Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Quando gli straccioni eravamo noi, la scommessa per la libertà si chiamava America e passava per Ellis Island, un isolotto di quattordici ettari a un centinaio di metri da Manhattan
• Quando gli straccioni eravamo noi, la scommessa per la libertà si chiamava America e passava per Ellis Island, un isolotto di quattordici ettari a un centinaio di metri da Manhattan. Dal 1892 al 1954, sotto le volte di un edificio dai mattoni rossi e bianchi sormontato da quattro torri con cupole a cipolla, l’ufficio federale Immigrazione processò 12 milioni di emigranti, valutandone identità, profilo sanitario e condizioni economiche. Al 1930, gli italiani passati di qui sono stati 5 milioni. L’altra metà si è divisa fra Halifax, in Canada, ”l’altra porta d’America”, l’Hotel degli Immigrati a Buenos Aires e l’Hospedaria a San Paolo.
Georges Perec in Ellis Island – Storie di erranza e di speranza la definisce così: «Una fabbrica per sfornare americani, una fabbrica per trasformare emigranti in immigranti, una fabbrica all’americana. Rapida ed efficace come una salumeria di Chicago». Ellis Island è passata alla storia anche come ”Isola delle lacrime”: famiglie spaccate, rimpatriati, suicidi, malati trattati come detenuti. Le statistiche ufficiali dicono che solo il 2 per cento è stato rifiutato. Tradotto, vuole dire che se ne sono tornati a casa in 250mila. Tremila hanno preferito il suicidio.
I transatlantici per New York, si chiamavano Lusitania, Mauretania, Duca degli Abruzzi, Principessa Mafalda, Re Vittorio, Regina Elena, Nord America.
Ma per milioni di emigranti, che avevano affrontato trenta giorni di viaggio col rischio di rimetterci la pelle erano ”navi lazzaretto”, giganti di ferro che stipavano nelle loro pance fino a duemila poveracci, ammassati su pagliericci sovrapposti.
• Ellis island.
«I destinati ad Ellis Island - ricorda sempre Georges Perec - erano quelli che viaggiavano nella stiva, al di sotto della linea di galleggiamento». Secondo il rapporto del medico della White Star Line, la stessa compagnia navale del Titanic, compilato durante un viaggio da Napoli a New York nel maggio 1905, «la temperatura non è la sola situazione che rende l’atmosfera irrespirabile nei dormitori. Vi concorre il vapore acqueo e l’acido carbonico della respirazione, i prodotti volatili che svolgono dalla secrezione dei corpi, dagli indumenti dei bambini e degli adulti, che per tema o per pigrizia non esitano a emettere urine e feci agli angoli del locale. La puzza è tale che il personale di bordo si rifiuta spesso di entrare per lavare i pavimenti». Ai moli del fiume Hudson, all’ombra della Statua della Libertà, i morti di fame della terza classe vedevano sfilare dagli oblò i passeggeri di prima e seconda, che potevano mettere piede in America dopo un controllo rapido al bagaglio e qualche formalità burocratica. I pezzenti di terza dovevano passare, invece, per Ellis Island. Coi figli in braccio e carichi di valigie di cartone strette con lo spago, abbrutiti dalla traversata, avevano cucito sui vestiti un cartellino con un numero corrispondente al libro mastro dei passeggeri. Per numeri venivano poi caricati sul battello del Dipartimento federale americano dell’immigrazione. «Il sole picchiava sul tetto di legno - ricorda un testimone - i finestrini laterali erano bloccati. Non potevamo muoverci di un centimetro. I bambini piangevano ininterrottamente. Il nervosismo era crescente».
In questa carretta del mare, ghiacciaia d’inverno, forno d’estate, i transfughi potevano rimanere per ore, senza acqua, né cibo e non c’erano servizi igienici. I due piani del Servizio Immigrazione di Ellis Island erano organizzati come una catena di montaggio, con tempi precisi. Se tutto andava per il meglio te la cavavi in cinque o sei ore, se c’era un intoppo o te ne tornavi a casa o finivi per giorni e settimane nell’ospedale dell’isola. In cima alle scale, gli ispettori osservavano chi saliva, per identificare chi aveva problemi di deambulazione, mostrava segni di affaticamento che potessero segnalare problemi cardiaci, rideva, si mangiava le unghie o evidenziava comportamenti che facessero sospettare una malattia mentale. Gli emigranti a ogni passo mostravano la loro Inspection Card, che veniva timbrata e annotata. Nella grande Registry Room i dottori verificavano il candidato da testa a piedi, in cerca di sintomi di malattie e deformità. Avevano 6 secondi per la diagnosi. I sospetti venivano marchiati con il gesso sugli abiti utilizzando segni convenzionali (’pg” per una donna incinta, ”c” per la tubercolosi, ”e” per problemi agli occhi e ”h” per quelli di cuore, ”k” per un’ernia, ”l” per chi era zoppo, ”sc” per un cuoio capelluto che non andava, ”tc” per il tracoma e ”x” per problemi di mente) e costretti, attraverso le ”scale della separazione” dove intere famiglie sono state spezzate, in un’altra sala per un esame più approfondito. Chi non lo passava o risultava malato di tigna, tubercolosi o tracoma veniva rimpatriato.
• Visita e selezione. La scrittrice Melania Mazzucco, in Vita, ha raccontato la visita medica di Diamante, fra i protagonisti del romanzo: «La prima cosa che gli tocca fare in America è calarsi le brache. Gli tocca mostrare i gioiellini penzolanti e l’inguine ancora liscio come una rosa a decine di giudici appostati dietro una scrivania. Lui nudo, in piedi, desolato e offeso, quelli vestiti, seduti e tracotanti. La vergogna è inizialmente centuplicata dal fatto che indossa un paio di brache di suo padre, gigantesche, antiquate e logore, talmente brutte che non se le metterebbe neanche un prete».
Quelli che avevano superato l’ispezione venivano chiamati ai Legal Desks, dietro cui c’era un ispettore e un interprete. Per un periodo anche Fiorello La Guardia, celebre sindaco di New York, fu interprete di yiddish e italiano. Due minuti e ventinove domande per decidere se l’emigrante aveva o no il diritto di entrare negli Stati Uniti. Fra i quesiti, il più insidioso era sul lavoro. ancora Melania Mazzucco a raccontare il passaggio: «La maggior parte ha un contratto di lavoro. Ma tutti lo hanno negato. Così bisognava». La ragione? Per tutelare i salari americani dalla concorrenza di manodopera a basso costo proveniente dall’estero, dal 1885 una legge escludeva gli immigrati con un contratto di lavoro. Se c’erano problemi, si era soggetti a una Special Inquiry, un interrogatorio molto più approfondito. Se tutto era andato per il verso giusto, l’ispettore rilasciava il visto, lasciando andare l’emigrante con un Welcome to America. Il Literacy Act del 1917 e l’Immigration Quota Act del 1921 resero più strette le maglie di Ellis Island.
La quota d’ingresso complessiva venne fissata a 358mila unità, da spartirsi fra italiani, spagnoli, turchi, portoghesi, greci, tedeschi e inglesi, scesa a 164mila nel 1929. Il Literary Act pretendeva che gli emigranti fossero in grado di leggere e scrivere nella loro lingua d’origine e che fossero sottoposti a test d’intelligenza. Come fossimo messi è presto detto. Ira A. Glazier e Robert Kleiner hanno studiato le liste passeggeri dei transatlantici. Su due navi a caso arrivate negli Usa nel 1910, gli analfabeti italiani sbarcati dalla Madonna erano il 71 per cento del totale. Per quello che riguarda le quote, la chiusura degli sbocchi migratori significò per molti essere respinti allo sbarco e la fine di un sogno. Per Ellis Island la fine del periodo d’oro.
• La miseria. Gli emigranti fuggivano dall’Italia del colera, della miseria e dal Paese fotografato dalla Inchiesta sulle condizioni della classe agricola di Stefano Jacini del 1882. «Nelle valli delle Alpi e degli Appennini - si legge - nelle pianure, specialmente dell’Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri, ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano a centinaia di migliaia». «In Sicilia - continua la relazione - in una medesima stanza o stamberga convivono persone d’ambo i sessi e di diverse età, sdraiati sulla paglia, in compagnia del maiale, o di altre bestie, in mezzo al sudiciume e al lezzo». E ancora a proposito delle terre della provincia di Parma: «Le stalle e i magazzini fanno corpo colla casa colonica. La nettezza urbana è del tutto negletta. Le case hanno poca luce e non avrebbero aria se non la ricevessero dalle pareti mal connesse e cadenti. Non è punto curata la nettezza dei villaggi, massime, di quelli posti sulle montagne, dove si lascia fermentare nelle pubbliche vie ogni specie d’immmondizie». Vivevano in questi posti gli italiani che hanno gonfiato le liste dei transatlantici per decenni.
Partivano dai porti di Marsiglia, Le Havre, Liverpool, Amburgo, Brema. In Italia è il porto di Genova a gestire per quasi un secolo la mole più consistente del traffico di emigranti. Dal 1876 al 1901, sei su dieci scelgono la città ligure per attraversare l’Oceano. Negli anni successivi le si affiancheranno, con sempre maggiore peso, Napoli, Palermo e Messina. Arrivavano in prossimità del punto di imbarco con un biglietto di terza classe che avevano pagato anche 150 lire, circa 2 milioni e mezzo di lire. Avevano dovuto lavorare nei campi 100 giorni per raggranellare quella cifra, cui dovevano aggiungere anche le 8 lire del «Passaporto rosso», che li inquadrava nella categoria della manovalanza per lavori umili. Per i morti di fame di terza classe che nel 1916 ebbero la sventura di imbarcarsi sul Titanic della White Star Line il biglietto era costato 32 dollari, l’equivalente di 1200 euro di adesso. Un biglietto di prima classe costava sul transatlantico inglese 3100 dollari, pari a 110.000 euro. Oltre alla White Star Line, le compagnie di navigazione che andavano per la maggiore erano le inglesi Prince Line, Dominion Line, Cunard Line, Anchor Line, le tedesche Hamburg America Line e Lloyd Bremen. La sola compagnia italiana era la Navigazione Generale Italia, nata nel 1881 dalla fusione dei due gruppi armatoriali Florio e Rubattino.
• L’imbarco. Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore, racconta nel libro Sull’oceano, l’imbarco degli emigranti a Genova: «Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una sedia pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materassi e coperte, e il biglietto della cuccetta stretto fra le labbra. Molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo». Mentre nel porto di Marsiglia era stato aperto nel 1844 un nuovo bacino di ancoraggio, il porto di Rotterdam, nel 1875, aveva 7 bacini collegati e a Brema era stato creato, nel 1866, uno dei bacini di approdo più moderni d’Europa, nel 1890 a Genova c’è un solo ponte d’imbarco per i passeggeri. il Ponte Calvi, situato nella parte orientale del porto, lontano dalla stazione ferroviaria e senza strutture di accoglienza. Le uniche erano quelle adibite ai controlli igienici sanitari e alla bonifica dei bagagli.
In attesa di partire, questi poveracci rimanevano sulla banchina o erano preda degli agenti delle Compagnie, che avevano incluso nel prezzo del biglietto anche la notte in una locanda. Non era raro vedere centinaia di famiglie sdraiate promiscuamente sull’umido pavimento, o sui sacchi, o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei, o in soffitte miserabili, senz’aria e senza luce. Risultato: morti per annegamento, resse, ferimenti. Come fossero, poi, le locande lo racconta il quotidiano genovese Il Caffaro: «Oscure e fetenti, con letti di una sporcizia inaudita». Una descrizione confermata da un verbale del 1903 delle guardie sanitarie comunali, che li descrive come «ambienti privi d’aria, sporchi, umidi, puzzolenti, dove dormivano 50 emigranti, la maggior parte per terra tra materiali fecali e orina».
• In navigazione. Poi, finalmente, la partenza e il viaggio. Nell’epoca d’oro della navigazione per mare tutto poteva accadere. Si poteva sbarcare in un posto diverso da quello prefissato. Si poteva naufragare. Come il Titanic, che nel 1912 portò sul fondo del mare anche il suo carico di emigranti. Come il nostro Principessa Mafalda della Navigazione Generale Italiana, inabissatosi al largo delle coste di Bahia: 657 morti ufficiosi, 314 ufficiali, su 977 passeggeri e 287 uomini d’equipaggio. Vent’anni di onorata carriera, lungo 146 metri e largo 17, con motori da 18 nodi, era partito da Genova l’11 ottobre 1927 e era diretto in Sudamerica. La partenza era stata rinviata di ore e lungo il tragitto le eliche si erano fermate otto volte. «Eravamo in ritardo di 27 ore - ricorderà 50 anni dopo Flora Forciniti, una sopravvissuta - e durante tutta la traversata la nave era rimasta pericolosamente storta. L’inclinazione era tale che la mattina non potevamo poggiare la tazza col caffellatte perché si sarebbe rovesciata». Poi alle 17 di martedì 25 ottobre si stacca l’asse di un’elica e dalla falla la nave imbarca acqua e si piega. Le poche scialuppe e i tanti squali sono gli altri elementi di questa tragedia.
«La cosa che accadeva con maggiore frequenza era di contrarre malattie contagiose a causa delle condizioni di affollamento e di sporcizia cui avveniva la traversata», spiega Augusta Molinari in Porti, trasporti, compagnie. Basta leggere il diario di bordo del piroscafo ”Città di Torino”, salpato alla fine del 1905 da Genova: «A oggi su 600 imbarcati ci sono stati 45 decessi dei quali: 20 per febbre tifoide, 10 per malattie broncopolmonari, 7 per morbillo, 5 per influenza, 3 per incidenti di coperta».
«A differenza delle navi straniere per emigranti - evidenziano Oreste Grossi e Gianfausto Rosoli in Il pane duro a proposito dell’alimentazione durante la traversata - quelle italiane non avevano una sala da pranzo. La distribuzione del cibo era fatta in maniera umiliante, senza l’osservanza delle elementari norme igieniche, per ranci, cioè gruppi di 6 persone, uno dei quali per turno era incaricato del ritiro delle vivande dalla cucina». «Il cibo - spiega Georges Perec - consisteva in patate e aringhe». Ulderico Bernardi in Addio patria racconta della Champagne, che salpava da Le Havre per New York con 74 ospiti, divisi fra la prima e la seconda classe, e i restanti 540 stipati in terza classe. In prima si mangiava potage al madera, petite paté aux truffes, salmone in salsa olandese, filetto di bue Reinassance, asparagi bianchi, pommes brioches, sella d’agnello arrosto, tacchino aux cressons, gateau Madeleine, glace vanille, dessert. In terza, invece, si dormiva su un sacco imbottito di paglia e c’era un orinatoio ogni cento persone. «Accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto fra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, i nostri emigranti mangiano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi - scriveva Teodoro Rosati, colonnello medico della Regia Marina - un avvilimento morale e un pericolo igienico. Ognuno può immaginarsi che cosa sia la coperta di un piroscafo sballottato dal mare, sulla quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie e involontarie di quelle popolazioni viaggianti». Il racconto di un Commissario di bordo, sceso nei dormitori, colpisce Edmondo De Amicis che lo riporta Sull’Oceano: «Aveva visto là sotto masse intricate di corpi umani, gli uni sopra e a traverso agli altri, con le schiene sui petti, coi piedi contro i visi e le sottane all’aria; viluppi di gambe, di braccia, di teste coi capelli sciolti, striscianti, rotolanti sul tavolato immondo, in un’aria ammorbata, in cui da ogni parte risuonavano pianti, guaiti, invocazioni di santi e grida di disperazione». In L’assistenza sanitaria degli emigrati e dei marinai, sempre Teodoro Rosati ricorda: «L’emigrante si sdraia vestito e calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano orine e feci, i più vi vomitano: tutti, in una maniera o nell’altra, l’hanno ridotto dopo qualche giorno ad una cuccia da cane. A viaggio compiuto, con sudiciume e insetti, il letto è pronto ad accogliere un nuovo partente».
• Lo sbarco. Appena usciti da Ellis Island, scrive Melania Mazzucco, «tutti si cercano, si chiamano in dozzine di lingue, per lo più aspre e gutturali. Tutti hanno qualcuno che è venuto a prenderli, o li aspetta al molo, un indirizzo scarabocchiato su un foglietto, il nome di un parente, di un connazionale, di un padrone». Presto si sarebbero resi conto che quello che gli era stato racccontato dell’America non era per niente esatto. «La terra forse apparteneva davvero a tutti - racconta Perec - ma quelli che erano arrivati per primi si erano già ampiamente serviti. A loro non restava che ammassarsi in dieci nei tuguri senza finestre del Lower East side». O a Five Points, reso celebre da Gangs of New York di Martin Scorsese, dove secondo Adolfo Rossi, viveva la maggior parte degli italiani. «Un agglomeramento di casacce nere e ributtanti - scrive nel 1894 nel suo Un italiano in America - dove la gente vive accatastata peggio delle bestie. In una sola stanza abitano famiglie numerose: uomini, donne, cani, gatti e scimmie mangiano e dormono nello stesso bugigattolo. Senza aria e senza luce».
«Presto - conclude Perec - si sarebbero resi conto che le strade d’America non erano lastricate d’oro. Anzi non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire».
• Tutti i modi di dire "italiano".
In tutti i paesi in cui la presenza dei nostri emigrati è stata forte, sono nati sugli italiani soprannomi di ogni genere: spiritosi, volgari, infamanti. Eccone una breve raccolta.
babis: rospi (Francia, fine Ottocento).
Bat: pipistrello (diffuso in certe zone degli Usa alla fine dell’Ottocento e ripreso dall’Harper’s Weekley
per spiegare come molti americani vedessero gli italiani «mezzi bianchi e mezzi negri»).
Dago: il più diffuso e insultante dei nomignoli ostili nei paesi anglosassoni. Incerta l’etimologia. C’è chi dice venga da they go, finalmente se ne vanno. Chi da until the day goes, finchè il giorno se ne va, nel senso di ”lavoratore a giornata”. Chi da Diego, uno dei nomi più comuni tra spagnoli e messicani. Ma i più pensano che venga da dagger, coltello, accoltellatore.
Black dago: dago negro (Louisiana e stati confinanti, fine Ottocento, per sottolineare come più ancora degli altri dagoes, gli italiani fossero simili ai negri).
Bolanderschlugger: inghiotti-polenta (Basilea e Svizzera tedesca).
carcamano: furbone (quello che calca la mano sul peso della bilancia, usato in Brasile).
Chianti: ubriacone (Usa, con riferimento al vino toscano).
Christos: cristi (Francia, fine Ottocento, probabilmente
perché i nostri erano visti come dei grandi bestemmiatori).
Greaseball: palla di grasso o testa unta (Usa).
Guinea: africani (Louisiana, Alabama, Georgia, dove era più radicato il pregiudizio sulla ”negritudine” degli italiani).
Maccheroni, macaroni, macarrone: mangia pasta (in tutto il mondo e tutte le lingue).
Mafia-mann: mafioso (Germania).
Maiser: polentone (Basilea, nel senso di uomo di mais).
Messerhelden: eroi del coltello, guappi (Svizzera tedesca).
Modok: pellerossa (Nevada).
Salamettischellede: affetta salame (Basilea).
Wog: wily oriental gentleman (’astuto gentiluomo orientale”, detto con sarcasmo. Voce gergale, usata in Australia anche per i cinesi e altri emigranti poco amati).
Wop:without passport, without papers (nei paesi di lingua anglosassone ”senza documenti”,
ma la pronuncia wàp si richiama
a guappo).