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 2004  ottobre 24 Domenica calendario

«Se lei, caro signore, è felice di entrare in questa casa quanto io lo sono di lasciarla, lei è l’uomo più felice della Nazione»

• «Se lei, caro signore, è felice di entrare in questa casa quanto io lo sono di lasciarla, lei è l’uomo più felice della Nazione». Sono le parole che James Buchanan, presidente degli Stati Uniti d’America dal 1857 al 1861, disse al suo successore Abraham Lincoln. Pure l’eroe della guerra civile, però, trovò il modo di farsi cattivo sangue nella residenza presidenziale: «Questa dannata vecchia casa», la definì prima di finire assassinato da un sudista in un teatro di Washington (1865). E la storia dei cattivi rapporti tra inquilini e Casa Bianca non finisce qui: Truman, presidente dal 1945 (quando subentrò al defunto F. D. Roosevelt) al 1953, la chiamava «la grande prigione bianca», sua moglie Margaret raccontò che quando ci entrò le sembrò «una pensione di terza categoria». Famosa anche una battutaccia di Ford («la miglior casa popolare che abbia mai visto»), mentre qualche decennio prima William Taft (1909-1913) malediceva la vita alla Casa Bianca, «il posto più solitario del mondo». Lungo i 204 anni della sua storia, niente come l’evoluzione della Casa Bianca da semplice residenza del presidente a protagonista assoluta dell’immaginario americano, e persino di una serie tv (la pregevole West Wing), rende l’idea del difficile viaggio che i suoi inquilini hanno dovuto percorrere per giungere a divenire ”i capi del mondo libero”. Qualche breve cenno storico. I lavori di costruzione, in gran parte opera di scalpellini scozzesi e schiavi neri, durarono 10 anni: avrebbero potuto terminare prima ma il Congresso lesinava i fondi essendo contrario all’idea di «una reggia pagata dai contribuenti». Nonostante la Casa Bianca fosse stata progettata da George Washington, il primo a metterci piede fu il suo successore, John Adams: ci arrivò in cocchio con sua moglie Abigail il 1° novembre del 1800. Ma disavventure e carenze proseguirono nei decenni: Thomas Jefferson, qualche anno dopo l’inaugurazione, faticò a ottenere il permesso per sostituire con una stufa il forno aperto che affumicava le pareti; i gabinetti interni furono installati solo nel 1835, l’acqua calda corrente 18 anni dopo. Rutheford Jones arrivò a minacciare il Congresso pur di ottenere un telefono: l’ebbe nel 1879, numero telefonico ”1”. Ancora alla metà del secolo scorso, a causa del pavimento fradicio, il pianoforte di Harry Truman precipitò dal secondo piano al pianterreno. Solo poco più di cinquant’anni fa venne costruita l’ala occidentale, quella del famoso Studio Ovale, e i rifugi antiatomici sono anche più recenti. Insomma solo con la Guerra Fredda, la Casa Bianca è divenuta l’edificio capace di permeare di sé non solo l’immagine internazionale degli Stati Uniti ma anche quella che gli stessi americani hanno del loro paese. La grandeur della coppia Kennedy, quando Jacqueline aspirava a trasformare la residenza del presidente in una sorta di cenacolo delle arti capace di rivaleggiare per eleganza e prolificità culturale con la Versailles del re Sole, non è stato che l’abbrivio di quella che oggi - in tono minore - è una consuetudine: le first lady, appena preso possesso della nuova magione, si dedicano alla ristrutturazione e all’arredamento di intere sezioni della Casa Bianca (e, siccome la storia è un’infinita discesa, s’è assistito anche a una polemica tra la famiglia Bush e quella Clinton, rea quest’ultima d’eccessivo modernismo riguardo allo stile d’arredamento di alcune stanze).
• I primi presidenti. Si può dire che questa progressiva ”presa di possesso” della loro residenza ufficiale da parte dei presidenti non è altro che la rappresentazione simbolica della presa di possesso della leadership federale sugli Stati Uniti. Certo quando i padri fondatori, alla Convenzione di Philadelphia del 1787, stabilirono che la federazione delle 13 colonie ribellatesi agli inglesi si sarebbe data «un supremo magistrato» non immaginavano quel che ne sarebbe scaturito: ossessionati com’erano dall’incubo della tirannide, avrebbero avuto orrore della concentrazione di potere che la storia e la politica avrebbero messo nelle mani di quello che sobriamente decisero di chiamare «presidente degli Stati Uniti». In realtà si potrebbe guardare la storia dell’attuale iperpotenza come la continua lotta tra la Casa Bianca da una parte e il Congresso e i poteri locali dall’altra: una lotta che, pure se sotto traccia, continua ancora oggi, se è vero che tradizionalmente la Camera e il Senato esprimono una maggioranza ostile al ”comandante in capo” (durante i mandati di Bill Clinton, presidente e parlamentari ingaggiarono una battaglia feroce che bloccò buona parte dell’attività legislativa). In ogni caso l’introduzione della figura di un presidente negli Stati Uniti fu una novità inaudita nella politica internazionale. Alexis de Tocqueville, durante il viaggio negli Stati Uniti da cui scaturì La democrazia in America (1840), notava però che la carica era poco appetita a causa della debolezza del ruolo. Il motivo, secondo la geniale intuizione dello studioso francese, risiedeva nel fatto che gli Stati Uniti non avevano una politica estera: a suo parere il peso internazionale di Washington e quello interno della presidenza sarebbero aumentati di pari passo; in un’America protesa a dominare la scena internazionale, un presidente avrebbe addirittura potuto esercitare un potere semi-tirannico sul paese, puntando sull’acquiescenza dei cittadini di una democrazia. La storia gli ha dato in buona sostanza ragione. I primi presidenti degli Stati Uniti furono scelti all’interno dell’élite indipendentista: i ”federalisti” di George Washington e John Adams, primo e secondo presidente, interpretarono la Costituzione di Philadelphia nel senso di rendere più forte il potere centrale, mentre i ”democratico-repubblicani” si batterono per i diritti degli Stati e le libertà personali (caratteristica che ne fece i beniamini degli interessi del Sud). Nel 1800 i ”democratico-repubblicani” riuscirono a fare eleggere alla Casa Bianca il loro leader, Thomas Jefferson, uomo di personalità assolutamente straordinaria, dotato nei più svariati campi della cultura, delle scienze, della politica e della diplomazia (senza contare una certa passioncella per le schiave negre che gli procurò qualche figlio illegittimo e più di un grattacapo) e che si rivelò, soprattutto, un grandissimo presidente: lo storico Massimo Teodori ha definito i suoi 8 anni alla Casa Bianca «quasi una seconda fondazione». Malgrado il motto «il miglior governo è quello che governa meno», Jefferson usò largamente il suo potere: mentre l’economia viveva un periodo florido, favorì la corsa all’Ovest acquistando la Louisiana da Napoleone (costo: 15 milioni di dollari), democratizzò il sistema politico e le procedure elettorali, estinse il debito pubblico, ridusse le tasse e riuscì pure a fondare diverse università statali. Fu sempre Jefferson a ben guardare a propiziare l’avvento dell’uomo che portò alla Casa Bianca le istanze della nuova borghesia industriale e dei giovani stati dell’ovest: Andrew Jackson, presidente dal 1825 al 1833. Il generale che aveva battuto gli inglesi a New Orleans nel 1815 e prima ancora guidato una comunità di coloni nel Tennessee, fu il primo presidente ”democratico”, anzi fu lui stesso a organizzare il partito come movimento nazionale di massa riallacciandosi alla tradizione antifederalista di Jefferson. Ma Jackson fu soprattutto un presidente forte: quando nel ’32 la Carolina del Sud si oppose alle tariffe protezionistiche volute dal Congresso non esitò a inviare la Marina nel porto di Charleston (anche se, dopo un lungo braccio di ferro, fu costretto a firmare un compromesso).
• Il difficile 800 della casa bianca. L’Ottocento comunque non fu un secolo favorevole alle aspirazioni degli inquilini della Casa Bianca: i due grandi partiti dell’epoca, democratici e wigh, divennero federazioni di partiti statali e, nel pullulare degli interessi locali, non ci si poteva permettere che il presidente reclamasse troppa autonomia. Jackson e il suo successore Van Buren furono gli ultimi presidenti del XIX secolo a mantenere un forte controllo sui loro movimenti: con l’aggravarsi del conflitto sulla schiavitù fu impossibile arrivare a un accordo soddisfacente per tutti. Si trattava di molto più che d’un dissidio di tipo umanitario o economico, era il conflitto tra due stili di vita: il sud tradizionale e agricolo e il nord con la sua vorticosa e difficile modernità. Da questo crogiuolo nacque, nel 1854, il partito repubblicano, violentemente antischiavista, che a soli 6 anni dalla fondazione portò un suo uomo alla Casa Bianca: Abraham Lincoln. Il presidente della guerra civile americana, la cui statua sorveglia la capitale con sguardo grave, fu un uomo di potere dai toni spesso messianici ma anche capace di spregiudicatezza. Simbolico a questo proposito il modo in cui ottenne la candidatura alla Convention repubblicana: all’epoca non c’erano le primarie e il candidato veniva scelto dai capi del partito dopo estenuanti dibattiti (e ogni tipo di trucchi e scorrettezze). Lincoln fece stampare gli inviti a un suo amico tipografo, Ward Lamon: di giorno quello preparava gli ingressi ufficiali, la notte li duplicava. I fan di Lincoln si presentarono al botteghino del Wigwam di Chicago di buon’ora lasciando senza posti i sostenitori del rivale Seward: il futuro presidente ebbe la nomination.
• GLi Usa scoprono la politica estera. La Guerra civile, inevitabile con un repubblicano alla Casa Bianca, ratificò l’inevitabile vittoria dei nordisti e gli Stati Uniti, nei successivi 40 anni, si trasformarono «da repubblica rurale in una nazione urbana e industriale» (ancora Teodori). Una sola cosa continuava a mancargli: una politica estera. E fu un presidente oggi poco famoso a regalargliene una. William McKinley, eletto nel 1896 e rieletto 4 anni dopo, poco prima di essere ucciso, volle fortemente la guerra e la vittoria contro la Spagna del 1898, guadagnando agli Usa il controllo su Cuba e le Filippine, proiettando gli americani fuori dal loro Paese e l’America nel novero delle grandi potenze. Come aveva previsto de Tocqueville, fu questo il momento in cui il presidente degli Stati Uniti cominciò a liberarsi dai condizionamenti degli altri poteri appellandosi direttamente al favore di cui godeva presso il popolo. Peraltro, un punto altissimo dell’autonomia presidenziale coincise poi con una delle più cocenti sconfitte della Casa Bianca: il democratico Woodrow Wilson (1913-1921), uscito vittorioso dalla Grande Guerra, si vide negare dal Congresso la possibilità di continuare il suo impegno in Europa e dovette rassegnarsi, lui che ne era stato il promotore, all’idea che gli Stati Uniti restassero fuori dalla Società delle Nazioni (l’antenata dell’Onu). Il Novecento, comunque, ha visto progressivamente accentuarsi la centralità del ruolo presidenziale, anche grazie al sempre più importante ruolo internazionale degli Stati Uniti: basti citare il caso dei 4 mandati di Franklin Delano Roosevelt - dal 1933 al 1945, l’anno in cui morì - l’unico a violare la consuetudine inaugurata addirittura da Washington di limitarsi a 2 soli mandati (oggi non è più possibile: il Congresso nel 1951 s’affrettò a approvare il XXII emendamento che vieta una terza ricandidatura). Roosevelt, anche senza citare il New Deal, la sua entrata nella Seconda Guerra Mondiale e l’inquieta biografia di sua moglie Eleanor, è comunque uno spartiacque nella storia americana: il suo uso della tecnologia ricorda molto da vicino la sovraesposizione mediatica di Clinton o Bush jr. Roosevelt percorse migliaia di miglia in treno arrivando a tenere comizi fin nei villaggi più sperduti e inaugurò la tradizione di rivolgersi agli americani via radio per spiegare atti e strategie dell’Amministrazione. Anche nei mandati successivi la centralità della Casa Bianca continuò a aumentare esponenzialmente, esattamente come il numero dei componenti lo staff del presidente: nel secondo dopoguerra il popolo americano ha saputo amare e odiare i suoi presidenti, ma non ha potuto ignorarli.
• Bush e la maledizione dell’anno zero. E si arriva all’oggi. Con l’11 settembre il rapporto tra gli statunitensi e il loro presidente, se possibile, s’è fatto anche più stretto, un legame di sangue tra il leader e una nazione che ha visto il proprio territorio attaccato da un nemico esterno dopo ben 187 anni. Martedì 2 novembre, alle nove di sera, l’America avrà scelto il suo nuovo presidente: i sondaggi ce la mostrano incerta tra un democratico dall’immagine opaca e confusa, John Kerry, e il comandante in capo di una guerra pericolosa e un po’ sporca, George W. Bush. A quest’ultimo, peraltro, la legge dei numeri consiglierebbe di non essere rieletto: dal 1840 la sfortuna ha accompagnato tutti i presidenti eletti o rinnovati negli anni con finale zero. Nessuno di loro è arrivato indenne al termine del mandato: William Harrison, eletto nel 1840, morì di polmonite. Abraham Lincoln (1860) fu ucciso così come James Garfield (1880) e William McKinley, rieletto nel 1900. Warren Harding (1920) morì di malattia, Franklin D. Roosevelt, che conquistò il terzo mandato (su quattro) nel 1940, morì improvvisamente nel 1945. John Kennedy, eletto nel 1960, fu ucciso a Dallas nel 1963. Ronald Reagan, eletto nel 1980, fu vittima di un attentato e si salvò per un soffio. George W. Bush è stato eletto nel 2000.
• L’Air Force One, l’aereo presidenziale (che Kennedy volle bianco e blu) è un duplicato di Casa Bianca in forma di aereomobile. Marca Boeing, numero 747, modello 200, ha un’autonomia di volo di 2 giorni e, come un caccia, può esser rifornito anche in aria (il carburante a bordo consente comunque di volare per oltre 11.000 chilometri). In realtà ne esistono 2, in tutto gemelli, attraversati in ogni parte da una rete che tiene insieme circa 450 chilometri di cavi (più o meno il doppio di quella presente su un normale Boeing 747): da lassù si riesce a telefonare tanto agli astronauti quanto ai sommegibilisti (sembra che a bordo ci siano 85 telefoni, almeno una dozzina di tv e diversi proiettori). L’Air Force One è dotato di dispositivi anti-collisione e anti-missilistici; all’interno, un ambiente che ricrea lo Studio Ovale (la sala conferenza, con un tavolo a 8 posti, la suite del Presidente, con 2 letti, spogliatoio e toilette con doccia, la cambusa, in grado di fornire 100 pasti per volta). Ogni 154 giorni l’aereo viene smontato e ispezionato. L’Air Force One sarebbe dotato anche di una capsula blindata monoposto, perché il presidente possa mettersi in salvo in caso di distruzione dell’apparecchio.
• George W. Bush è il 43esimo presidente degli Stati Uniti, John F. Kerry potrebbe essere il numero 44. In realtà però i presidenti degli Stati Uniti sono stati uno in meno: il fatto è che il democratico Grover Cleveland fu presidente per due volte ma non consecutivamente, dal 1885 al 1889 e poi quattro anni dopo (dal 1893 al 1897), e viene conteggiato sia come 22esimo che come 24esimo presidente. Complessivamente la Casa Bianca è stata occupata per 88 anni dai repubblicani, 8 di più che i democratici.
• Dal 1960 gli ex presidenti percepiscono una pensione di circa 200.000 dollari, cui si somma la franchigia postale, un ufficio con personale a carico dello Stato e la protezione del Secret Service (3 milioni di dollari l’anno). Un tempo, le difficoltà per chi usciva dalla Casa Bianca erano notevoli. Harry Truman, a corto di soldi, cercò di ottenere un contratto come presentatore tv, ma non ci riuscì. Un preside gli propose di insegnare storia nella sua scuola, il proprietario di un’azienda agricola gli offrì di diventare suo socio, alla fine ottenne 600.000 dollari da un editore per la sua autobiografia.