo state selezionate darwinianamente a partire da tentativi a casaccio. Perché non convincono gli evoluzionisti - Gli evoluzionisti danno molta importanza all’adattamento, cioè all’effetto della selezione naturale, ma sanno che contano anche le mutazioni, le migrazioni e il caso. - 150 anni di ricerche dimostrano il contrario; senza la selezione del più adatto non avremmo il pollice opponibile. - Siamo lontani dal capire come funziona la nostra mente e con il contributo di quali e quanti geni. Perciò le ipotesi sono molte e difficili da verificare, per ora. - Gli evoluzionisti non hanno bisogno d immaginarsi progetti nella natura; da scienziati formulano ipotesi di cui dubitano fino a che non sono state verificate, fanno esperimenti e analisi statistiche, non giochi di indovinelli. - Si affina non un organo, ma la capacità complessiva di sopravvivere e riprodursi degli organismi. Perciò le soluzioni non sono ottimali e, bipedi, soffriamo di mal di schiena. - Le soluzioni ottimali scarseggiano (vedi sopra) e la selezione darwiniana è un processo graduale di adattamento, non di tentativi indipendenti a casaccio.