Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Manuale dellíimperfetto viaggiatore
• «Tutto serve al grande studio della specie bizzarra degli uomini» (da Vita, di Vittorio Alfieri).
• «Il materiale di promozione turistica mi affascina. Ogni tanto - confesso - entro in un’agenzia di viaggio e dico: "Me ne dia un chilo". Quando la persona dietro al banco domanda "Dove vuole andare?", rispondo: "A casa, a divertirmi un po’". Come non divertirsi, infatti, durante queste immersioni in un mondo a colori, dove il sole è sempre alto nel cielo, il cibo invitante e il mare trasparente?» (Beppe Severgnini).
• «Alcune definizioni dei cataloghi turistici sono capolavori di understatement; altre contengono geniali omissioni; altre ancora sono gioielli di diplomazia. Qualche esempio: Viaggio con volo riservato (Sarete imbarcati su un charter). Trasferimento collettivo all’aeroporto (Niente taxi, tutti in pullman). Albergo d’epoca pieno di charme (Albergo vecchio e cadente). Modernissimo hotel (Hotel agghiacciante, tutto vetro e cemento). In posizione tranquilla, non lontano dal mare (Il mare è nascosto dietro un condominio). Situato comodamente nei pressi dell’aeroporto (Gli aerei decolleranno sopra la vostra testa)...».
• Il mondo del turismo sembra essersi accordato per una lingua che sarebbe comica, se non fosse obbligatoria. Invece lo è diventata, e ci costringe a parlare come personaggi minori in un film di Hollywood. Alla hostess o allo steward (notate: parole inglesi) che chiedono: «Mi faccia vedere la card così le servo un drink in top class», dovremmo rispondere «Ehi, ma parla come mangi». Il guaio è che loro mangiano in quel modo (snack e self-service), e sarebbe crudele ricordarglielo [...] Il guaio è che gli equipaggi usano la stessa terminologia anche quando si rivolgono ai passeggeri. Una volta avevo seduta accanto una signora di Pavia, che ha ascoltato l’annuncio e mi ha domandato: «Poi lo ripetono in italiano?». Le ho risposto: «Signora, quello era italiano».
• «Ad Amsterdam noi italiani siamo riconoscibili perché abbiamo un altro passo. Passo ciclistico, intendo. Gli indigeni, allenati sulle scale vertiginose delle loro case sui canali, sfrecciano con sicurezza lungo le piste ciclabili, scattano ai semafori come in una finale olimpica, attraversano nei posti giusti, si fermano, balzano di sella, chiudono il lucchetto con un colpo secco, scompaiono. Noi avanziamo con calma olimpica, come se Damrack fosse la passeggiata di Finale Ligure. Ogni operazione ci riesce leggermente goffa: abbiamo ritardi colpevoli agli incroci, scambiamo le piste ciclabili con le rotaie dei tram, osserviamo diffidenti il "paddestoel" (fungo delle informazioni per i ciclisti), armeggiamo per un quarto d’ora intorno al lucchetto. I ragazzoni biondi che affittano le biciclette - una simpatica somiglianza con i replicanti di "Blade Runner" – sorridono indulgenti: solo gli italiani vogliono tenere la bici "per un’ora al massimo" e riescono a scontrarsi nelle stanze del noleggio (ero testimone: nessun ferito). Amsterdam è un luogo eternamente studentesco: non poteva non piacere a noi italiani, che non abbiamo mai fretta di diventare grandi... E’ meno complicata di Londra e Parigi, meno distante di Stoccolma e San Pietroburgo, meno sofisticata di Praga e Lisbona. La fama libertaria che l’accompagna solletica anche coloro che non sanno cosa farsene di quella libertà (perché la moglie vigila, perché l’acquisto di droghe leggere presuppone la capacità di pronunciarne il nome). Se vi avvicinate ai gruppi di connazionali, scoprirete che l’eccitazione che li percorre è quella tipica della gita parrocchiale. Conta poco che i gitanti abbiano cinquantacinque anni. L’entusiasmo e i cappellini sono quelli» (Beppe Severgnini).
• «Il motivo per cui New York piace tanto a noi italiani è semplice: ne abbiamo paura. Certo: essendo abili nel bluff, dipingiamo il nostro timore con i colori dell’entusiasmo. Ma in realtà New York ci spaventa. E’ il disagio che ci rende schiavi di questo posto... Ogni strada sembra quella sbagliata, ogni infrazione rischia d’irritare poliziotti monumentali, ogni faccia potrebbe essere quella di un genio, di un killer o di un altro turista particolarmente stanco. Arrivando a Manhattan, intuiamo di essere sbarcati in un laboratorio dove le cavie potremmo essere noi. La sensazione è sconvolgente, soprattutto se un tipo barbuto ci insegue gridando che la fine del mondo è fissata per giovedì all’ora del lunch. Alla paura non segue il piacere della calma ritrovata, come in ogni altra città del mondo. Alla paura segue invece l’euforia per essere stati capaci di cavalcare il drago. Combinato alla nostra eccitazione costituzionale e al jet-lag, questo umore diventa esplosivo. Noi ci stupiamo dei newyorkesi; ma i newyorkesi sono sbalorditi da noi... Ho conosciuto ragazzine italiane che all’arrivo sembravano Alice nel paese delle meraviglie, e dopo dieci giorni intimidivano il taxista del Bronx» (Beppe Severgnini).
• «Viaggiare è un atto di umiltà. Chi è convinto di sapere tutto, preferisce non muoversi da casa. Il viaggio scombussola le nostre certezze, mostra quanto poco sappiamo e quanto abbiamo da imparare. Talvolta, il viaggiatore italiano porta questa saggezza alle estreme conseguenze: poiché tutto non si può imparare – ragiona – tanto vale non perder tempo. Questo personaggio è riconoscibile perché parte per l’India munito soltanto di una rivista di cruciverba, e poi pretende di spiegare la civiltà locale ai compagni di viaggio (o alla moglie, se quelli non la stanno a sentire). Talvolta, a causa della sua magnifica ignoranza, questo turista liquida il paese che lo ospita come ”poco interessante” o ”noioso”. Non esistono, invece, luoghi noiosi. Esistono solo viaggiatori impreparati».
• un peccato che molti italiani non capiscano il fascino discreto del maltempo. Mentre gli inglesi distinguono, con gusto da intenditori, tra rain, shower, drizzle, downpour, storm, sleet eccetera, noi diciamo: ”Piove”».