Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
La biografia di Prodi scritta da Giancarlo Perna
• Ascesa dell’uomo senza qualità. Il Giornale 19 marzo 2006. Quando apre bocca, Romano Prodi fa venire il latte alle ginocchia. Il latte è una prima indicazione. Quando si indigna, muggisce: «Gr-ra-vi-ss-si-mo». Quando tace, rumina la parola che non gli viene. Il soprannome è Mortadella. Tutto in lui spira, ispira e respira, casearia e arte norcina, zootecnia e ruralità. Parla il sangue, che non mente. Il Liber Focorum del distretto di Reggio Emilia annota già nel 1315 un Petrus de Gadaprodagis che farebbe pensare al cognome Prodi e alla località tuttora chiamata Ca’ de Prodi. Ma l’avo certo, il capostipite riconosciuto della futura mortadella, è Tognino de Prodi, vissuto tra il XV e il XVI secolo. Quale che sia la reale antichità della prosàpia, il cognome intero era Prodi di Montebabbio e l’attività prevalente l’allevamento. Poiché la vacca tipica della zona è la Fromentina, detta così per il color biondo frumento del mantello, si possono immaginare gli avoli del leader unionista con le mani occupate nell’atto di mungerla. Paradossalmente, invece, nel blasone di famiglia è disegnata un mano che tiene alta una spada. Lieve forzatura della realtà e segno del buonumore che scorre nelle vene dei Prodi. Queste fin qui ignorate notizie sulle origini sono contenute nel libro di Giovanni Pio Palazzi, Le radici dei Prodi, ricostruzione dell’albero genealogico fino alla nascita di Romano. Genesi e scopo dell’operetta sono ignoti. L’aria è di un saggio-omaggio universitario che, per la particolare importanza, ha avuto l’onore della pubblicazione. Il colophon indica solo la data di stampa, 1977, e il nome dello stampatore, La Nuova Tipolito. Manca ogni accenno al finanziatore. Il libricino è corredato da vari disegni di Nani Tedeschi, concentrati sui genitori di Romano: il papà in divisa militare, la mamma seduta su una sedia di vimini e così via. Chi scrive l’ha consultato alla Biblioteca Nazionale di Roma. Altre copie saranno certo disponibili, per questa e le prossime generazioni, nelle maggiori biblioteche d’Italia. Anche così, si alimenta una leggenda. I Prodi nostri coevi, discesi per li rami da Tognino, sono originari di Scandiano, grosso comune della provincia di Reggio Emilia, il capoluogo dove poi si trasferirono. Papà Mario era ingegnere dell’amministrazione provinciale, unico laureato di un folto ceppo contadino. Enrichetta Franzoni, la mamma, fu protagonista di un’edificante iniziativa. Quando nel 1958 la legge Merlin abolì le case di tolleranza, si prese cura delle prostitute disoccupate. Creò a Reggio una scuola di taglio e cucito, cercando di avviarle a un nuovo lavoro. Tra molti grattacapi, vuoi perché le ragazze erano indocili, vuoi perché le commesse mancavano, l’atelier durò 20 anni. Mario ed Enrichetta hanno messo al mondo nove rampolli, due femmine e sette maschi. Romano, classe 1939, è il penultimo. Il nome, come pure quello di Vittorio, il fratello che lo precede, risentono dell’epoca: sono gli stessi che il Duce aveva imposto ai figli. I maschi hanno tutti la laurea e cinque sono docenti universitari. Il più giovane, Franco, nato nel 1941, è uno specialista della grandine. Uno solo è morto, il più intelligente e profondo, Giorgio (1928-1987). Era oncologo e, fatalità, lo ha ucciso il cancro. Nel 1965, i fratelli maggiori acquistarono il «Castello di Bebbio» sulle colline a sud-ovest di Reggio. Un rudere con due torri simili a silos che, una volta restaurato, è diventato il punto di incontro di tutti i Prodi. Il Castello di Bebbio, il cui nome evoca il predicato familiare di Montebabbio, ha 50 letti sempre pronti. Non abbastanza per l’intera dinastia che, tra fratelli superstiti, mogli, figli e nipoti, comprende oggi 101 persone. Tutti suonano violini, flauti e viole, con l’eccezione di Romano, stonato dalla nascita. Romano non fu nei primi anni uno studente brillante. Era negato in matematica. Neanche è migliorato col tempo, nonostante abbia scelto di fare l’economista. Nel 1998, quando da presidente del Consiglio chiese baldanzoso al Parlamento la votazione di fiducia, sbagliò i calcoli e per un voto perse la carica. Era però un ragazzo tollerante, con la fama di avere una testa taumaturgica. I condiscepoli gliela toccavano prima di essere interrogati nella convinzione che avrebbe portato bene. Con gli anni, la testa-talismano prende la forma a cubo di un masso erratico e Prodi il soprannome di «Testa quedra» con cui è noto a Reggio. Scarso era anche in calcio, basket, pallavolo. I compagni non lo volevano in squadra e lo accettavano solo come ultima scelta, col pari o dispari. Ma era testardo e questo gli ha permesso, nonostante tutto, di praticare diversi sport. Sugli sci, ha raccontato un amico, «stava rigido e legnoso sulle gambe, sciava di forza, ma con impressionante determinazione: alle otto era già in pista e non mollava fino a sera. Resistere è il suo mestiere». Voleva farcela anche senza talento naturale. Una forma di narcisismo che da adulto gli fece dire: «Io amo anche i miei errori: da loro imparo moltissimo». Oggi, come sappiamo, è uno sportivo venerando ma accanito. L’11 dicembre dell’anno scorso ha partecipato alla maratona di Reggio Emilia, battendo il suo record personale: 42 km in quattro ore, 21 minuti e 50 secondi. Essendo però stato perso di vista per un tratto, è nato il sospetto che l’abbia percorso sull’auto di scorta per riprendere la corsa sulle sue gambe nelle vicinanze del traguardo. seguito un dibattito politico-sportivo che non ha sciolto i dubbi. Resta l’immagine vivace di una gloria nazionale di 66 anni in pantaloncini bermuda e maglietta azzurri col numero uno sulla pancetta. Ma la vera espressione di un atletismo acquisito a forza di volontà, risale al ’94, poco dopo le dimissioni dalla seconda presidenza dell’Iri. Con sei amici come lui in bicicletta e le mogli al seguito su quattro auto, Romano ha pellegrinato fino a Santiago de Compostela. Una certa agiografia giornalistica lo ha fatto partire da Bologna e percorrere 3.500 km. In realtà, i sette hanno inforcato le bici già in Spagna, a Roncisvalle, e raggiunto il Santuario in sei tappe di 140 km il giorno. In ogni caso, una prova sublime di ostinazione per chi aveva esordito fanciullo da imbranato. Terminata l’impresa, disse, estendendo il pensiero all’insieme della sua vita: «Sono un Ercolino sempre in piedi, solo che lui dondola, io no». Con l’andare degli anni, è cresciuto anche negli studi, tanto da ottenere la migliore licenza liceale dell’Emilia. Di pari passo, aumentavano le ambizioni. Pur avendo nella vicina Bologna la più antica università di Diritto, Romano si iscrisse alla Cattolica di Milano. Era convittore dell’Augustinianum come lo era stato anni prima il suo futuro patrono, Ciriaco De Mita. Il giorno che superò l’esame di Diritto privato, il più ostico del primo anno, urlò con euforia: «Tra me e la presidenza del Consiglio, non ci sono più ostacoli». Al convitto, ebbe affinità con due pii studenti di sinistra, Tiziano Treu e Giovanni Maria Flick, poi ministri del suo governo ’96-98. La scelta della Cattolica era coerente. Romano aveva già rapporti consolidati col mondo ecclesiastico. I preti avevano messo gli occhi sul giovanotto, ma anche sulla schiera dei suoi fratelli laureati. Una famiglia, i Prodi, da cui si ripromettevano grandi cose per la Dc, il partito di riferimento. Al liceo, suo insegnante era stato Ermanno Dossetti attraverso cui conobbe, diventandone intimo, il fratello don Giuseppe, sacerdote e icona dei cosiddetti «comunistelli di sacrestia». Negli stessi anni, frequentava, nella parrocchia di San Prospero di Reggio Emilia, il magro e occhialuto don Camillo Ruini, assistente della locale sezione dell’Azione Cattolica. Fu l’avvio di una pluridecennale pappa e ciccia col futuro presidente Cei, diradata negli ultimi tempi. stato don Camillo a celebrare nel 1969 le nozze di Romano che dopo la laurea aveva iniziato la carriera accademica e si era fidanzato con una reggiana di otto anni più giovane, Flavia Franzoni. Stesso cognome della mamma di Romano, la moglie è una lontana cugina. Dopo il delitto di Cogne, si è parlato di una parentela tra Flavia Prodi e Anna Maria Franzoni, la mamma del piccolo Davide. Scocciatissima per l’accostamento, Flavia ha tagliato corto: «Non è mia parente. Non l’ho mai conosciuta o vista». La carriera universitaria di Romano è stata all’inizio rapida, mai prestigiosa e alla fine bloccata. Dopo una tesi, nel 1961, sulla barriere doganali con Siro Lombardini, dc di sinistra e ministro, il neo laureato ha fatto il giro di rito nei templi anglosassoni: London School of Economics, Harvard, Stanford. Il suo inglese non è mai decollato, arenandosi in un anglo-emiliano fonte di avventure da brivido durante la presidenza Ue. Se Prodi non ha dato all’università tanto da lasciare il segno, ne ha però ha ricevuto un celeste dono: l’incontro con Beniamino Andreatta. Senza Nino, il Romano che conosciamo non sarebbe esistito. Andreatta era economista di genio e consulente di Aldo Moro, capo della corrente dc più a sinistra. Trentino di nascita, bolognese d’adozione, pessimo carattere, Andreatta prese in dotazione il giovane e lo ficcò per anni qua e là. Se voleva chiodare in un posto un suo uomo o dare una chiodata a un avversario (toccò a Rocco Buttiglione nel ’95), il chiodo di Andreatta fu Prodi. Cominciò col farlo suo assistente nella facoltà bolognese di Scienze politiche, gli ottenne la cattedra nel 1971 e lo introdusse al Mulino, ambiente principe dell’intellettualità cittadina. Poi, cominciò a distoglierlo progressivamente dall’università, avvicinandolo al parastato e alla politica. Così, prima di piombare nel coma in cui giace dal dicembre 1999, Andreatta inventò Prodi e lo impose. Mentre il Mentore preordinava i passaggi chiave della sua vita, Romano affinava i poteri medianici per la fatidica seduta spiritica. Giancarlo Perna (continua)
• Quelle consulenze all’Iri che Romano commissionò alla «sua» Nomisma. Il Giornale 21 marzo 2006. Sorretto per le braccia da Nino Andreatta, Prodi diventa professore ordinario dell’Ateneo di Bologna a 32 anni. Raggiunge il traguardo, ma nulla cambia nella sua vita. La facoltà è la stessa, Scienze politiche, che bazzica da un decennio come aspirante docente. Ottiene una stanza più grande, ma è sempre a un tiro di voce da Andreatta, pronto a correre a un suo richiamo. Estote parati, come un lupetto col capo scout. Beniamino, questo il nome di Andreatta al fonte battesimale, lo aveva preso come assistente nel ’63, promosso associato nel ’66, imposto ordinario nel ’71. Molto altro farà per lui, ma senza dargli più di tanto confidenza. Nonostante l’intreccio di interessi da cui erano uniti, Nino ha sempre dato e preteso il lei da Romano. Dispettoso per natura, inventava continui espedienti per marcare le distanze. Da ministro degli Esteri di Ciampi nel ’93, non telefonava mai personalmente all’allievo, come usa tra parigrado, ma lo faceva cercare, come un sottoposto, dai telefonisti della Batteria, la segreteria generale del Palazzo politico. Prodi, che sedeva sullo scranno di presidente dell’Iri, inghiottiva senza fiatare, ma imbestialito assai. A Romano fu assegnata la cattedra di Economia politica e industriale. La tenne ininterrottamente, dal ’71 fino alle dimissioni, nel ’99. Ventotto anni davanti a un’unica lavagna sono il segno o di una supremazia indiscutibile o di un’oasi che non fa gola a nessuno. «Prodi è rimasto sul piano accademico un isolato», ha scritto Nicola Matteucci che fu preside della facoltà di Scienze politiche. Come dire, Prodi ha vissuto indisturbato in una comoda nicchia. In altre parole, non è mai stato in corsa per il Nobel: era un praticone di cose industriali, appassionato del comparto piastrelle in Emilia Romagna. I titoli delle sue pubblicazioni nei primi lustri, sono indicativi: L’industria della ceramica per l’edilizia, La riconversione dell’industria italiana, Fusioni di impresa. Solo negli anni ’90, afferrato dall’ambizione politica, cominciò a guardare più in grande e scrisse libri come Il capitalismo ben temperato e Un’idea dell’Europa. Ma sono ormai manifesti propagandistici, non più saggi accademici. Romano come studioso ha il fiato corto. L’università inizia a andargli stretta quando Andreatta lo dirotta verso lo Stato, con una esperienza da ministro dell’Industria nel ’78, e al parastato con la presidenza dell’Iri nell’82. Ma è a causa di un mal calcolato gesto di imperio che chiude con la carriera accademica, come ha rivelato una volta il preside Matteucci. Prodi aveva un allievo, Fabio Gobbo, che abbiamo già intravisto mescolato ai 17 della seduta spiritica di Zappolino. Volendo promuoverlo professore ordinario, Romano pretese di fare parte della giuria del concorso a cattedra e, battendo i pugni, lo impose. «Gobbo era un giovane serio - scrive Matteucci - ma allora non ancora scientificamente all’altezza di una cattedra: questo suscitò le violente proteste di tutta la corporazione degli economisti... Si preferì mettere tutto a tacere. Ma la carriera accademica di Romano Prodi era finita». Fu così che voltò pagina e si mise in affari creando Nomisma, un istituto di consulenza economica con sede a Bologna, a due passi da casa sua. Nel nome, c’è il programma: Nomisma era la moneta aurea dell’impero bizantino, il dollaro di Costantinopoli. L’Istituto diventa la cassaforte del suo ideatore e trasforma Romano in un sontuoso contribuente che quando oggi discetta di povertà parla a orecchio. Anche in questo caso, l’ispirazione è andreattiana. Beniamino era un genio della consulenza. Negli anni ’70, aveva fondato prima l’Arel, Agenzia di ricerche e legislazione, che, senza fini di lucro, dava consigli economici alla Dc, poi Prometeia che li dava, ma pronta cassa, a clienti danarosi. Nomisma era la pedissequa imitazione di Prometeia, ma destinata ad avere più successo dell’originale. Il laboratorio di cervelli prodiano nasce il 21 marzo 1981 da un accordo con la Banca nazionale del lavoro che finanzia il progetto. Compito di Nomisma è fare ricerche sull’economia reale dell’Italia, lavorando soprattutto nell’interesse di Bnl. A capo della banca c’è Nerio Nesi che, con Prodi, è l’anima dell’operazione. Nesi è della sinistra Psi, come Prodi lo è della Dc. Sono entrambi bolognesi, interessati all’industria e in buoni rapporti. Nesi, che oggi è deputato della Rosa nel Pugno, ha lavorato negli ultimi anni per riappacificare Prodi con Fausto Bertinotti che sgambettò il suo governo nel ’98. Nomisma cresce subito tumultuosamente. Estende la sua clientela molto al di là della Bnl e diventa in breve la società intellettuale più in vista d’Italia, con una legione di teste d’uovo alle dipendenze. Prodi è il factotum e il presidente del Comitato scientifico, ossia supremo responsabile delle ricerche strapagate dai clienti. Quanto gli studi siano validi, è cosa discussa. Ma intanto le soddisfazioni sono molte, finché non accade un incidente. Romano nell’autunno dell’82 diventa improvvisamente presidente dell’Iri con cui Nomisma aveva scambi fruttuosi. Frequente il passaggio di studiosi prodiani alle società irizzate per ricoprirvi cariche di presidenti o amministratori; numerose le società Iri clienti di Nomisma. Gli intrecci aumentano con l’arrivo del Nostro e le commesse per Nomisma si moltiplicano. Ce n’è quanto basta per ipotizzare l’interesse privato in atti di ufficio. Il pm romano Luciano Infelisi apre l’inchiesta sulla base di lettere anonime e di una interrogazione del deputato Staiti di Cuddìa. Emerge che Prodi, pur a capo dell’Iri, manteneva la presidenza del consiglio scientifico di Nomisma e che società Iri, Italstrade, Sip, Italsider, ecc., stipulavano contratti di ricerca miliardari «per favorire Nomisma e Prodi». Nell’85, Infelisi rinvia Romano a giudizio. Tre anni dopo, il giudice Mario Casavola lo proscioglie. Ma con motivazioni demolitrici. La sentenza dà un quadro di Prodi e di Nomisma del più alto interesse. Già prima dell’inchiesta, il Consiglio di amministrazione dell’Iri aveva censurato il suo presidente «per avere gestito le ricerche bolognesi quando committenti erano società Iri, senza avvertire il Cda». A ruota, la Corte dei conti aveva bacchettato l’Iri per il «ricorso a consulenze esterne quando aveva proprio personale in grado di assolvere gli stessi compiti». Osserva il giudice Casavola: « indubbio che alcune commesse furono volute da Prodi per aiutare Nomisma che aveva bisogno di lavorare». Ma non ha commesso reato perché l’Iri, in quanto tale, «è rimasto sostanzialmente estraneo all’affidamento a Nomisma, anche se le società committenti sono a prevalente o esclusivo capitale Iri». Aggiunge: «L’idea che le commesse siano state affidate a Nomisma perché a chiederlo alle società collegate (Italsider, Sip, ecc.) era il presidente Iri è verosimile, ma non assume gli estremi del reato». Dunque, comportamento scorretto ma non punibile. Fosse stato direttamente l’Iri a stipulare le consulenze, il suo presidente, pubblico ufficiale, avrebbe commesso reato. Ma poiché a sottoscrivere i contratti con Nomisma erano state le singole e private spa Iri, il presidente dell’Istituto e proprietario di Nomisma è assolto. Un cavillo tipicamente giuridico. Il seguito della sentenza fa il punto sull’efficacia delle ricerche prodotte dal brainstorming prodiano. «L’inchiesta ha consentito di dedurre... la scarsa attinenza delle consulenze agli scopi istituzionali delle società (Italsider, ecc.)... Una volta compiute, non sembra siano state lette e utilizzate». Casavola cita le testimonianze di diversi amministratori delegati delle aziende clienti, «nessuno dei quali ha ritenuto di leggere» i pensum di Nomisma e conclude: «Questi giudizi danno corpo a sospetti generalizzati di consulenze richieste a fini clientelari». La sentenza ha una coda che riguarda un ricco contratto durato sei anni tra Nomisma e ministero degli Esteri. Un conquibus di circa sei miliardi alla società di Prodi (siamo nella seconda metà degli anni ’80) per «monitorare» le economie di una ventina di Paesi. Anche stavolta Romano è assolto, ma il suo centro studi esce a pezzi. «La convenzione - scrive Casavola - riguardava un settore di ricerche nelle quali Nomisma non vantava alcuna competenza specifica... Nomisma ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti... Il Comitato scientifico, il Comitato metodologico, l’Osservatorio, richiamati nel frontespizio delle pubblicazioni, quasi a mostrare una struttura complessa e ramificata, sono in realtà la stessa cosa, con gli stessi ricercatori e con gli stessi compiti... Il compenso era previsto per la direzione scientifica e per coordinamento come se fossero realtà diverse... invece, sono sempre le stesse persone a operare». Un gioco delle tre carte che, per di più, produce studi da burla. «La ricerca - continua infatti il magistrato - era organizzata con la lettura di testi richiesti in prestito a biblioteche... e con contatti con il ministero degli Esteri (sic! Lo stesso che chiedeva lumi a Nomisma, ndr)... Gli aggiornamenti sono per due terzi ripetitivi...». Secondo un utente delle ricerche, il senatore Francesco Forte, «si trattava di documentazione invecchiata, superficiale, copiata su altre fonti ovvie, come enciclopedie e annuari statistici». Ma anche il giudizio dell’ambasciatore Bruno Cabras è significativo: «Confesso che le pubblicazioni della Banca mondiale e di altre organizzazioni avevano maggiore contenuto e autorità per cui gli studi di Nomisma erano di scarsa utilità». Questa assoluzione a denti stretti è stata accolta con euforia da Romano che da allora si vanta: «Sono stato ampiamente prosciolto in fase istruttoria». Quell’«ampiamente» rispecchia la mancanza di senso critico dell’uomo che ha chiamato Unione un caravanserraglio. Giancarlo Perna (continua)
• L’Iri del Professore, diario di un disastro. Il Giornale 22 marzo 2006. Negli anni ’80, Eugenio Scalfari si vantava di essere al centro di tutti i giochi e assediato da Eccellenze desiderose del suo consiglio. Non si muove foglia che Scalfari non voglia, era il motto del suo gonfio blasone. Anche la presidenza di Romano Prodi all’Iri è stata, a suo dire, farina del proprio sacco. L’Istituto zoppicava. C’era bisogno di una svolta. Il segretario della Dc, Ciriaco De Mita, ci rimuginava da giorni finché decise di chiedere lumi a Scalfari che riassume così la vicenda. «Quando De Mita mi disse: ”Ovviamente ho in mente Prodi per l’Iri”, io gli risposi: ”Ovviamente fai benissimo”. Ma poi mi richiamò e mi disse: ”Guarda che Prodi non ci sta”. Allora io telefonai a Prodi e gli dissi: ”Tu hai l’obbligo di accettare. Parlate tanto di spirito di servizio e poi...”. E alla fine accettò». La sintesi, efficace, è però vanagloriosa. Mette in luce la maggiore autorità di Scalfari rispetto a De Mita, ma oscura le altre illustri paternità di Prodi alla presidenza Iri. l’autunno 1982 e capo del governo è il segretario del Pri, Giovanni Spadolini, primo laico a Palazzo Chigi. Romano ha già fama di essere una «riserva della Repubblica», ossia un uomo disponibile al bisogno. il ruolo che ricoprirà per un ventennio. Assopito nell’università, ma annodato a Beniamino Andreatta, Prodi era già stato, grazie a lui, ministro per qualche mese nel ’78. Si era poi tuffato in Nomisma, lasciando che fosse Nino a programmargli le tappe successive. Giunta la crisi dell’Iri, Romano era in posizione chiave. La sua forza stava nella proprietà transitiva che, tra gente di Palazzo, significa che se A è amico di B e B amico di C, anche A e C sono amici. Prodi, considerato dc di sinistra, perché tale era Andreatta, già consulente del defunto Aldo Moro, era pure pupillo di De Mita, che di Moro era l’erede. Inoltre Andreatta era l’anima del centro studi Arel, di cui era finanziatore l’ingegner Carlo De Benedetti, il quale era intimo di Scalfari che aveva perciò steso la sua ala su Romano, che di Andreatta era il protegé. Infine il premier, Spadolini, che era compagno di partito di Bruno Visentini, il quale era legato a De Benedetti proprietario della società Olivetti di cui Visentini era presidente, non poteva non vedere di buon occhio Prodi che era nella manica di tanti cari conoscenti. Ricostruita la filiera, torniamo al racconto di Scalfari per coglierne un particolare: la ritrosia di Romano a accettare l’incarico che De Mita gli offriva. Farsi pregare, minacciare le dimissioni e dimettersi effettivamente, è stata una caratteristica di Prodi. la qualità fondamentale delle riserve repubblicane, che devono essere a disposizione, ma pronte a sgombrare. Capostipite fu Enrico De Nicola, primo capo dello Stato nel 1948, che rifiutava, accettava, si dimetteva e restò in pole position fino alla morte. Ci imbastì una carriera Giovanni Leone, ci si adeguò da vecchio Amintore Fanfani, rimediando una presidenza del consiglio a 80 anni. Campione vivente di questo «spirito di servizio» è Giuliano Amato. Seguendo la scuola, Romano ha tagliato tutti i traguardi. Le inspiegabili altezze che ha raggiunto, si spiegano così. Ma il meccanismo funzionava finché c’era Andreatta a cavarlo dal cilindro e a riproporlo all’attenzione. Ora che da sei anni deve badarsi da solo, c’è da dubitare che Prodi sia altrettanto pronto a tirarsi indietro. Il pacioso emiliano è cambiato. Ha ormai il potere nel sangue e si vede a occhio che è cresciuto in grinta e cattiveria. Romano diventa presidente dell’Iri il 24 settembre ’82 e resta in carica fino al 2 novembre 1989. La stampa accoglie con favore la sua nomina, compreso questo giornale, e lo seguirà con simpatia per tutto il settennato. Nessuno gli fa le pulci e a fine mandato Prodi proclama di avere restaurato l’Iri. Ne ha venduti pezzi per fare cassa e i bilanci sono accettabili. Quello che lì per lì nessuno dice, ma sarà stradetto dopo, è che a fargli fare buona figura è stato Pantalone. Lo Stato, cioè voi e io, ha versato nei forzieri dell’Iri prodiana tanti di quei soldi da rendere impossibile un giudizio sulla sua conduzione. Romano poteva anche amministrare come una capra, tanto pagava il governo. Sono anni in cui l’Italia sballa i conti e contrae il più stratosferico debito pubblico del pianeta. Il contributo di Prodi al disastro è da Oscar. In sette anni, l’Iri ottiene fondi per 41mila miliardi di lire. Una volta e mezzo di ciò che aveva incamerato dalla fondazione, 1933, all’ingresso del Nostro. Diverse le iniziative di Prodi che, dispiace dirlo, sono state autentiche cappellate. La prima, 1985, è lo sciagurato tentativo di semiregalare all’amico De Benedetti la Sme, ovvero i Panettoni di Stato. La società raggruppa aziende private fallite e prese in carico dall’Iri, come Motta, Alemagna, Star, Cirio. Prodi, di testa sua, concorda con la Buitoni di De Benedetti un prezzo di acquisto di 497,5 miliardi pagabili in vari anni. La somma è irrisoria: 930 lire per azione, contro le 1.290 della quotazione in borsa. In più, nelle casse della Sme ci sono 80 miliardi liquidi che finirebbero quatti quatti nelle tasche dell’Ingegnere compratore. Si imbufalisce Bettino Craxi, presidente del Consiglio, e richiama all’ordine Clelio Darida, ministro delle PpSs. Darida annulla il patto Prodi-De Benedetti e indice una gara al miglior offerente. Un gruppo di imprenditori, Berlusconi, Barilla e altri, è disposto a pagare di più. L’Ingegnere prende cappello e ricorre al Tribunale, che gli dà torto. Seguono appelli, cause e controcause, fino ai nostri giorni, con la sorpresina finale del Cavaliere, accusato di corruzione di giudici e tutto il bla bla. La lizza sfuma e nessuno compra. Anni dopo, tra il ’93 e il ’96, la holding è venduta a spizzichi, pelati qua, panettoni là, e il ricavo è sublime: 2.200 miliardi. Quasi cinque volte il prezzo fissato da Prodi: prova provata che lui coi numeri è in guerra. Prima dell’accordo con l’Ingegnere, Romano aveva rifiutato una proposta di acquisto della Sme da parte della multinazionale Hainz. Latore, il ministro liberale dell’Industria, Renato Altissimo, al quale replicò: «La Sme non si tocca. la cassaforte dell’Iri». Quando seppe che invece vendeva la cassaforte a Carlo De Benedetti, Altissimo telefonò arrabbiato a Prodi: «Perché a Carlo sì e a me hai detto no?». «Tu mica ce l’hai il taglietto sul pisello!», rispose Prodi con fine allusione alle origini ebraiche dell’Ingegnere. Il dialogo è negli atti di un processo. L’anno dopo, 1986, ne combina un’altra. Inalberando per le auto lo stesso nazionalismo cipigliosamente rimproverato a Antonio Fazio per le banche, vende l’Alfa Romeo alla Fiat. A discapito della Ford che offriva di più, in soldi e certezze. Agli Agnelli, coi quali ha un antico rapporto di cui parleremo, fa sconti mostruosi e rateazioni da capogiro. «Hanno avuto l’Alfa per un boccone di pane», è il giudizio unanime dell’epoca. In cambio, promettevano rilancio e occupazione. Si sa come andata. Le Alfa in circolazione sono meno delle Torpedo e le maestranze residue sono sotto tutela del Wwf. Ora capite perché Cesare Romiti, che orchestrò l’affare, sia oggi tra i fan di Romano. Vale pure per l’Agnelli adottivo, Luca Cordero di Montezemolo, che esprime la gratitudine della famiglia con impallinamenti diuturni del Cav. L’operazione è stata anche una sconfitta dell’economista Prodi. Incamerando l’Alfa, Fiat ha avuto il monopolio dell’auto italiana e si è impigrita. A furia di Panda, si è semplificata la vita, si sono ringalluzziti i giapponesi e Mirafiori è finito nella Caienna. E il Professore, che ha aiutato Fiat a farsi male, ha tradito Adamo Smith e il libero mercato che predica un giorno sì e l’altro pure. Quando Prodi arriva all’Iri, la siderurgia è in grave crisi. Il problema è di tutto l’Occidente che produce troppo rispetto al bisogno e troppo caro rispetto agli arrembanti asiatici. L’Iri ha la palla al piede della Finsider che deve ridurre personale e produzione. Questione delicata che Romano vuole seguire di persona. Ha un’idea da duca rinascimentale. Nomina alla Finsider un presidente, Lorenzo Roasio, e un amministratore delegato, Sergio Magliola, dando a entrambi identici poteri. Costringe i due a litigare per le competenze e a ricorrere a lui per l’arbitraggio. Così, il Machiavelli di Scandiano ottiene l’auspicata ultima parola e avvia la Finsider, demotivata e depressa, all’ultima dimora. Nell’89, disarcionato il protettore De Mita da Palazzo Chigi, Prodi è costretto a lasciare l’Iri al fiduciario andreottiano, Franco Nobili. Poco male. C’è da lavorare sodo su Nomisma il cui lustro è stato appannato dalla sentenza micidiale del giudice Casavola. Romano si getta in un’opera triennale di rilucidatura mentre cominciano, a macchia, come la peste, gli arresti di Tangentopoli. Nobili è catturato il 12 maggio ’93. Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, telefona personalmente a Prodi per pregarlo di riprendersi l’Iri. Romano tergiversa, chiede tempo e inforca la bicicletta (Bianchi, le sue sono tutte rigorosamente di questa marca) per meditare in pace. In sella riflette meglio che sulle diverse poltrone che ha di volta in volta occupato, all’Iri, al governo, nell’Ue. Per ore, è introvabile, mentre la moglie Flavia argina Ciampi che continua a tempestare di telefonate. Al rientro, con le endorfine alle stelle, Romano dice sì. Il 15 maggio, inizia la presidenza bis. La caratterizza con le privatizzazioni, la nuova moda. Vende le due banche Iri, Comit e Credit, ai piccoli risparmiatori per creare, moda nella moda, un democratico «azionariato diffuso». Il vecchio Cuccia di Mediobanca, che voleva invece il «nocciolo duro» di un gruppo scelto di azionisti, gli toglie il saluto. La vittoria di Prodi è breve. Cuccia prende presto il controllo delle due banche senza neanche versare le enormi somme che aveva promesso all’Iri per ottenere il «nocciolo». Ennesima botta per l’Istituto. A togliere Prodi dall’imbarazzo, pensa Berlusconi vincendo le elezioni del ’94. Non volendo conviverci, Romano proclama: «Non sono uomo per tutte le stagioni» e si dimette. L’Iri per un po’ è salva. Giancarlo Perna (continua)
• Quando Prodi tremò: «Salvatemi da Di Pietro». Il Giornale 23 marzo 2006. Nel luglio del ’93, il melomane Filippo Mancuso stava uscendo da casa per acquistare un manuale sul clavicembalo ben temprato, quando suonò il telefono. Era Romano Prodi da Parigi che singhiozzava nella cornetta e quasi non riusciva a parlare. «Sembrava Anna Magnani nella Voce umana di Cocteau», ricorda Mancuso. «Devo parlarle con urgenza. successa una cosa gravissima», riuscì a articolare Romano che da un mese e mezzo presiedeva per la seconda volta l’Iri. Stabilirono di vedersi l’indomani all’Istituto. Prima di capire cosa sia successo, spieghiamo che c’entra Mancuso con Prodi. Raggiunti i più alti gradi della magistratura e da poco in pensione, l’allora settantunenne Mancuso era membro del Comitato di consulenza giuridica dell’Iri. Aveva avuto l’incarico da Franco Nobili che nel frattempo era stato ammanettato dal pool di Milano e languiva in carcere da due mesi. Subentrato a Nobili, Prodi aveva confermato la nomina di Mancuso che il giorno dopo si presentò puntualissimo nella sede di Via Veneto. Ecco, per bocca dell’ex Guardasigilli del governo Dini (1995), il racconto dell’incontro. «Prodi era prostrato. Appena mi vede, mi si abbandona addosso e implora: ”Eccellenza, mi salvi”. Aveva un affanno doloroso sul volto e non riusciva a parlare. Io non capivo. Alla fine si dà un contegno e dice: ”Sono stato interrogato pochi giorni fa, il 4 luglio, da un giudice feroce, certo Di Pietro, che mi ha trattato come il peggiore criminale. Minacciava di non farmi tornare a casa. Si alzava e andava alla porta urlando intimidazioni contro di me, perché i giornalisti che aspettavano fuori sentissero. Quell’ossesso lo faceva per sputtanarmi”. Lasciai che si sfogasse, poi chiesi: ”Ma che voleva da lei questo Di Pietro?”. Prodi rispose: ”Gli avevo detto che il primo periodo all’Iri era stato il mio Vietnam. Questa frase è stata interpretata da quell’orrore di magistrato come l’ammissione di pressioni per favori illeciti ai partiti. Si è messo a urlare forte: ’ vero o no, che il segretario della Dc decideva lui chi doveva sedere su quella poltrona?’ e poi, urlando di più: ’Ma i soldi alla Dc chi glieli dava?’. Per ore ha continuato a scagliarsi contro di me, finché ha detto: ’Adesso esce coi suoi piedi, ma entro una settimana mi deve portare un memoriale spiegandomi quella frase, altrimenti lei a casa non ci torna’. Cosa posso fare, Eccellenza? Replicai: ”Lei cosa vuole esattamente da me?”. Prodi rispose: ”Il mio legale, prof. De Luca, ha scritto questa memoria. Vorrei che la leggesse”. Ho detto: ”Non sono in grado di rivedere un professionista come Giuseppe De Luca. un difensore eccellente e io, che sono un giudice, non so vedere le cose in chiave difensiva”. Così risposi alle sue lacrimevoli insistenze. Ma Prodi continuava: ”La guardi... veda... giusto una scorsa...”. Voleva un parere, in realtà pensava che potessi fare pressioni sui magistrati. una mia interpretazione. Io però non abboccai e dissi: ”Lei mi dice che ha a che fare con un pm di questo tipo. Stia attento a non fare nomi di persone che potrebbero essere ingiustamente coinvolte creando nuovi dolori”. Qui, Prodi esce al naturale e sbotta: ”Io me ne fotto. Io devo salvare a ogni costo me stesso e non devo preoccuparmi di altro”. Mi alzai dicendo: ”Professore, lei ha sbagliato a consultare me anche perché non sono in sintonia con questo modo di vedere. Lei mi dà l’impressione di quei personaggi che nei film Western fuggono a cavallo, sparando sui bambini”. Su questo, me ne sono andato e mai più ci siamo visti. Poi, lui disse che io ero pagato ”principescamente” per l’incarico all’Iri. Non è vero, ma se lo fosse stato, niente di male. Dicendolo però, Prodi ha mostrato quello che è: un misero. Un misero naturale». Questa l’eloquente testimonianza sul carattere di Romano nei momenti difficili. Facendo poi l’esatto contrario del consiglio ricevuto, Prodi presentò ai pm Totò Di Pietro e Paolo Ielo un dossier folto di nomi. Cinquantatré pagine sul suo settennato all’Iri, in cui si assolveva da tutto incolpando invece Craxi, Gianni De Michelis, Giuliano Amato, il pm Infelisi (che lo aveva indagato per Nomisma) e perfino Berlusconi, reo di avere ostacolato la svendita della Sme all’Ing. De Benedetti. Una spiata in piena regola, accolta con voluttà dai due pm, ma che, di per sé, non sarebbe bastata a tirarlo fuori. A salvare Romano, fu infatti il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro. Poteva metterci una pietra sopra. Invece, ha voluto strafare e si è attaccato a Di Pietro come un siamese a suo fratello. Premetto, e confesso, che ho addolcito i giudizi di Prodi su Di Pietro nel dialogo con Mancuso. Le parole autentiche davano meglio l’idea dello stile giudiziario del pm, ma le ho cambiate per non dargli altre occasioni di arricchirsi con le querele. Tutto perciò fa pensare che Romano avesse in origine un autentico disprezzo per Di Pietro, misto a paura. Ma questa ha prevalso. Così, per tenerselo buono anche dopo l’abbandono della toga, l’ha preso prima nel suo governo del ’96 come ministro dei Lavori pubblici, poi come stretto alleato. Da anni, in tv, compaiono in coppia come pappagalletti. Le formazioni tipo sono, Totò alla destra di Romano, Totò alle spalle di Romano, Totò che annuisce a Romano che parla, Romano che guarda Totò per vedere se annuisce. L’insana simmachia tra carcerato e carceriere e il delatorio dossier di 53 pagine folto di nomi, hanno procurato a Romano nomea di codardo. Giorni fa, il suo ex preside di Scienze Politiche, Nicola Matteucci, ha scritto: «La cosa divertente è che il nostro Prodi, che certo un prode non è, gli ha offerto (a Di Pietro, ndr) per le prossime elezioni un posto sicuro... Una totale mancanza di dignità, dove la paura di ieri si mescola alla viltà di oggi». Per otto lunghi anni, Romano ha guidato l’Iri che con l’Eni è stato il tangentificio d’Italia. Le ha viste tutte, fatte altrettante, ma si erge moralista. Insincero anche nel dossier per i magistrati. Finge di aprirsi, invece tace ciò che vuole tacere. I fondi neri dell’Iri nascono prima di Prodi, ma è lui a coprirli. Sono serviti a finanziare partiti, sovvenzionare giornali, costruire chiese, compiacendo questo o quel cardinale, favorire l’Opus Dei. Lo scandalo scoppia sotto la presidenza Prodi. Il maggiore imputato è Ettore Bernabei, uomo di rispetto della Dc, amico di Amintore Fanfani, sospetto Grande Elargitore. Per evitare la gattabuia, l’astuto fanfaniano si fa operare di un calcolo. Il pm Gherardo Colombo, che ha spiccato il mandato, aspetta impaziente la convalescenza per eseguirlo. Ma il chirurgo ha provvidenzialmente dimenticato una garza nella pancia del paziente che torna sotto i ferri. Colombo, depresso per l’interminabile malattia, ritira il provvedimento. Il malato guarisce all’istante e Prodi il giorno stesso, 27 giugno 1985, lo promuove presidente dell’Italstat. Poi dichiara: «Tutti i fondi neri sono rientrati nei bilanci dell’Iri: il danno economico non c’è stato». Non è così, ma sarebbe lungo spiegare il trucco. All’indignato Franco Bassanini, un ex dc, passato ai socialisti, poi ai comunisti, che gli chiede chiarimenti, Romano risponde, leale e coraggioso: «Se tocco Bernabei rischio di saltare io». Oltre al favore fatto a Fanfani, via Bernabei, il dossier di Romano ne tace un altro, fatto a Andreotti. Nell’89, agli sgoccioli della prima presidenza, Prodi vende a prezzo stracciato il Banco di Santo Spirito alla Cassa di Risparmio di Roma. Una decisione imperiale, senza gara al migliore offerente e neanche uno straccio di perizia, denunciò scandalizzato Pietro Armani vicepresidente dell’Iri. Ma era quanto desiderava il Divo Giulio, d’accordo con l’amico Cesare Geronzi che, direttore generale della Cassa, diventa, con l’acquisizione, anche amministratore delegato del Santo Spirito. Quando poi le due banche, completando il piano segreto, finiscono nel Banco di Roma, oggi Capitalia, Geronzi presiede l’uno e l’altra. Andreotti è appagato e Romano rinsalda un antico rapporto di cui domani vedremo l’origine. Per molte di queste decisioni politicamente addomesticate e tecnicamente aberranti, come Santo Spirito, Sme, ecc., Prodi l’ha fatta franca. Per una però, è finito in Tribunale. Nel ’96, già capo del Governo, la Procura di Roma lo rinviò a giudizio per la vendita della Cirio-Bertolli-De Rica. Un affare sballato della seconda presidenza Iri. La pm, Giuseppina Geremia, lo accusa di abuso di ufficio per avere «intenzionalmente avvantaggiato» l’acquirente, la Fsvi dell’imprenditore Lamiranda, «pur sapendo che non aveva i mezzi». La storia si tinge subito di giallo. La Geremia riceve minacce e telefonate anonime. Un’aura mafiosa plana sull’indagine al premier: chi tocca i fili muore. Ma la pm va avanti. Cautelativamente, il Parlamento, dominato dalla sinistra, fa una legge ad personam sull’abuso d’ufficio alleggerendo a ogni buon conto la posizione di Romano. Il gip Landi assolve Prodi applicando la nuova norma e con una gimcana che impedirà alla Geremia, intenzionatissima a farlo, di impugnare il proscioglimento. La sentenza doveva essere depositata il 23 gennaio ’98. Lo è invece il 9 febbraio, due giorni dopo il trasferimento della Geremia a Cagliari. Partita lei, nessuno impugna e la cosa muore lì. Ancora una volta, Romano è miracolato. L’antica riserva della Repubblica, ora politico professionale, può proseguire impunita la strada intrapresa. Giancarlo Perna (continua)
• Quella rissa tra Dc che spinse Prodi al governo. Il Giornale 24 marzo 2006. Causa prima dell’apparizione di Romano Prodi nella politica nazionale fu un’abbondante libagione di Carlo Donat Cattin nel suo ristorante preferito. Prima di dirvi del banchetto, due parole sul banchettante. Donat Cattin, ispido dc piemontese capo della corrente Forze Nuove, era stato nominato in quei giorni (novembre ’78), vice segretario del partito. Ma il segretario, Benigno Zaccagnini, un orfano di Moro ucciso sei mesi prima, diffidava di lui. Lo aveva accettato obtorto collo, solo per equilibri interni. A Donat Cattin del disamore di Zac non importava un fico. Il suo rovello era un altro. Da mesi ministro dell’Industria del IV governo Andreotti, era ora costretto a lasciare la poltrona, incompatibile col nuovo incarico. Voleva però passarla a un suo uomo e pensava a Giuseppe Sinesio, un fedelissimo siciliano. Per riuscire nell’impresa doveva imporlo senza averne l’aria, aggirando gli appetiti delle correnti rivali. Con questa strategia in testa, Donat Cattin entrò nel ristorante. Il «Girarrosto fiorentino» di via Sicilia a Roma è famoso per le carni e il Chianti. Donat Cattin gli dette sotto con le une e con l’altro e, imprudenza suprema, rilasciò un’intervista durante l’abbuffata. Sbracò, anticipando le proprie intenzioni. L’indomani, presero cappello il premier, Andreotti, e il segretario Zaccagnini. «Ci vuole scavalcare. Gli daremo una lezione», dissero all’unisono e per punire Donat Cattin, ma senza irritarlo con la nomina di un dc di altre parrocchie, ripiegarono su un «tecnico». Così sulla poltrona ancora calda di Donat Cattin sedette un semisconosciuto professore di Bologna che divenne, tra lo stupor del mondo, ministro dell’Industria. Per Romano era finalmente il debutto sulla scena nazionale. Dopo la cattedra nel ’71, aveva cercato in vari modi di imporsi all’attenzione. Ci era riuscito in parte attraverso i giornali. Agli inizi, telefonava umilmente alle redazioni offrendo commenti di economia, accettava di scrivere trafiletti e invitava a pranzo i giornalisti. Col tempo, fu lui a essere cercato. Divenne prima collaboratore dell’Avvenire, giornale dei vescovi, poi del Sole 24 ore, giornale della Confindustria, infine del Corriere della Sera, giornale della sinistra ricca. Il suo nome circolava fra i lettori e una certa fama gli dette anche la seduta spiritica di Zappolino. Ma questa, solo tra gli uomini del Palazzo, giacché la notizia di quell’exploit filtrò nel grande pubblico a passo di lumaca. Nominato ministro, la stampa sentenziò che Prodi era nella manica di Andreotti e di Zaccagnini, i due che lo avevano scelto. Ma l’indispettito Donat Cattin, che credeva di saperla più lunga, affermò: «L’ha voluto lì la Fiat» e, in un certo senso, aveva ragione. Come è sempre stato e sarà, dietro la nomina di Romano c’era lo zampino di Beniamino Andreatta. Nino era il centro di vari snodi. In quanto moroteo era amico di Zaccagnini. Come economista principe della Dc, era ascoltato da Andreotti. Ma, soprattutto, era l’uomo dell’Arel, l’aggregato di teste d’uovo che tracciava la linea economica al partito. Tra i soci fondatori dell’Arel era Umberto Agnelli che proprio in quella legislatura, ’76-79, sedeva alla Camera come deputato democristiano. Di qui, l’uscita di Donat Cattin. Ma era un’illazione, tipo due più due fa quattro: Andreatta +Arel+U. Agnelli +nomina all’Industria= Romano uomo Fiat. Solo nei lustri successivi, Prodi mostrerà di essere agnellista in servizio permanente. Da capo dell’Iri, col semidono dell’Alfa agli Agnelli. Da capo del governo, tra ’96 e ’98, col marchingegno della rottamazione auto. Inaugurando quello che sarà il suo vezzo, Romano prima di accettare il dicastero fece il ritroso. Fu tempestato di telefonate, preghiere, ammonimenti. Infine, emettendo uno dei suoi cavernosi sospiri e la frase celebre da allora cento volte ripetuta: «Vista la situazione in cui versa il Paese, metto a disposizione le mie competenze», partì un sabato sera per Roma. La domenica mattina si presentò, vestito di tutto punto con la valigetta in mano, al ministero di Via Veneto seguito da un codazzo di giornalisti. Trovò solo il custode, che lo prese per un «pistola». L’uomo gli spiegò con pazienza che, come è uso in Occidente, il dicastero la domenica era chiuso e, se voleva vendere merce, passasse l’indomani. «Grazie, tornerò domani. Sono Prodi, il nuovo ministro», rispose Romano che gli strinse la mano, ammiccando a cronisti e fotografi entusiasti. I titoloni dei giornali del giorno dopo resero popolare in ogni angolo d’Italia l’ideatore della sceneggiata. Il finto grullo aveva vinto il primo incontro coi media. Romano rimase all’Industria 115 giorni. Firmò la legge sul salvataggio delle aziende in crisi che porta il suo nome. Un provvedimento buonista a parole, che non ha mai funzionato nei fatti. Sapeva, naturalmente, anche lui che non sono i decreti a salvare le aziende, bensì gli imprenditori con gli attributi. Ma qualcosa in quelle 16 settimane bisognava pur fare. Negli anni a venire, il suo nome circolò legato alle legge e ne tenne vivo il ricordo. Anche questo contribuì a sistemarlo nell’archivio delle riserve della Repubblica in attesa di utilizzo. Il 20 marzo ’79, Andreotti fece il suo V governo. Romano fu scaricato e al suo posto andò il psdi Franco Nicolazzi. «All’Industria hanno messo un insegnante elementare», commentò il trombato con l’usuale nobiltà. Il medesimo, 17 anni dopo, metterà un pm a capeggiare i Lavori pubblici e le grandi opere di ingegneria. Era giusto, esaminando l’attività politica di Romano, cominciare da un’esperienza importante come quella di ministro. Ma non era la prima volta che scendeva nell’agone politico. Da giovanotto, era stato consigliere comunale di Reggio Emilia. Fu nella «legislatura lunga», 1964-1970, come la chiamano i reggiani. L’unico periodo in cui Romano ebbe la tessera della Dc. Poi restituì il papiello e continuò la carriera come dc criptato, simulando indipendenza. Nulla si sa della sua attività in Consiglio comunale, perché nessuno lo ricorda. Viene però in soccorso, «Insieme», il recente libro scritto a quattro mani da Romano e Flavia Prodi, la gentil consorte. Duecentocinquanta pagine dedicate all’armonia coniugale e alla presenza costante, 24 ore su 24, di Flavia in ogni respiro, sospiro, ambascia e angoscia di Romano. Da spararsi, se non fossero così simili e fatti l’uno per l’altro. Da «Insieme» apprendiamo, innanzitutto, che in quegli anni i Prodi, papà, mamma e i nove fratelli, erano inquilini della Federazione comunista, proprietaria dello stabile in cui abitavano. C’era la sede del partito e del circolo «Gramsci». «La casa era un po’ come una finestra su una realtà importante, quella del Pci di allora in una città emiliana», commenta la signora Flavia che alterna col marito i capitoli del libro, ma il cui stile è più rotondo e cordiale, rispetto a quello di sé compiaciuto e moralistico di Romano, infarcito di «ho sempre pensato», «assolute priorità» e cenni alla sua «forte volontà». Il successo alle comunali, ammette la signora, era stato più merito della famiglia che non di Romano, da anni estraneo a Reggio per gli studi milanesi e le trasferte anglosassoni post laurea. Molto avevano inciso «il ventennale passaggio dei nove fratelli Prodi nella scuole cittadine... i legami d’amicizia con molte persone... i legami stretti col mondo cattolico». Una volta in Consiglio comunale, Romano non fu entusiasta. Il sinedrio comunista si occupava poco della città e troppo di Vietnam e crimini Usa. Tra i critici più accesi degli yankee, il ferrigno Rino Serri che era anche l’incaricato del partito a riscuotere la pigione dei Prodi. Trent’anni dopo, passato a Rifondazione comunista, Serri divenne sottosegretario agli Esteri del governo di Romano. «Segno delle profonde evoluzioni del sistema politico», commenta serafica Flavia che, accecata dall’affetto, sorvola sulle evoluzioni ben più profonde del marito opportunista. Dopo cinque anni da consigliere, visto che si andava per le lunghe, il professorino si dimise con qualche anticipo. «Non ce la faceva più a stare in Consiglio fino alle 3 di notte e a prendere il treno per Bologna, dove insegnava, alle 7 del mattino», conclude, comprensiva e amorevole, la simpatica signora. La digressione di «Insieme» ci ha riproposto con efficacia le relazioni, uno per tutti, tutti per uno, dei fratelli Prodi. Due di loro, Vittorio e Paolo, hanno fatto politica, ma a tempo perso, lontani anni luce dai livelli stratosferici di Romano. Vittorio, 67 anni, è oggi parlamentare europeo della Margherita. Anni fa, era presidente della Provincia di Bologna. Come tale, ha fatto finanziare dalla Provincia uno studio del germano Paolo sulla storia delle Chiesa bolognese. Familista, direte voi. Certo, ma come può esserlo un Prodi, con la coscienza a posto, lo spirito puro e il convincimento che se anche i soldi li cacci tu, il piacere te lo fa lui. Infatti, scoppiata la polemica, Vittorio precisò seccato che la decisione aveva i crismi della più perfetta legalità e che Paolo era il non plus ultra per l’incarico. Paolo, più seccato del fratello, confermò che lui era quanto di meglio, che non ci guadagnava una lira e che i baiocchi erano nudo rimborso. Paolo, 72 anni, è effettivamente un emerito storico della Chiesa e del Concilio Vaticano II. Bizzarro e sparagnino, quando insegnava alla Normale di Pisa, abitando a Bologna, faceva una lezione il lunedì alle 21 appena sceso dal treno, dormiva da un fratello che a Pisa viveva, faceva l’altra il martedì alle 7, riprendeva la tradotta delle 8,30 e riappariva la settimana successiva. Gli allievi, oggi sui 55, hanno ancora le occhiaie. Paolo, che è il più radicale dei Prodi, fu responsabile della Dc per la Cultura ai tempi di De Mita. Ma piantò il partito, considerandolo mafioso, e passò alla Rete di Leoluca Orlando, diventandone deputato. Nelle vene del placido Romano scorre anche questo sangue tumultuoso. Giancarlo Perna (continua)
• Quando Prodi rimase schiacciato dai debiti lasciati dall’Iri di Prodi. Il Giornale 25 marzo 2006. In un quinquennio, Romano Prodi brucia le tappe. Fa una carriera politica a passo di lepre e, in un amen, da pivello diventa un vecchio arnese. Quando, nel maggio ’94, lasciò definitivamente l’Iri, era un parastatale di lungo corso con una minuscola esperienza da ministro. Quando nell’autunno ’99, lascia l’Italia per l’Ue, è un avvizzito veterano della politica. Nell’arco, è stato deputato, leader dell’Ulivo, capo del governo e ha fatto a ritroso la strada: cacciato da Palazzo Chigi, emarginato dai suoi, la bile in fiamme. Altare e polvere, come i Titani della Storia. L’epopea merita il racconto. Nel ’94, dopo 18 anni come riserva della Repubblica, Romano non ha una fisionomia politica definita. Noi già sappiamo che è un dossettiano e un dc di sinistra. Ma per i più, era un tecnico. Tanto vero che An, parte integrante del primo governo Berlusconi, ma a corto di persone per il sottogoverno, pensa di utilizzare Prodi in quota dell’ex Msi. L’idea non si concreta in una proposta, ma è indicativo che sia nata. Un po’ com’è successo recentemente con Mario Monti che la solita An avrebbe visto volentieri come ministro dell’Economia, quando due anni fa defenestrò Giulio Tremonti. Indubbio che il partito di Gianfranco Fini abbia problemi di strabismo, ma anche vero che Prodi allora, come Monti oggi, civettino con un’ingannevole equidistanza che in realtà non hanno. A schierare decisamente quel mollaccione di Romano, intervengono due duri, ossessionati dal Cav. Oscar Luigi Scalfaro e a ruota Beniamino Andreatta. Dopo la defenestrazione del suo governo nel gennaio ’95, Berlusconi, indica Lamberto Dini per la successione a Palazzo Chigi. Scalfaro se ne impipa, convoca Prodi al Quirinale e gli dice chiaro che preferirebbe fosse lui a presiedere il nuovo governo. Romano tergiversa, si arrovella, cincischia e perde il treno. Non era ancora abbastanza gasato. La Dc intanto rantola. Anzi, muore e al suo posto nasce il Ppi. Per rocambolesche circostanze, segretario è Rocco Buttiglione, odiato dalla sinistra del partito. Temono che stia per fare un accordo con Berlusconi. Una volta di più, Andreatta cava Prodi dal cilindro e ne fa circolare il nome come colui che può rianimare il Ppi e portarlo a sinistra. Romano nel frattempo è alle prese con un diversivo. Si è improvvisato divulgatore e impartisce lezioni di economia in tv sulla Terza Rete. Ha una sua rubrica, «Il tempo delle scelte», in cui parla di privatizzazioni, welfare state, ecc., coadiuvato dall’immancabile consorte Flavia che svolge l’essenziale funzione di «spettatore critico» («Insieme», pag. 88). De Mita, che lo segue assiduamente sul teleschermo, esclama: «Romano è meglio come giornalista che come presidente dell’Iri», diventa un suo fan e si accoda a Beniamino nel ritenerlo l’uomo giusto. Comincia il passaparola e in breve sono in molti a pensarlo. Dai sinistri Rosy Bindi e Sergio Mattarella, ai moderati Gerardo Bianco e Franco Marini. I ferri corti con Buttiglione non bastano più e si passa alle rasoiate. «Traditore Buttiglione, cappellano dei neofascisti», urla dieci volte al giorno Beniamino e nelle pause enuncia la strategia: «Ora ci vuole la guerra di liberazione dal filosofo traditore». Il mite Rocco che febbricita alla sola idea di un’alleanza con gli ex comunisti del Pds, accelera i contatti con Cav e si isola come il Battista nel deserto. Inizia una melina tra chi impiccherebbe Buttiglione al pero e i pochi che lo sostengono. Ve la faccio breve. Un bel giorno, Andreatta, che era capogruppo Ppi alla Camera, e Nicola Mancino, suo omologo al Senato, annunciano che Prodi è il candidato leader del centrosinistra per le elezioni politiche. Buttiglione è di fronte al fatto compiuto. Filosoficamente, cede alla brutalità, fugge dal Ppi, fonda il Cdu, si schiera col centrodestra e esce dal racconto. Ora, sotto i riflettori, c’è solo Romano. In pochi mesi, da personaggio periferico, Prodi si trasforma in protagonista. Il ruolo che gli è assegnato è quello di maschera presentabile di un guazzabuglio di ex comunisti, neo comunisti, Verdi vocianti, giustizialisti che la decenza consiglia di nascondere. Inalberando la sua innata faccia parrocchiale, Romano entra nel ruolo senza fare una piega. Lo incarna perfettamente ancora oggi, come se glielo avesse assegnato il Signore dall’inizio dei tempi. Lui non ha fatto nulla per montare sul piedistallo. Gli altri hanno fatto per lui. Ma adesso non lo schioda più nessuno. Avuta l’investitura, decolla. Compra ad Assisi un pullman usato, il che fa, in un sol colpo, francescano e democratico. Lo allestisce di fax e frigo, e comincia la campagna elettorale col giro delle «cento città». I pullman sono forse due, gemelli, come sospetta il suo eccezionale biografo, Antonio Selvatici, che fornisce le targhe di entrambi: Pg 709626 e AC 862 Fg. La cosa resta segreta e Romano passa per ubiquo come Padre Pio. La mattina fa l’ingresso col pullman a Bari, a mezzogiorno gira col pullman bis a Milano, nel quale è salito dopo essere sceso dall’aereo. Sul torpedone, ben attrezzato, sfoglia i giornali. Nota con disappunto che tre colleghi docenti universitari scrivono articoli tra il tiepido e lo scettico. Gli dicono: parla chiaro, meno slogan, più cose. Gli chiedono: come manterrai le promesse? I soldi dove li trovi? Decidi tu o sei in balìa dei comunisti versipelle ex, post, neo? I tre sono Nicola Matteucci del Giornale, Angelo Panebianco e Ernesto Galli della Loggia del Corriere della Sera. Prodi e il trio si conoscono da decenni e non solo per ragioni accademiche. Li lega anche il Mulino, i Lincei di Bologna, di cui sono associati, autori e pezzi grossi. Per Romano quella libera critica è uno sgarro e... Ma lasciamo parlare Matteucci: «Seppi che Prodi aveva convocato a casa sua il presidente dell’associazione il Mulino per protestare duramente contro gli articoli... Insomma: i soci dell’associazione dovevano (questa la pretesa del furibondo Prodi, ndr) fornire la base culturale del suo partito. Un amico socio del Mulino (se la memoria non mi tradisce, Michele Salvati) mi disse di stare attento perché Romano era un essere vendicativo. L’avvertimento mi lasciò indifferente perché nel campo scientifico il potere di Prodi era nullo e il Mulino avrebbe continuato a pubblicare i miei libri». Da allora, Matteucci ha tolto il saluto a Prodi. L’Ulivo vince le elezioni del 21 aprile 1996 e Romano entra a Palazzo Chigi. Non è una gran vittoria, anzi una truffa legale. Il Polo ha preso 300.000 voti più dell’Ulivo. Ma, per un perverso meccanismo elettorale, l’Ulivo ha più eletti. Dei due anni e mezzo di governo Prodi, c’è poco da dire. Diciamo quel poco. imminente l’avvento dell’euro. L’Italia, per adottare la nuova moneta, deve risanare i suoi terribili conti pubblici. A pesare sulle casse del Tesoro, è l’indebitatissimo Iri, reduce da otto anni di cura Prodi. Il destino beffardo affida alle mani del guastatore la riparazione del guasto. La più bella azienda dell’Iri è la Stet, oggi Telecom. Venderla ai privati sembra l’unico modo per ridurre i debiti dell’Istituto. Prodi convoca il presidente della Stet, Ernesto Pascale, e l’amministratore delegato, Biagio Agnes, che gli espongono un piano alternativo. Lui neanche li ascolta e caccia entrambi dall’azienda. A trovarsi la strada spianata è l’Ifil di Umberto Agnelli che, con uno zero virgola del capitale Stet, nomina amministratore un suo uomo: Gian Marco Rossignolo. Ignoro come sia stato possibile, ma sono le delizie del capitalismo all’italiana. Prodi appoggia in toto la manovra Ifil (Fiat) e si sdebita così con Umberto che, 20 anni prima, aveva propiziato la sua nomina a ministro dell’Industria. Poi, come ricorderete, tutto va a rotoli. Max D’Alema, che subentra a Romano nella guida del governo, dà la Stet-Telecom all’amico ragioniere Roberto Colaninno che rivende, con una fantastica plusvalenza, al dottor Marco Tronchetti Provera, l’attuale proprietario. Conclusione: lo Stato non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, ha dato via gratis il suo gioiello e l’Italia è oggi il solo Paese al mondo con un monopolio telefonico in mano a un privato signore. Ovunque, o sono società a azionariato diffuso o aziende a controllo statale. Ma questo fa parte del libro, ancora da scrivere, sugli amorosi sensi tra movimento operaio e confindustriali. Vi faccio grazia dell’altro mistero Telecom scaturito sotto il governo di Romano: l’acquisto di Telekom Serbia. Al minimo, è stato un pessimo affare: comprata a cento, l’azienda è stata rivenduta, anni dopo, a cinquanta. Il sospetto, non provato, è che ci siano state tangenti politiche. La magistratura lo ha escluso. La commissione parlamentare d’inchiesta ha invece puntato il dito su tre, che secondo testimonianze e carte, sarebbero stati i maneggioni. In arte, Mortadella, Cicogna e Rospo. Chi si nasconda dietro, è stato supposto, ma non accertato. Prima di inciampare sullo sgambetto di D’Alema, il governo Prodi ha fatto altre due cose. Per la Fiat, la legge che incentiva la rottamazione delle auto. Per l’Italia, l’ingresso in zona euro: gli va riconosciuto, lasciandogliene la responsabilità. Defenestrato dagli alleati, Romano lascia Palazzo Chigi a metà legislatura. Sfoga la rabbia in bici e smette di pedalare solo quando è certo che diventerà presidente dell’Ue. Deve lasciare il seggio alla Camera e candida al subentro l’austero ex alunno della Scuola militare della Nunziatella, Arturo Parisi, come lui uomo del Mulino e collega nell’università felsinea. Ne cura di persona la campagna elettorale a Bologna contro il candidato Cdl, Sante Tura, popolare ematologo, salvatore di molte vite. Ma lo zelo tradisce Romano che telefona al cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, e gli ingiunge: «Lei deve schierarsi con Parisi. O, comunque, non con Tura». Ma Biffi, che di Prodi se ne pappa dieci, replica duro: «Non si permetta. Non prendo ordini da nessuno», e lo esclude dalle sue preghiere. Privato del pio appoggio, Romano si avvia al disastro di Bruxelles. Giancarlo Perna (Continua)
• Prodi a Bruxelles, una brutta avventura finita con la Caporetto dell’Europa a 25. Il Giornale 26 marzo 2006. Arrivando a Bruxelles, Romano Prodi si lasciava alle spalle il soprannome paesano di Mortadella, saporito corollario della notorietà politica. Si dice che il nomignolo lo abbia sempre irritato perché sottolinea l’affinità fisionomica del massiccio insaccato di Bologna con la sua faccia piatta e la testa quadra. Fosse solo per questo, avrebbero anche calzato bene, che so, paracarro, comò o bidone. La realtà è invece che il nomignolo di Mortadella è ricorrente nella pubblicistica politica e ha un illustre precedente. Fu chiamato così anche Giovanni Giolitti che aveva una faccia tutt’altro che rincagnata. Era infatti un tipo aquilino e l’epiteto alludeva nel suo caso, agli ingredienti del salume bolognese che sono un mix di carne di porco e di asino. Un modo di dargli dell’uno e dell’altro. Speriamo, dunque, che Prodi, sapendo di condividere con Giolitti un glorioso soprannome, lo accetti ora con serenità. Quando nell’autunno del ’99, Romano si insediò alla testa della Commissione Ue, ossia al governo dell’Europa, fu accolto come un Churchill redivivo. Una ben congegnata propaganda delle sinistre europee aveva suscitato attorno a lui molte speranze. Ma la luna di miele durò solo un paio di mesi, cedendo il posto a un matrimonio d’inferno. I primi a ribellarsi furono i cronisti che non sopportavano il suo portavoce, il giornalista italiano Ricardo Levi. Richi, che è un sussiegoso giovanotto sessantenne, faceva coi suoi colleghi il principino. Anziché aiutarli nel lavoro, informandoli e inquadrando i problemi, li trattava da seccatori. Alle domande dava risposte vaghe. Alle richieste di conferma di un’indiscrezione, cadeva dalle nuvole. Se volevano parlare con Prodi, li mandava al piano di sopra, mentre Prodi era al piano di sotto. Finché, stufa del trattamento, mezza Europa giornalistica chiese la testa di quella specie di moglie gelosa. Richi fu segato dall’oggi all’indomani e sostituito prima da un inglese, poi da un finlandese, mai più da un italiano. Ebbe in cambio una sinecura strapagata: direttore di una fantomatica «Cellula di prospettive» che doveva, figurati tu, delineare l’avvenire dell’Ue. Ma tra Prodi e l’informazione il divorzio era ormai consumato e per il presidente italiano cominciò la rosolatura. Com’è noto, Romano per dire «oggi... a pranzo... ho... mangiato... pollo», mette cinque minuti come se rivelasse le origini della vita. Solo agli italiani le sue pause, il continuo borbottio, il sordo soffiare e quell’impressione generale di dormiveglia evocano i modi del buon curato e le atmosfere delle pievi campagnole. A Bruxelles davano ai nervi. Presto, l’intero Palazzo dell’Ue ha cominciato a irritarsi di un presidente inespressivo, favellante a singhiozzo, collezionista di gaffe tipo «mamma li turchi», suo meditato parere sulla Turchia nell’Unione. Agli inizi, Prodi teneva le conferenze stampa in inglese. In capo a un mese, ci fu la rivolta degli interpreti. Non solo perché lo parla in modo imbarazzante, ma perché si mangia le parole. La particolare conformazione della bocca, la reticenza innata e la cadenza bolognese che annulla le vocali in favore di suoni consonantici sibilostruscianti, misero ko lo staff dei traduttori. Romano, su supplica unanime, passò all’italiano. Anche qui, ci furono iniziali difficoltà a capirlo, ma con la creazione di un gruppo specialistico, si venne a capo del problema. Il rapporto di Romano con le lingue è sofferto. Parla il francese meglio dell’inglese. Ma anche in questo caso con approssimazione. Mesi fa, già candidato dell’Unione per le elezioni del 9 aprile, ha illustrato a Le Mans la cosiddetta Fabbrica del programma. La Fabbrica è un capannone di Bologna dove ogni elettore del centrosinistra può dire la sua e fare proposte. «Se si vuole migliorare una Nazione, bisogna prima ascoltarla - disse Prodi il giorno dell’inaugurazione -. Io desidero il concorso di tutti». Sottinteso, non sono mica quel «faccio tutto mi» del Berlusca. Torniamo alla conferenza francese. Ancora prima di addentrarsi nel ragionamento, Romano enunciò la formula Fabbrica del programma dicendo anziché usine (fabbrica), cuisine (cucina) o almeno fu questo il suono uscito dalla sua bocca. La Cucina del programma sorprese piacevolmente i francesi notori gourmet, ma suscitò anche equivoci e smarrimento, tanto che molti tornarono a casa disappetenti. L’infelice inizio della presidenza Ue di Prodi si tradusse in una impietosa presa di distanza di molti. La radicale Emma Bonino disse di Romano: «Ha il cervello piatto», che era un incrudelire dato che c’era già la faccia. Il giornalista Quatremer di Libération, quotidiano gauchiste, dunque amico, rivelò che l’ex Cancelliere Helmut Kohl, saputo che Prodi stava per diventare presidente Ue, telefonò a un capo di governo, dicendo: «Volete nominare Prodi? Siete diventati tutti matti?». Altro colpo basso, giacché Kohl è amico di Romano e della moglie. Nel libro scritto dai coniugi, «Insieme», la signora Flavia magnifica due affettuosi soggiorni ospiti del Cancelliere, quando il giuda aveva già fatto la carognata del «siete matti?», ma ancora non si sapeva. La strada in salita, Romano aveva bisogno di recuperare lustro con un colpo da maestro. L’occasione era a portata di mano: l’allargamento della Ue a 25 Paesi. Preso da un raptus di europeismo acritico, Prodi ha accelerato allo spasimo l’assorbimento dell’Est ex comunista. Con l’obiettivo immediato di risalire la china e quello remoto di passare alla Storia. Raggiunto lo scopo, si è infilato la medaglia. La bravata si è rivelata un disastro. L’Ue è nel caos. L’attuale Commissione di José Manuel Barroso è sotto stress. Vista da Bruxelles, l’Europa a 25 è al tracollo. L’ingresso prematuro di Paesi lontani, ha trasformato i palazzi in una babele, con mille nuovi funzionari insoddisfatti delle stanze, ignari delle procedure, estranei. Vista da Roma, Parigi o Madrid, l’Ue fa ribrezzo. diventata un suk di commerci, senza più ideali e molte paure. Il guazzabuglio di economie diverse e salari distanti anni luce ha portato alla sindrome dell’idraulico polacco che fa per quattro lire quello che il tubista francese faceva per otto, gettandolo sul lastrico di cucine e bagni su cui prima regnava indisturbato. Il risultato è stata la bocciatura della Costituzione Ue nei referendum francese e olandese: un no globale all’Europa, più che a un mucchietto di articoli che nessuno ha letto. Romano ascolterà pure gli umori italiani nel capannone bolognese, ma ha fatto il sordo coi popoli europei. Quando, prima del patatrac, si pose il dilemma: «Approfondire l’Ue o allargarla?», Romano rispose: «Dobbiamo fare tutte e due». E si sono visti i risultati. Ha fatto lo stesso in questa campagna elettorale. «Risanare i conti pubblici o rilanciare l’economia?», si è chiesto retoricamente. «Le due cose insieme», si è risposto il taumaturgo. Se tanto mi dà tanto, salvaci o Signore! Il Financial Times ha tirato le somme del quinquennio di Prodi in modo tacitiano: «La sua performance è stata orrenda». Capitolo a sé, sono i rapporti che Prodi ha avuto col Cav. Ha sempre tifato Parigi e Berlino contro Roma (e Londra). No a Bush, no ai soldati in Irak, no alla solidarietà con Israele, sul muro e le rappresaglie antiterrore. Peggio, sul piano personale. Incontrando il Cav ai Consigli europei, Romano si è tenuto distante, ha inalberato un viso da funerale e fatto smorfiette di disprezzo ammiccando ai vicini. Fair play, zero. Il giorno inaugurale del semestre di presidenza italiana Ue, ci fu nell’Aula di Strasburgo il battibecco tra il socialista tedesco Martin Schulz e Berlusconi. Il teutone disse che Berlusconi doveva stare in galera e non lì. Il Cav reagì con un sobrio: «Kapò». Prodi si imbarazzò per la reazione, non per ciò che l’aveva provocata. Nel successivo pranzo offerto dall’Italia, Romano, cravatta scura e faccia a lutto, comparve appena e un quarto d’ora dopo era sparito. Sulla presidenza Ue di Romano non saprei che altro dire. A rigore, avrei anche finito questa carrellata su Prodi. Ma qualcosa mi è rimasta nel gozzo. Consentitemi di ripescare due episodi del lungo racconto che ho fatto. Mi hanno colpito mentre scrivevo, come se li avessi capiti per la prima volta. incredibile, mi sembra, che dopo 28 anni Prodi non abbia ancora confessato da chi ha saputo di Moro segregato a Gradoli, o Via Gradoli che sia. In un’aula di Tribunale, il teste che indica come fonte di una notizia, un sogno, la Madonna pellegrina o una seduta spiritica, è arrestato all’istante per reticenza. Lasciamo la galera, che non si augura a nessuno. Lasciamo che, se questo scheletro lo avesse Berlusconi, apriti cielo. Lasciamo che il sospetto di tutti è che Prodi abbia saputo di Gradoli tramite contigui delle Br, che ne conosca i nomi e che da 28 anni li taccia. Lasciamo che in Italia l’omertà è di casa. Lasciamo tutto. Però, mi chiedo, se fossimo negli Usa, che possibilità di carriera avrebbe avuto un simile politico? Nessuna. Al massimo, faceva il medium a vita. Poi, c’è la faccenda della Sme. Una storia di fantastica impudenza. Pensate solo questo: quando nel maggio del 1985, Prodi è pronto a cedere all’amico De Benedetti la quota Sme in mano all’Iri (65-70 per cento) per 497 miliardi di lire, sa, per sua ammissione, cha vale tre volte tanto. L’ho già accennato altrove. Tre mesi prima, in febbraio, il ministro liberale dell’Industria, Renato Altissimo, dice a Prodi che la multinazionale Hainz è interessata all’acquisto. Ne discutono a pranzo nella foresteria dell’Iri. Lasciamo parlare Altissimo, la cui testimonianza è in un verbale del Tribunale di Roma (ma lo aveva già raccontato ai giudici di Milano). «Prodi mi disse con una risata che non esisteva lontanamente l’ipotesi di vendere la Sme, che era la cassaforte dell’Iri... (poi aggiunse, ndr) «Hai idea di quanto si potrebbe vendere una cosa del genere? Stiamo parlando di mille cinquecento miliardi, forse di più». Tre mesi dopo, non solo cede l’intoccabile «cassaforte», ma la offre a tre volte meno. Altissimo non è mai stato smentito. Con Prodi ho concluso. Giancarlo Perna (Fine)