Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Per ritrovare noi stessi non c’è bisogno di andare in India
• Per ritrovare noi stessi non c’è bisogno di andare in India. Basta guardare nelle nostre tasche. La carta di identità, con professione e indirizzo. La tessera della palestra e libretto della macchina. E poi pranzi, frugali o luculliani, rivelati dagli scontrini del supermercato, agendine che spiano la cerchia delle nostre amicizie. Noi siamo, con ragionevole approssimazione, le poche parole che ci portiamo dietro. Testi scarni, calligrafie tese, tonde, ci svelano. E se nel portafogli c’è il riassunto di una vita, a maggior ragione le parole contenute nei pezzi esposti nella mostra torinese Dal segno al messaggio sono il riassunto dell’evoluzione dell’uomo. Non sono libri, né poesie, ma lapidi, bolli, papiri, tavolette cerate, etichette stampate su vasellame: tutto quello che è servito all’umanità in cinque millenni per manifestare il pensiero, testimoniare la proprietà, garantire la qualità di un oggetto, perpetuare la memoria. In buona sostanza a Torino si può vedere esposto tutto quanto è stato indispensabile all’uomo per estendere la sua personalità. E imparare che delegare a un testo scritto la nostra volontà ci libera dalla schiavitù della presenza.
• Dallo studio della scrittura si intuisce il carattere di tanti popoli antichi: severi gli scriba egiziani, che su un papiro esposto in una delle prime teche della mostra scrivono una dura ramanzina per uno studente svogliato. Oculati i mesopotamici, che concepirono la scrittura non per scrivere odi agli Dei, ma per fare inventari precisi delle tante merci conservate nei loro magazzini. Accorti gli etruschi, che l’alfabetario se lo portavano fin nella tomba, non potendo prevedere che sarebbe stato il testamento l’ultima cosa che avrebbero scritto.
• A Torino sono anche raccontati tutti gli sforzi, l’ingegno e l’energia necessari perché i materiali più diversi si piegassero alla volontà di manifestare il pensiero, e di trasmetterlo ai posteri. Per questo la mostra si apre con un graffito rupestre del terzo millennio avanti Cristo, trovato nei dintorni di Biella: un cane, un viso appena abbozzato, un omino stilizzato. Frutti acerbi di una volontà matura, capace di spingere un nostro anonimo antenato a scolpire con fatica un lastrone di roccia. Tanto robusto da essere poi utilizzato per secoli come mensola di un balcone di una cascina, prima che un archeologo si accorgesse per caso della preziosità del manufatto.
In casi come quello di Biella, l’estrema sintesi del messaggio deve essere valutata tenendo conto della difficoltà di lasciare il segno. Negli Sms (i messaggi spediti dal telefonino), la scomodità della tastiera costringe ad utilizzare una forma di linguaggio sintetica. Se, per ventura, ogni lettera dei messaggini telefonici la dovessimo scolpire a martellate su un lastrone di granito, saremmo estremamente laconici.
• Seimila anni fa la nostra Penisola non era assolutamente all’avanguardia nel campo della parola scritta. Per quanto riguarda le tecnologie dell’informazione, la Silicon Valley di quei tempi era in Mesopotamia.
Un’area che corrisponde alla zona centrale dell’Iraq, tra il fiume Tigri e l’Eufrate. Ma perché proprio lì, e proprio in quel momento?
Due sono gli indiziati principali di questo mistero. Già tremila e cinquecento anni prima di Cristo in quella terra fioriva una civiltà avanzata e organizzata. Gli scambi incessanti e la facile reperibilità della terracotta contribuivano a fare nascere le prime forme di lingua scritta. Non furono poeti o sacerdoti a elaborarla, ma i contabili, che solo per questo dovrebbero per sempre essere affrancati dall’immagine di grigiore e mancanza di fantasia che ancora oggi li offusca. Incidendo tavolette di argilla, che poi venivano cotte fissando i segni, si iniziò a inventariare merci, a certificare entrate e uscite dai centri amministrativi. Le tavolette ricoperte di caratteri cuneiformi esposte a Torino svelano anche altro. Gli antichi, immediatamente dopo aver scoperto come registrare e trasmettere informazioni, scoprirono anche la necessità di proteggerle. In certi casi, infatti, era indispensabile poter mantenere la riservatezza dei messaggi. In poche parole scoprirono la necessità della privacy. Proprio per questo in Mesopotamia le tavolette che contenevano documenti venivano rinchiuse in ”buste”, sempre di terracotta, che portavano incisi bolli o caratteri originali, difficili da imitare o falsificare. Chi avesse voluto spiare il contenuto della tavoletta sarebbe stato costretto a rompere la busta, rivelando il suo illecito proposito.
• Quanto fosse sentita la necessità di proteggere le informazioni, una volta riusciti a fissarle su un supporto durevole, trapela dalla grande varietà di bolli, stampi e sigilli che accompagnarono quasi dal primo istante tutte le corrispondenze. Solo così si sarebbe potuto certificare che le informazioni contenute in quelle prime comunicazioni commerciali corrispondessero alla realtà. Che fossero, in poche parole, effettivamente garanti della qualità e della quantità delle merci che venivano vendute e acquistate. Per questo i sigilli erano posseduti solo da funzionari autorizzati, che avevano un compito molto simile a quello che adesso viene assolto dai notai. All’inizio i sigilli erano stampi piani, poi si imposero quelli di forma cilindrica. Lasciavano un’impronta inconfondibile e venivano fatti rotolare sull’argilla fresca. Questi strumenti vennero fin dall’inizio utilizzati anche per certificare l’autenticità dei contratti di compravendita. Ma siglare qualcosa, fissare l’appartenenza per sempre, era anche una maniera per affermare la propria potenza. Per questo in Mesopotamia Nabuccodonosor contrassegnò con il suo nome tutti i mattoni cotti nelle fornaci durante il suo regno di Babilonia. Parallelamente, a partire dal quarto Millennio avanti Cristo, nell’antico Egitto si sviluppò la tecnica dei geroglifici. Era un sistema di scrittura che si componeva di tre elementi: gli ideogrammi (in buona sostanza disegni stilizzati), che rappresentavano oggetti o azioni; i fonogrammi, altri segni che rappresentavano i suoni delle consonanti (le vocali venivano rese solo in fase di lettura); infine le tracce, che permettevano di individuare il significato preciso dell’ideogramma (abitualmente ne assumeva diversi a seconda del contesto). Una tecnica così complessa era padroneggiata dagli scriba, una casta a parte della società egiziana. Gli scriba godevano di un particolare prestigio perché la scrittura in Egitto era pervasa da una sacralità che si trasferiva solo su chi ne conosceva i segreti per interpretarla. La scrittura cuneiforme mesopotamica o i geroglifici avevano però un limite: la struttura era tanto complessa e rigida da limitarne la diffusione. Così l’evoluzione della scrittura coincise con la semplificazione, un processo che si è poi replicato incessantemente fino ad oggi. I computer testimoniano da ogni scrivania che più le tecniche diventano raffinate, più sono semplici e utilizzabili dal maggior numero di utenti.
• I nuovi sistemi di scrittura entrarono in crisi intorno al primo Millennio avanti Cristo. Il sistema alfabetico, adottato prima dagli abitanti della Siria e poi dai fenici, per poter meglio commerciare con tutto il Mediterraneo, era infinitamente più semplice di quello cuneiforme o dei geroglifici. L’alfabeto, infatti, permetteva di utilizzare una serie di supporti più leggeri e maneggevoli rispetto alla creta. Tela, papiro, pergamena, tutto poteva andare bene. Un appunto lo si poteva anche graffiare velocemente su un coccio. Il segno, inoltre, non doveva essere necessariamente inciso (un’operazione sempre abbastanza lunga): finalmente lo si poteva tracciare intingendo una punta dura o un pennello in una sostanza liquida colorante. L’alfabeto fonetico, che permette di associare ad ogni segno un suono, si rivela subito lo strumento ideale per poter essere utilizzato in lingue diverse. Per questo si diffuse velocemente in tutto il Mediterraneo. Lo utilizzarono, con piccoli adattamenti, i greci, gli etruschi e poi i romani. Grazie al genio di questi popoli la scrittura diventa matura, si trasforma in un elemento essenziale nella vita quotidiana. Naturalmente, della quotidianeità la scrittura assorbe i vezzi, il gusto, le abitudini. Sono i greci ad introdurre una particolare cura nella disposizione armonica delle lettere. Con loro si affermano la grafica e le sue leggi. Nella scrittura epigrafica greca le lettere cominciano ad essere scolpite con ombreggiature e motivi decorativi. Spariscono quasi del tutto le abbreviazioni e i punti di interpunzione perché la perfezione formale è rappresentata dalla scansione delle lettere a scacchiera.
E se socialmente padroneggiare le lettere è un segno di distinzione e di cultura (gli etruschi si portavano con orgoglio, fin nella tomba, calamai e alfabetari), è con la sua diffusione che il segno scritto diventa essenziale, tanto che alcune applicazioni sono in uso ancora oggi.
• Per l’Amministrazione statale romana i documenti diventano la base dell’organizzazione di uno Stato complesso. Qualche esempio? I soldati romani portavano con sé un particolare documento di riconoscimento, simile alle piastrine metalliche al collo dei nostri soldati. Su una sola faccia di due sottili lamine di bronzo venivano incise tutte le informazioni utili: grado, arma di appartenenza, dati anagrafici. Poi i due fogli metallici venivano chiusi a libretto, lasciando all’interno i dati, e sigillati dagli ufficiali. Solo le autorità, in caso di controllo, avevano la facoltà di rimuovere i sigilli. Il militare invece, per gli usi personali, riceveva soltanto una più vile copia del documento in materiale deperibile.
• Etichette, certificati di produzione, capienza dei recipienti: nell’antica Roma tutto veniva annotato. Su ogni singola, umile tegola spesso c’è scritto chiaro il nome della figlina (la fornace di produzione), si legge il nome dello schiavo o del liberto che l’ha realizzata, quello del proprietario dello stabilimento. Gli artigiani più bravi marchiavano il vasellame che così acquistava maggior valore e dunque poteva essere venduto meglio.
Anche ai morti più poveri, seppelliti in un semplice lenzuolo, veniva dedicata una stele, magari incisa rozzamente. In memoria dei defunti più facoltosi venivano lavorate a mano lastre di granito o grossi pezzi di pietre fluviali. In ogni caso, la grande quantità di testimonianze scritte giunte fino a noi dimostra che all’epoca esisteva una percentuale significativa di persone in grado di leggere e scrivere. Anche perché conoscere le lettere, nella società romana, era indispensabile per fare carriera. Ma non è solo l’abbondanza di testimonianze a fornirci la misura del grado di diffusione della scrittura. Anche la raffinatezza funzionale di alcuni strumenti ideati per scrivere spinge alla stessa conclusione. I timbri di bronzo di forma leggiadra utilizzati per lasciare messaggi augurali tipo «Fanne buon uso» (Utere felix) sugli oggetti di uso comune, testimoniano che la scrittura serviva anche a dare consistenza ai sentimenti. Ancora più significative le tavolette cerate su cui i romani scrivevano appunti. Questi block notes di duemila anni fa erano comodi ed economici. Generalmente erano composti da due tavolette in legno incardinate sul dorso. Aprendole come un libro si aveva a disposizione una doppia superficie coperta di cera su cui incidere appunti con apposite penne, munite da una parte di una punta acuminata e dall’altra di una spatolina per pareggiare la cera quando si voleva cancellare. Da allora, sembra suggerire la mostra, poco è cambiato. Si sono affermate altre tecnologie capaci di trasmettere il nostro pensiero, ma si continua a scrivere, sempre di più. Perché è con il segno che noi umanizziamo la realtà. La interpretiamo continuamente, lasciando una traccia indelebile del nostro passaggio.