Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Gli uomini hanno sempre avuto negli occhi lo spettacolo delle stelle
• Gli uomini hanno sempre avuto negli occhi lo spettacolo delle stelle. A partire da un certo momento, immaginarono l’universo come un’immensa sfera trasparente ma rigida su cui erano incastonati gli astri, considerati spesso come divinità. Alcuni di essi, le stelle, non modificavano mai la loro posizione relativa, muovendosi sempre insieme; altri invece, in particolare il Sole e la Luna, si spostavano su questo sfondo grandioso come in una cavalcata senza fine. I primi greci impararono a usare il cielo per scopi pratici, senza porsi troppi problemi sul piano teorico.
• Talete riusciva a prevedere le eclissi. I primi filosofi, invece, costruirono tra il VI e il V secolo a.C. le prime interpretazioni scientifiche del cielo: Talete (VI secolo a.C.) per esempio riusciva a prevedere le eclissi, mentre Empedocle (V secolo) spiegò le eclissi col passaggio della Luna davanti al Sole. Agli inizi del IV secolo si era formata un’immagine abbastanza precisa del cosmo: la Terra, sferica, era immobile al centro, mentre le stelle le venivano trascinate attorno da un’immensa sfera che compiva un giro completo al giorno ruotando attorno ai poli, dando così l’impressione che gli astri sorgessero e tramontassero. Sullo sfondo delle stelle si muovevano il Sole, la Luna e gli altri pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Ma qui cominciavano i problemi. Prima dell’invenzione del telescopio, fare astronomia poteva significare solo studiare le posizioni degli astri e i loro spostamenti. A occhio nudo, infatti, è impossibile distinguere un pianeta da una stella: appaiono entrambi come un puntino luminoso. L’unica differenza osservabile a occhio nudo è che, rispetto alle stelle, i pianeti si spostano (’pianeta” deriva da un verbo greco che significa ”vagabondare”). Gli ”astri erranti” (cioè i pianeti), però, hanno un moto molto irregolare: non solo nel corso dei mesi sembrano rallentare o accelerare rispetto allo sfondo delle stelle fisse, ma in certi periodi sembrano addirittura fermarsi e tornare indietro (oggi questo fenomeno è detto ”moto retrogrado”). Cercare di dare una spiegazione a questi fenomeni fu il compito principale, anche se non l’unico, che si assunsero gli astronomi greci. Essi, rispetto ai colleghi egiziani e babilonesi, che in quel periodo avevano raggiunto notevoli risultati, avevano un formidabile vantaggio: potevano disporre degli strumenti di calcolo forniti dalla geometria scientifica, nata proprio in quei decenni. Secondo la tradizione, sarebbe stato Platone a porre per la prima volta in termini chiari ed espliciti il problema di come spiegare i moti dei pianeti usando solo moti circolari e uniformi. La soluzione di questo enigma condizionò tutta la storia dell’astronomia fino a Keplero (inizi XVII secolo), il primo che introdusse le ellissi per descrivere le orbite dei pianeti. Le ragioni di questa scelta erano in parte filosofiche e in parte religiose: il cerchio è simbolo della perfezione e il moto circolare uniforme è quello che si avvicina di più all’immobilità divina. Nell’antichità la prima teoria astronomica completa e coerente con questi princìpi fu formulata dal matematico Eudosso di Cnido, che studiava presso l’Accademia di Platone.
• La teoria di Eudosso. In base alla teoria di Eudosso, un pianeta si comporta come se fosse incastonato su un punto dell’equatore di una sfera di immense dimensioni. Questa sfera, però, fa parte di un gruppo di sfere aventi tutte lo stesso centro, ossia la Terra (per questo la teoria è nota come ”omocentrica”). Ogni sfera ha un’inclinazione e una velocità di rotazione diverse, e le trasmette meccanicamente alle sfere più piccole che stanno al suo interno (le sfere infatti sono pensate come se fossero connesse le une alle altre tramite i loro assi di rotazione). Il movimento del pianeta, visto dalla Terra che è al centro della sfera, è il risultato del moto di tutte le sue sfere. Eudosso non voleva tanto spiegare come sono fatti realmente i cieli, quanto descrivere i movimenti degli astri usando solo moti circolari uniformi. Il sistema omocentrico era complicato (prevedeva ben 26 sfere concentriche, portate a 37 dai successori di Eudosso) ma soprattutto presentava delle difficoltà insormontabili. La più grave era il fatto che i pianeti, in particolare Marte, cambiano periodicamente luminosità, come se cambiasse la loro distanza dalla Terra (e noi oggi sappiamo che in effetti è proprio così). La teoria di Eudosso, invece, prevedeva che i pianeti fossero sempre alla stessa distanza dalla Terra. Come teoria astronomica, perciò, dovette essere rapidamente abbandonata dagli specialisti. Tuttavia, prima che potesse essere sostituita da qualcosa di più convincente, apparve sulla scena Aristotele (seconda metà IV sec. a.C.), che non trovando niente di meglio inglobò la teoria delle sfere omocentriche nella sua cosmologia. Aristotele, a differenza di Eudosso, voleva spiegare la natura e perciò interpretò le sfere omocentriche come se fossero delle realtà fisiche, realmente esistenti. La fisica di Aristotele, dopo un periodo di oblio, fu riscoperta dagli arabi e trasmessa a tutto il mondo occidentale come ”il” sapere sulla natura e sul cosmo. Fu attraverso di lui che la teoria di Eudosso, nata come strumento matematico, condizionò la cosmologia, la filosofia e in ultima analisi la visione del mondo per i successivi duemila anni.
• Purché il moto sia uniforme. Gli astronomi che vennero dopo Aristotele si comportarono invece come gli scienziati moderni: dal momento che il sistema di Eudosso poneva dei problemi che non poteva risolvere, cercarono altre soluzioni. L’unico aspetto che rimase costante fu il fatto che venivano previsti solo moti circolari e uniformi. Nel corso del III secolo a.C. si diffusero così due nuovi modelli geometrici per interpretare il moto dei pianeti: quello detto ”epicicloidale” e quello detto ”eccentrico”. Nel primo, il pianeta ruota a velocità costante su un cerchio, detto appunto ”epiciclo”, il cui centro si sposta a sua volta su un cerchio più grande detto ”deferente” con al centro la Terra. Nel secondo, il pianeta ruota su un cerchio il cui centro è spostato all’esterno della Terra. Da un punto di vista geometrico sono equivalenti e hanno entrambi lo scopo di far variare la distanza dei pianeti dalla Terra (spiegando anche la variazione di luminosità) giustificando il moto retrogrado dei pianeti. Non si trattava però di una descrizione della realtà, come se nel cielo esistessero veramente delle specie di gigantesche manovelle, ma solo di ipotesi introdotte per giustificare il movimento dei pianeti. In effetti, anche a causa dello scarso numero di osservazioni che gli astronomi avevano a disposizione, i due sistemi interpretavano i fenomeni osservati in modo convincente, e sembravano confermare il presupposto secondo cui il moto fondamentale fosse quello circolare e uniforme.
• L’astronomia ellenistica. L’astronomia ellenistica (323-146 a.C.) compì notevoli progressi perché sfruttò lo sviluppo della geometria, in particolare la sua sistemazione a opera di Euclide. Ciò permise agli scienziati greci di ottenere alcuni dei loro risultati più notevoli. Aristarco, vissuto nel II sec. a.C., riuscì a calcolare la distanza tra la Luna e la Terra: secondo i suoi calcoli era pari a 40 diametri terrestri (il valore corretto è circa 30,5). Esaminando poi le osservazioni condotte durante le eclissi, calcolò anche la distanza tra la Terra e il Sole, stimandola in 760 diametri terrestri (qui Aristarco fu tradito dai suoi strumenti di osservazione: il valore corretto è circa 20 volte maggiore). L’astronomo che sfruttò al meglio le possibilità offerte dallo strumento matematico, introducendo per la prima volta l’uso delle funzioni trigonometriche e usando il calcolo per prevedere la posizione dei pianeti, fu Ipparco di Nicea (150 a.C. circa). Usando abilmente alcune osservazioni effettuate durante le eclissi di Sole e di Luna, migliorò notevolmente la stima della distanza Terra-Luna (che stabilì in 29,5-33,6 diametri terrestri circa, vicina a quella reale). Compilò anche uno dei primi cataloghi di stelle al mondo, e si accorse che le stelle modificano lentamente la loro posizione rispetto agli equinozi (ossia i punti sulla volta celeste in cui l’equatore celeste e l’eclittica si intersecano): è il fenomeno oggi noto come ”precessione degli equinozi”, una delle scoperte più importanti di tutta l’astronomia antica. Per dare un’idea dell’accuratezza delle osservazioni di Ipparco basti dire che questo lentissimo movimento è inferiore a 1 grado ogni cento anni.
Tutte le conoscenze e i risultati dell’astronomia ellenistica confluirono nell’opera del più grande astronomo dell’antichità, Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d’Egitto tra il 130 e il 175 d.C. La sua opera più famosa, universalmente nota col nome arabo di Almagesto, rimase il punto di riferimento in campo astronomico fino al XVII secolo. Tolomeo scelse di combinare insieme sia il modello a epicicli sia quello a eccentrici, in modo da usare gli epicicli per rappresentare alcune variazioni di velocità dei pianeti e gli eccentrici per rappresentarne altre. Tuttavia ancora non riusciva a giustificare alcuni risultati delle sue osservazioni. Per riuscirci, Tolomeo fu costretto a formulare un’ulteriore ipotesi: il moto del pianeta è uniforme non rispetto alla Terra, da cui noi lo osserviamo, e neppure rispetto all’eccentrico (che era, ricordiamolo, il centro del cerchio su cui si muoveva il centro dell’epiciclo), ma rispetto a un terzo punto, detto ”equante”, simmetrico alla Terra rispetto all’eccentrico. I dati calcolati accettando questo postulato concordavano molto bene con quelli ricavati dall’osservazione di quasi tutti i pianeti (meno Marte: sarà proprio studiando la sua orbita che Keplero formulò, all’inizio del Seicento, le sue leggi sul moto dei pianeti). Di fatto il moto risultante da questi espedienti, inventati per giustificare specifici risultati delle osservazioni, era molto simile a un’ellisse, che è, come sappiamo oggi, l’orbita vera. Tolomeo, però, continuò a sentirsi obbligato a usare solo moti circolari uniformi per descrivere le traiettorie dei pianeti. Nessuno scienziato dell’antichità o del medioevo riuscì a superare i risultati di Tolomeo: la bontà del suo sistema è testimoniata dal fatto che ancora nel XVII secolo il padre gesuita Matteo Ricci, missionario in Cina, otteneva, usando il sistema tolemaico, previsioni astronomiche migliori di quelle degli astronomi cinesi.
• Il procedimento di Aristarco si basava sulle scoperte della geometria euclidea. Infatti Terra, Luna e Sole possono essere considerati come i vertici di un triangolo di dimensioni immense (e sconosciute). Dal momento che dalla Terra si può misurare direttamente solo uno degli angoli di questo triangolo (quello formato dalla Luna e dal Sole), i rapporti tra i lati (che rappresentano le distanze fra i tre corpi celesti) restano sconosciuti. Tuttavia Aristarco notò che quando la Luna è esattamente al primo quarto (ossia quando la faccia rivolta alla Terra è illuminata esattamente per metà) l’angolo Terra-Luna-Sole è di 90°. Se in questo momento si misura dalla Terra l’angolo formato dalla Luna e dal Sole, sapendo che la somma degli angoli di un triangolo è pari a 180°, è possibile determinare completamente il triangolo. Ad Aristarco risultava un angolo di 87°: Nonostante questo dato fosse straordinariamente vicino a quello corretto (pari a 87°51’) portava a stabilire tra la distanza Terra-Luna e quella Terra-Sole un rapporto pari a 1:19, mentre il valore giusto è circa di 1:400. In altre parole Aristarco aveva concluso che la distanza del Sole dalla Terra era circa 20 volte inferiore a quella reale. Questo procedimento poteva stabilire solo le distanze relative tra Sole, Terra e Luna: per trovare i valori assoluti Ipparco ricorse a una serie di osservazioni durante un’eclisse di Luna per valutare le dimensioni dell’astro attraverso il tempo che la Luna impiega ad attraversare il cono d’ombra prodotto dalla Terra, le cui dimensioni erano note. Partendo da qui e ragionando sulla serie di triangoli che si generano quando la Luna si trova in un particolare punto della sua orbita, Ipparco stabilì che il Sole si trova ad almeno 490 raggi terrestri (una misura pari approssimativamente a circa 4.000.000 di chilometri).
• Uno dei pregiudizi più duri a morire è l’idea che nell’antichità e nel medioevo fossero tutti convinti che la Terra è un disco piatto. Anche se questo può essere vero a livello popolare, gli scienziati e gli intellettuali sapevano benissimo che la Terra è una sfera. Quest’idea aveva anche origini mistiche (la sfera era considerata la forma perfetta perché uguale in tutte le sue parti) ma ricevette una conferma empirica dalle osservazioni effettuate durante le eclissi di Luna: quando si comprese che questo astro scompare perché la Terra si interpone davanti al Sole non solo si dimostrò che la Luna non brilla di luce propria, ma si comprese anche, dalla forma dell’ombra, che la Terra non è né un disco né un cilindro ma, appunto, una sfera. Non solo: già dai tempi di Aristarco si sapeva che le dimensioni della Terra sono trascurabili rispetto a quelle del cosmo. Da questo punto di vista i disegni che accompagnano i libri di testo scolastici non rendono ragione delle scoperte degli antichi greci. Per questo astronomo infatti il Sole distava dalla Terra circa 760 diametri terrestri. Poiché si pensava che il Sole, per ragioni mistiche, dovesse occupare la posizione centrale nella sequenza dei pianeti, la sfera delle stelle fisse, che rappresentava il limite dell’universo, doveva essere molto più in là. Se rappresentiamo la Terra con una monetina da un centesimo di euro, la sfera delle stelle fisse doveva trovarsi ad almeno 1,3 metri di distanza (circa 3 volte la larghezza di questa rivista aperta). Poeti e scrittori usarono spesso questo argomento per commentare la vanità delle ambizioni umane. Dante per esempio nel Paradiso scrive: «Col viso ritornai per tutte quanto/ le sette spere, e vidi questo globo/ tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante/ ... chi ad altro pensa/ chiamar si puote veramente probo» (Par. XXII, vv. 133-138).