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 2004  luglio 10 Sabato calendario

Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia

• Menelik. Sahle Mariam, futuro Menelik, figlio di Ailà Malakot, re dello Scioa, nacque al buio, nel 1844, tra fumi d’incenso e colpi di fucile sparati in aria per tener lontani i demoni dell’aborto. A spingerlo fuori fu l’ultimo starnuto della madre provocato apposta dalle levatrici che le infilavano pepe nel naso cantilenando "abbiet Mariam, abbiet Mariam" (’Maria abbi pietà”). Dopo quattro anni e quattro giorni fu iniziato all’educazione politica (quattro sono i patriarchi, i libri del Vangelo, i fiumi del Paradiso terrestre e gli elementi), senza ricevere rudimenti di scrittura (per questo c’erano gli alecà, segretari, i defterà, scribi, e il sigillo reale per firmare). Rapito a dodici anni dall’esercito del negus Ligg Kassa, a cui mancava solo la provincia dello Scioa per completare la conquista dell’Etiopia, fu allevato per dieci anni alla sua corte come un figlio.
• Leone. Nel 1865, conquistata la fiducia di Ligg Kassa, che si faceva chiamare Teodoro, fu inviato a sedare una ribellione nello Scioa, dove riconquistò il trono e rimase. Intanto il negus era in conflitto con la Gran Bretagna per aver imprigionato decine di viaggiatori solo perché un irlandese lo aveva offeso regalandogli un tappeto, con intessuta la scena dell’uccisione di un leone, simbolo del suo regno. Quando Teodoro ordinò a Menelik di soccorrerlo con le sue truppe, lui lo rassicurò, ma allo stesso tempo mandò un messo agli inglesi con viveri e bestiame, assicurando che non sarebbe intervenuto. Teodoro morì nel corso dell’assedio, dopo aver ucciso con una pistola intarsiata d’oro e di pietre preziose il figlio che invece si voleva arrendere.
• Dogana. Menelik riceveva gli europei in una tenda bianca regalata dagli italiani, i primi esploratori mandati dalla Società geografica. Ben piantato, di media statura, piedi sproporzionati, naso schiacciato, labbra pronunciate, denti grandi, nascondeva la calvizie sotto una bandana di seta e teneva udienza in pantofole ricamate con seta e oro. Imponeva di passar a dogana chiunque arrivasse dalla costa, curandosi lui stesso di esaminare tutti i bagagli e trattenendo per sé quello che gli piaceva, soprattutto armi.
• Uccialli. Morto Giovanni IV, successore di Teodoro, nel 1889 Menelik si proclamò imperatore d’Etiopia e con questo titolo nello stesso anno firmò la versione definitiva del Trattato di Uccialli con gli Italiani, in cambio di denaro che investì nell’acquisto di munizioni. L’azione diplomatica italiana era stata affidata al conte Pietro Antonelli, che aveva sottoscritto il testo in due versioni, una amarica e una italiana, ritenendo di aver ottenuto il controllo dell’Etiopia grazie all’articolo 17: "Sua maestà il re dei re d’Etiopia consente di servirsi del governo di Sua Maestà il re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze e governi". Questa clausola fu disattesa con una traduzione infedele in amarico, che semmai attribuiva il sostegno dell’Italia nella trattazione degli affari esteri dell’Etiopia. Antonelli, cercando di convincere il negus che si trattava solo di una clausola burocratica, ottenne una nuova traduzione del testo, ma senza avvedersi che l’articolo era stato abrogato.
• Adua. Il corpo di spedizione italiano, 16 mila uomini (quattromila africani), comandato dal generale Oreste Baratieri, affrontò, perdendo, l’esercito di Menelik, (centomila uomini addestrati dal francese Pottier), sui colli a est di Adua, il primo marzo 1896 dalle cinque del mattino al tramonto. In realtà combatterono 14.200 dei soldati in forza nel comando italiano, perché tutto il settimo battaglione non era riuscito a tornare in tempo dalle retrovie, dov’era stato mandato per comperare razioni di carne secca. Mentre Baratieri temporeggiava, Crispi l’aveva spinto all’azione ricordando di avergli messo a disposizione i cannoni a tiro rapido, talmente nuovi che gli artiglieri non sapevano manovrarli. Anche i basti non andavano bene per i muli abissini (più piccoli dei nostri), che dopo poche ore avevano le schiene sanguinanti.
• Bottoni. Tra le lamentele del colonnello Cesare Airaghi, le condizioni del guardaroba: "I pochi effetti che abbiamo indosso cadono già a pezzi, tanto sono mal cuciti, mal foggiati; i caschetti si spaccano, gli elmi si schiacciano, i bottoni si perdono, le stellette cadono".
• Vittime. Sul fronte italiano morirono 3.892 soldati, 260 generali, duemila caddero prigionieri. Quelli che sopravvissero, durante la ritirata scoprirono che i depositi erano ancora pieni di viveri: abbandonarono perciò i fucili per caricarsi di provviste. Le vittime etiopi furono almeno settemila, ma pure molti dei feriti non ce la fecero per mancanza di assistenza medica.
• Canzoni. "Contro gli Italiani siamo andati in quattro, tre son morti, uno è ritornato" (antica canzone etiopica).