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 2004  settembre 26 Domenica calendario

Le scuole sono riaperte solo da giorni, la polemica infuria ormai da mesi

• Le scuole sono riaperte solo da giorni, la polemica infuria ormai da mesi. Si parla di tutor, di insegnanti precari, di integrazione, di tempo pieno. Gli spunti per i dibattiti non mancano, i mugugni degli alunni neanche, eppure come sempre l’inizio dell’anno scolastico è stato salutato dalle fanfare e dai titoli commossi dei quotidiani: citando a caso, la scuola è stata di volta in volta invocata come cuore pulsante della Nazione, palestra di rispetto e integrazione, sconfitta dell’intolleranza, superamento dello scontro di civiltà. Pare talvolta che la si tratti come un corpo esterno al Paese che la ospita, che da lontano possa risolvere le questioni aperte che affliggono l’intera comunità. E pensare che invece coloro che sul finire dell’Ottocento la disegnarono così come noi la conosciamo (ovvero statale, obbligatoria, aperta a tutti) ragionarono a lungo sui modi per renderla il più possibile integrata in un regno che si era da poco formato, per imporre a tutto il territorio nazionale un unico modello di istruzione statale. Giacché l’Italia era appena stata fatta, attraverso la scuola si sperava di «fare gli italiani», come chiedeva a gran voce Massimo d’Azeglio. A essere sinceri non è che l’idea di una scuola aperta a tutti sia nata solo allora. I sovrani più illuminati del Settecento, infatti, credettero sempre nell’istruzione come strumento per creare sudditi buoni, cristiani e obbedienti. Non era, come si può intuire con facilità, un’opinione sempre disinteressata, ma intanto era qualcosa. Tra le nazioni la Prussia aveva segnato il passo imponendo l’obbligo nel 1717 e poi ribadendolo nel 1763 e nel 1794. Per tanti versi il percorso che portò alla creazione della scuola nazionale in Italia fu costellato da piccole scosse rivoluzionarie. Tali erano state per esempio le idee e le sperimentazioni del Piemonte sabaudo che, dopo avere cacciato i gesuiti fuori dai confini e chiuso i loro collegi, ne aveva istituito di propri, nazionali e laici. Si trattava pur sempre di scuole secondarie, non per tutti, ma l’allontanamento della Chiesa dall’istruzione pubblica avveniva in un momento in cui altri Stati rafforzavano con essa i loro legami (per esempio nel Regno delle Due Sicilie Ferdinando II stabiliva che l’istruzione elementare fosse affidata agli ecclesiastici).
• Tutti a scuola (per almeno due anni). Quando l’Italia, con tutte le difficoltà del caso, fu fatta, si applicò a tutto il regno la legge (chiamata Casati, dal nome del ministro che l’aveva promossa) approvata nel 1859 in Piemonte: la scuola elementare durava quattro anni, i primi due dei quali erano obbligatori e gratuiti. Alle elementari seguivano poi due indirizzi di studi superiori: quello classico e quello tecnico. Per chi voleva diventare maestro c’erano le cosiddette ”scuole normali”. La novità stava soprattutto nel fatto che, imponendo la frequenza ai bambini provenienti da ceti fino allora esclusi dall’istruzione, si modificava profondamente la fisionomia e la funzione della scuola pubblica, in precedenza imperniata sull’insegnamento del latino e rivolta soprattutto agli alunni che giungevano da strati sociali privilegiati, che sapevano già scrivere e leggere e ambivano a percorrere i gradi superiori dell’istruzione. Come è facile intuire, l’adesione al nuovo sistema scolastico avvenne in tempi e modi diversi nelle varie regioni, e fu tutt’altro che semplice, anche perché il legislatore aveva lasciato ai comuni l’onere di costruire scuole e stipendiare i maestri (si dirà più avanti con quali risultati) in «proporzione alle proprie facoltà e secondo i bisogni degli abitanti». è vero che il ministero elargiva sussidi agli enti locali, ma erano così limitati che in effetti i comuni avevano ben poche «facoltà» da destinare alla scuola dell’obbligo. L’istruzione così veniva a essere carente proprio laddove serviva di più, anche se il primo ministro della Pubblica istruzione del Regno, Francesco de Sanctis, auspicava che la scuola trasformasse la «plebe», la cui «anima appartiene al confessore, al notaio, all’uomo di legge, al proprietario» in un «popolo libero». E pensava soprattutto al devastato meridione.
• Istruire il popolo quanto basta. Tanta fiducia non era universalmente condivisa. Non erano pochi coloro che accusavano l’istruzione di distogliere il popolo dal lavoro manuale, favorendo la formazione di «spostati», di uomini insoddisfatti della propria condizione sociale e predisposti alla ribellione. D’altra parte lo stesso Vittorio Emanuele II e poi anche il figlio Umberto I si vantavano di non aver mai letto un libro. Ma per il momento si preferiva ancora dare retta al Cavour: «Un buon sistema d’educazione è il solo efficace rimedio alle dottrine estreme del comunismo». Chi insisteva sull’utilità della scuola, sottolineava come una «bene intesa» istruzione avrebbe costituito una garanzia di stabilità sociale. Tutto sta nel comprendere che cosa si volesse dire con «bene intesa»: con queste parole s’indicava un’istruzione adeguata alle condizioni di ciascuno. La scuola doveva più che istruire i cittadini con le nozioni, educarli ai valori condivisi, renderli rispettosi delle leggi e delle autorità del Regno. La diffidenza comunque fu dura a morire se ancora nel 1894 l’allora ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli così illustrava i suoi nuovi programmi scolastici: «Bisogna insegnare solo a leggere e scrivere, bisogna istruire il popolo quanto basta, insegnare la storia con una sana impostazione nazionalistica e ridurre tutte le scienze sotto una unica materia di ”nozioni varie”, senza nessuna precisa indicazione programmatica o di testi, lasciando spazio all’iniziativa del maestro e rivalutando il più nobile e antico insegnamento, quello dell’educazione domestica; e mettere da parte infine l’antidogmatismo, l’educazione al dubbio e alla critica, insomma far solo leggere e scrivere. Non devono pensare, altrimenti sono guai».
• Più ignoranti degli spagnoli. Furono i numeri a convincere sempre di più che l’Italia era culturalmente arretrata. Il primo censimento è del 1861 e il quadro desolante che ne emerge è confermato dalle grandi inchieste scolastiche. Le scuole erano poco frequentate, gli insegnanti, mal pagati e poco preparati, usavano metodi educativi non adatti. Dalla Statistica del Regno d’Italia (1862) risulta che da noi l’analfabetismo riguardava il 78 per cento della popolazione, più della Spagna «che certamente non aspira agli onori del primato ne’ progressi intellettuali». Che su mille abitanti c’erano 51 alunni: ancora una volta meno della disprezzata Spagna (69), per non dire di Austria (79), Belgio (108), Francia (115), Paesi Bassi (123), Inghilterra (126) e dell’irraggiungibile Prussia (148). Non basta: su 7720 comuni, 209 erano del tutto privi di scuole sia pubbliche che private, così come lo erano 3761 borgate su 9388. Profonde le differenze geografiche: mentre restava inadempiente solo l’11 per cento delle borgate piemontesi e il 19 per cento di quelle lombarde, nelle Marche la quota raggiungeva il 47 per cento, il 51 in Toscana, il 57 in Umbria, il 58 in Emilia, il 63 in Liguria, il 68 in Sicilia, il 76 negli Abruzzi, il 77 in Sardegna e in Calabria, l’80 per cento in Basilicata, e l’87 in Campania e Puglia. E la situazione non migliorerà che molto lentamente: il censimento del 1871 rivela che l’analfabetismo toccava ancora il 73 per cento della popolazione, un ben magro miglioramento rispetto a dieci anni prima.
• I ricatti ai maestri. Questi dati furono raccolti dagli ispettori, funzionari che giravano fra mille difficoltà in tutta Italia controllando le condizioni dell’insegnamento, persuadendo le amministrazioni locali della necessità di costruire nuove scuole, discutendo i metodi con i maestri e difendendo quest’ultimi dai soprusi. Già, perché forse non c’era nessuno di più ricattabile di un maestro. Per insegnare si frequentavano scuole che duravano due o tre anni, cui si poteva accedere purché si disponesse di un’istruzione equivalente alla quarta elementare, o alla terza per le femmine. Occorreva poi avere un attestato di moralità rilasciato dal sindaco, che era anche colui che stipendiava l’insegnante. La legge fissava degli stipendi minimi per impedire ai Comuni di offrire retribuzioni troppo misere, che avrebbero allontanato i maestri dalla professione. I compensi, che erano inferiori a quelli riservati ai bidelli, andavano da un massimo di 1200 lire per i maestri delle scuole urbane fino a 500 lire per quelli delle scuole rurali, e per le donne dovevano essere ridotti di un terzo. Era poco, ma fu di nuovo un’inchiesta a svelare che c’era chi prendeva pure di meno. Molti comuni infatti scendevano sotto il minimo con la minaccia di licenziamento per quelli che avrebbero fatto difficoltà a accettare. Invalse poi l’uso di pagare con tale ritardo che i maestri erano costretti a vivere una vita non solo di stenti, ma anche di debiti. Così si scoprì che molti di loro associavano all’insegnamento altri lavori (riciclandosi come organisti, segretari, sagrestani, sarti, fattori, bottegai, contadini). Le troppe difficoltà paragonate agli scarsi guadagni convincevano gli uomini, su cui spesso gravava una famiglia, a non intraprendere la carriera che, accessibile anche alle donne diventò sempre di più appannaggio di queste ultime (le maestre erano 15.820 nel 1863 contro 18.443 uomini, salirono a 23.818 nel 1875, mentre i maschi erano 23.167; nel 1901 sarebbero diventate 44.561 contro 21.178 maestri). Certo che pure la loro preparazione lasciava a desiderare: subito dopo l’unità di Italia, l’esigenza di trovare maestri per le nuove scuole aveva spinto a chiudere un occhio sul loro livello culturale, facilitando l’acquisto di patenti di abilitazione. Capitò che i maestri furono assunti dopo avere frequentato conferenze appositamente predisposte e della durata di pochi mesi. Ancora nel 1872, 7284 maestri pubblici su 33.929 (il 21 per cento) erano privi di patente regolare e avevano un permesso provvisorio all’insegnamento. In fondo sembrava di non essere andati molto lontani da quanto accadeva in Francia alla fine dell’ancien régime, quando i maestri erano assunti alle fiere di paese: chi aspirava a fare da insegnante girava per il mercato gridando «maître d’école» e indossando un cappello piumato (una piuma significava che poteva insegnare a leggere, due che sapeva pure insegnare a scrivere, tre che ci aggiungeva l’aritmetica).
• Giannetto, giannettino e pinocchio. Anche per sopperire a questa quasi generalizzata ignoranza i maestri si affidavano ai libri di lettura, che erano letti in classe, oppure usati per i dettati. Questi testi tra l’altro erano importanti anche per instillare quell’educazione di cui si diceva, perfettamente in linea con l’ideologia del tempo. Uno dei più usati e famosi fu Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini, sessanta edizioni tra il 1837 e il 1880 quando morì l’autore, altre ventiquattro postume. Lo scopo è nella premessa dell’edizione del 1874: «Aiutare il maestro, le maestre, le madri di famiglia nella santa impresa di istruire i figlioli e di scolpire in essi i doveri verso Dio, sé medesimo, i congiunti e la Patria». Si racconta di un bambino, Giannetto, e delle sue esperienze da cui prendono l’avvio lezioni varie (un amico di Giannetto si rompe la testa cadendo dalle scale e parte una digressione sull’anatomia umana). C’era anche più di una nozione a carattere morale. Sul finire del secolo, Giannetto non riuscì a reggere la concorrenza di un altro testo simile: il Giannettino scritto nel 1876 niente meno che da Carlo Lorenzini, anche detto Collodi. Il quale a dire il vero, dovette soffrire un po’ per svolgere il compito. Tutto iniziò quando l’editore Felice Paggi ebbe l’idea di affidare a un brillante giornalista e traduttore delle fiabe di Perrault, il Lorenzini appunto, la redazione di un nuovo libro per le scuole e cominciò a insistere per convincerlo. Lasciamo parlare il fratello dello scrittore, Ippolito: «Carlo faceva il sordo! Finalmente messo, come suol dirsi, fra l’uscio e il muro, batti oggi, batti domani finì col dirgli: ”Quando sarà il momento lo faremo, ora non posso, non mi seccare, sono troppo martoriato di nervi”». Il momento venne quando il nostro un giorno s’accorse di non avere di che campare. La prima stesura fu per l’editore una delusione: Giannettino è un discolo troppo simpatico e nel libro manca la parte didascalica. Controvoglia Collodi si rimise al lavoro, limando e cancellando, per aggiungere quello che gli si chiedeva. Il libro ebbe successo, così l’autore fu costretto a scrivere altri testi didattici. Certo, noi lo ricordiamo soprattutto per Pinocchio, che fu pubblicato a puntate sul Giornale dei bambini prima che Collodi lo raccogliesse in un volume (1883). Riesce difficile non pensare che con le avventure del burattino, Collodi volesse compensare tutte le frustrazioni accumulate nella stesura del Giannettino. Un altro best seller del tempo fu l’edificante Cuore (1886) di Edmondo De Amicis. Questi, nato e cresciuto nel regno dei Savoia, era un tipico elemento della borghesia del tempo e scrisse il suo successo con chiari intenti pedagogici. Nel libro, che oggi è facile criticare per i suoi aspetti naif e per l’eccessivo sentimentalismo, c’era tutto il sogno della neonata Italia, una Nazione che si sarebbe dovuta formare anche grazie alla scuola. Come De Amicis ci insegna, il Paese era un insieme di tante realtà diverse, che però avevano il dovere di convergere verso un’unica direzione. Se ciò fosse a quel tempo riuscito non siamo sicuri, visto che a quasi trent’anni dall’unificazione lo storico Pasquale Villari osservò amaramente come la scuola elementare italiana era stata «imposta, anziché nata, e imposta dalla rivoluzione in nome di bisogni civili che non tutti riconoscono, né tutti sentono, porta i segni di una specie di costringimento con cui venne al mondo». In quello stesso periodo a Roma si laureava in medicina una sconosciuta Maria Montessori che avrebbe fatto dell’educazione una scienza.
• «Pinocchio è una creazione di pura fantasia. De Amicis, per scrivere il suo Cuore si è documentato nelle scuole torinesi del suo tempo. Pinocchio è di legno; Garrone e Coretti o il Muratorino sono di carne e d’ossa. Ma credo che sarete d’accordo con me se penso che Pinocchio sia cento volte più vivo e più vero del personaggi di De Amicis [...]. Le avventure di Pinocchio nascono in buona parte dal legno con cui è fatto; il De Amicis, invece, ubbidiva a una ispirazione realistica, documentaria [...]. L’ideale educativo a cui grosso modo e per istinto, più che per riflessione, si atteneva il Collodi, è oggi invecchiato, superato. In sostanza era l’ideale del ragazzino per bene della piccola borghesia moderata; un ideale al quale Pinocchio si ribellava, ma che finiva per accettare, trasformandosi purtroppo in un ragazzo in carne e ossa. Altrettanto superato è l’ideale pedagogico che muove Edmondo De Amicis [...]. Ma nonostante tutto questo noi possiamo leggere ancora con autentico divertimento e con profonda utilità morale il Pinocchio; mentre molte pagine del Cuore non resistono più alla prova della lettura [...]. E questo perché? Evidentemente perché la verità e la realtà di un libro non dipendono dalla scelta tra un metodo di lavoro e un altro, tra un campo d’invenzione e un altro, ma dalla qualità della fantasia, dalla sua libertà, dalla sua pienezza di vita» (il parere di un illustre lettore: Gianni Rodari).
• Gli educatori dell’Ottocento si accorsero di nuovo del corpo umano. Dopo secoli di silenzio sul tema, pareva quasi di incontrare uno strano sconosciuto. In un momento in cui si cominciava a dare fondamento scientifico alle indicazioni pedagogiche, non potevano mancare i sostenitori di un’educazione che riguardasse tutto l’individuo, fatto di muscoli oltre che di cervello. Fu così che la ginnastica diventò materia d’insegnamento anche in Italia. Specchio dei tempi è ancora una volta De Amicis, che nel romanzo breve Amore e ginnastica narra di una Torino di fine Ottocento che si anima al culto della forma fisica. Così i nostri maestri, che faticavano anche solo per farsi capire quando parlavano in italiano (sempre ammesso che lo parlassero), si misero a imparare esercizi ginnici per gli scolari. Uno dei più entusiasti sostenitori dell’educazione del corpo fu il medico e pedagogista tedesco Daniel Gottlob Moritz Schreber (1808 – 1861), che ebbe l’onore di dare il proprio nome a molte associazioni che nacquero ovunque in Germania e che si occupavano di educazione del corpo, di lavoro manuale ecc. La sua idea era che si dovesse curare la fiacchezza spirituale e fisica che sfiniva i popoli. Tutto bene fino a quando un figlio di tanto padre, brillante giurista, a quarantadue anni, impazzì. Preda di allucinazioni, si vedeva vittima di torture che un dio crudele gli infliggeva. Dopo qualche anno, quasi guarito, scrisse il libro Memorie di un malato di nervi e fu un successo. In breve ricadde nella malattia e fu internato in manicomio dove alla fine spirò. La vicenda attirò l’attenzione di Sigmund Freud, il quale notò analogie sconcertanti fra la prassi pedagogica del padre e le allucinazioni del figlio. Andando a guardare meglio la storia familiare del dottor Schereber, si scoprì che oltre al figlio impazzito ce n’era un altro morto suicida e una sorella anch’essa sofferente di gravi turbe psichiche.