Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
A inizio Novecento, a quarant’ anni, Bergson andava a lezione col cilindro, e, temendo le correnti d’ aria, lo teneva in testa; ma non mancava di controllare che le finestre fossero socchiuse
• A inizio Novecento, a quarant’ anni, Bergson andava a lezione col cilindro, e, temendo le correnti d’ aria, lo teneva in testa; ma non mancava di controllare che le finestre fossero socchiuse. C’ erano stati infatti, per la calca, degli svenimenti - e per la verità, per entrare, anche delle scazzottature. Molti studenti stavano appesi alle balaustre; altri si pressavano dalla strada, mille, per un anfiteatro che ne accoglieva 370. Le dame mandavano i valletti, al mattino, per tenere il posto, e il professore di tedesco protestava: "Signori, mentre aspettate Monsieur Bergson, abbiate la cortesia di subirmi in silenzio!".
• Ammutolivano tutti, all’ arrivo della sagoma sottile e quasi smaterializzata dall’attillata redingote; aureolato dalla tenue luce di una lampada, e senza un appunto, Bergson parlava, spesso a mani giunte: proviamo a alzare un braccio, argomentava però. Il gesto sarà determinato, e come recitato, da tutto il nostro passato; sarà una sorta di memoria in azione. E se quel braccio dovesse sollevare il peso di tutte le esperienze che plasmano il ritmo e la forma del gesto, rendendolo unico, non riusciremmo a spostarlo di un millimetro.
Bergson lo disegnava alla lavagna, aereo e perfetto, il cono rovesciato della vertigine di tutto quello che abbiamo dimenticato, e che non abbiamo dimenticato affatto, e che ci portiamo addosso mentre avanziamo sempre, spostandoci leggeri, con la punta del cono di memoria che noi siamo, sulla superficie del presente. E’ questo getto permanente, la vita, che procede senza che nulla si perda, e sempre accrescendosi - l’ immensa corrente dell’ Evoluzione creatrice (il capolavoro del 1907 esce per la prima volta in forma integrale da Raffaello Cortina nella cura di Fabio Polidori, euro 24).
• Bergson si spiegava spesso disegnando figure geometriche; da ragazzo aveva adorato le scienze esatte. "Ma è una pazzia!", aveva esclamato il suo professore di matematica del liceo, quando Bergson si era iscritto a Lettere. Per sfida, una volta gli aveva sottoposto il problema detto dei tre cerchi, risolto nel Seicento da Pascal. Bergson aveva trovato la soluzione, ma poi, come Pascal, aveva scoperto che il mondo morale aveva le sue attrattive. Le matematiche non avevano presa ad esempio su un problema primario come il tempo - Bergson lo raccontava a Papini nel 1903, in una delle mille e ottocento lettere che André Robinet ha raccolto da un centinaio di fondi nel mondo, e ora pubblica da PUF (Correspondances, pagg. 1750, euro 75).
• La scienza, l’ intelligenza, non sanno cos’ è il tempo. Per rappresentare il moto di un treno, elencano le fermate; un film è per loro una giustapposizione di fotogrammi - Bergson amava il cinema; la memoria per lui era un magazzino di film che si avvolgono indefinitamente. E così si era ritrovato, nell’ austera Ecole Normale, insieme a Durkheim e Jaurès. Durkheim, il futuro sociologo, declamava a gran voce, nella tromba delle scale, le sue teorie, e quando gli obiettavano che la realtà le smentiva, "Eh bien", tuonava, "i fatti hanno torto!". Bergson invece ascoltava pieno di deferenza l’ interlocutore, con il riserbo, la buona educazione e l’incarnato roseo che aveva ereditati dalla madre, una scozzese dagli occhi pervinca che non si era mai rivolta ai sette figli altro che in inglese (per la voce di Bergson vai a www.ac-clermont.fr).
• Di fatto, Bergson era così beneducato che lo chiamavano Miss. Ma il più bravo era il sanguigno Jaurès; "l’ho perso di vista, quando si è accostato al socialismo", sorrideva Bergson, che si dichiarava "moderato per abitudine, liberale per istinto". Ma anche lui entrava nella politica e nella Storia, se la Francia richiedeva il suo intervento. Durante la Grande Guerra, fu incaricato di recarsi negli Stati Uniti e di usare le sue relazioni e il suo immenso prestigio per convincere il presidente Wilson a entrare in guerra. Il diario e le lettere di quelle missioni del 1917 sono una lettura tra le più interessanti del monumentale epistolario.
• Si crede di sognare, leggendo Bergson che annota: "me ne infischio", oppure: "reazionario antibolscevico". Anche nel ’40 scrisse a Roosevelt; ormai la malattia reumatica gli aveva tolto fluidità e spontaneità all’ atto di scrivere: non scrivo più, diceva, disegno - oppure si faceva aiutare dalla moglie. Sempre si ritrova, in ogni lettera, la sua lingua impareggiabile. La libertà - prima ancora di infonderla all’ universo, rompendo i congegni automatici del determinismo con lo slancio continuamente inventivo della vita - l’aveva data alla lingua della filosofia, che diventava con lui limpida e immaginosa, mai tecnica e sempre trasparente; sicché quando nel ’28 gli conferirono un Nobel, era per la Letteratura. Semmai la dimensione personale carica ancora di semplicità, e quasi di un sospetto di imbarazzo, l’ espressione dei sentimenti.
• Quando lo scrittore Péguy parte in guerra, Bergson accenna una promessa: se Péguy dovesse perdere la vita, lui si occuperà dei suoi - lo fece, negli anni, con tipica frugalità di parole; si occupò delle risorse della moglie, della carriera dei figli, solo una volta confidando a Valéry: il ricordo di Péguy è una montagna. Ci sono poi splendidi dibattiti filosofici; con i pragmatisti americani, o sull’ idea di Dio. Bergson collabora con Marie Curie, e chiede consigli su Le Rire alla contessa Murat (una delle dame di cui Bergson frequentava i salotti seguiva e trascriveva le sue lezioni al Collège de France; Robinet ne prepara l’ edizione, e fin d’ ora assicura che possiamo prepararci all’ entusiasmo).
• Nel 1925, Bergson comunica a Einstein il suo dolore per non poter essere presente all’ inaugurazione dell’ Università di Gerusalemme. Invita a parlare di estetica della pittura il grande ritrattista Jacques-Emile Blanche, che lo aveva raffigurato, sparando sul triangolo intento del volto da civetta il rosa tenero delle guance e l’ azzurro degli occhi, incredibilmente luminosi. Spesso, Bergson parla di storia ("quanto Cavour era superiore a Bismarck!"); e spessissimo riflette sulla lingua. A Benedetto Croce, scrive lodando, al di là del sistema filosofico "forte", l’ "italiano veramente letterario". Per definire il ruolo della rivista La Voce, usa con Prezzolini, in italiano, una parola complicata, "desclerotizzare". Alla fine - lui che nel ’14, salendo alla poltrona dell’ Académie, e trovandola sepolta di petali, aveva mormorato: "ma non sono mica una ballerina" - non poteva quasi più muoversi. Ma rimane leggendario il gesto con cui aveva rifiutato il sinistro titolo di "ariano onorario" che gli occupanti nazisti gli avevano offerto; sorretto dal cameriere, e avvolto in una coperta, si era presentato in prefettura, a iscriversi nella lista degli ebrei.