Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Governatore porta pena

• Governatore porta pena. Il Foglio 22/12/2005. E’ un destino nazionale che i grandi istituti dell’Italia moderna debbano affermarsi sotto l’incalzare di sequenze drammatiche e tormentate”. Così Giovanni Spadolini, in occasione del centenario di Banca d’Italia, rievocava i giorni tragici del dicembre del 1893 quando prese il via, in un clima politico ed economico da ultima spiaggia, l’attività della Banca d’Italia. Nemmeno lui, pur così abituato a esprimersi per la Storia, avrebbe però potuto immaginare che le sue parole sarebbero suonate profetiche dodici anni dopo, in un altro dicembre ”freddo” per Palazzo Koch, sede storica di quella che, fino alla nascita dell’euro, è stata per più di settant’anni l’unica autorità monetaria della lira. Oggi, sotto l’incalzare della crisi, si va verso quella riforma che andava fatta al momento della nascita della Bce, ma che la lobby di via Nazionale, ben protetta a destra e a sinistra, ha rifiutato fino al disastro. Ma è un destino delle banche centrali quello di legare le riforme più incisive a eventi drammatici. Non è sfuggita a questo destino la madre di tutte le banche, la gloriosa Bank of England, che si è vista sfilare la Vigilanza sugli istituti di credito dopo il crollo della Bcci, nel 1991. E che gode, oggi, di ottima salute. Andrà così anche in Italia? Forse sì, se il capitalismo di casa nostra, restio a investire di tasca propria, saprà bussare di più al mercato, meno allo sportello del credito, magari con qualche raccomandazione. Una pratica che qualche Governatore ha tollerato, anzi stimolato. E qualcun altro no.
• Il Foglio 22/12/2005. Già dagli inizi, fu subito tempesta. Sidney Sonnino, il ministro forte del governo subentrato a Giolitti (costretto a dimettersi per i rapporti con il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo) impugnò la delibera di nomina del primo direttore generale della Banca, fondata nell’agosto precedente: Giacomo Grillo (fino al 1928 non esisterà la carica di Governatore) già alto dirigente della Banca nazionale del regno, rappresentante del vecchio management degli istituti di emissione. Comincia un lungo braccio di ferro che si chiuderà soltanto con le dimissioni di Grillo (primavera 1894) e l’ascesa di Giuseppe Marchiori: veneto, ingegnere, un passato da imprenditore, un taglio netto con la nomenklatura post unitaria responsabile del disastro finanziario. ”Quando Marchiori varca la soglia di Banca d’Italia – ha detto lo stesso Vincenzo Desario, il reggente del dopo Fazio – il momento è drammatico. La lira è ai minimi, si verifica una corsa agli sportelli bancari. In Sicilia i moti contro il latifondo e il peso dei dazi sono repressi dall’esercito e si contano decine di vittime. L’orizzonte economico è segnato dalla depressione, gli investimenti languono. Il contesto sociale e politico rende problematico il risanamento aziendale. La tensione fra governo e Banca è alta...”. Insomma, lo stesso Desario, alle prese con l’eredità di questi giorni, può consolarsi pensando a quel collega di un secolo fa, alle prese con i riflessi scabrosi del crac. La Banca Romana, che manteneva il diritto di battere moneta, era stato il motore della febbre edilizia di Roma Capitale, con generosi finanziamenti a vecchi e nuovi potenti della società capitolina. Ma quando, a causa di una battuta d’arresto del mercato complicata dalla guerra doganale con la Francia, si innescò un massiccio ritiro di capitali dall’estero, il boom edilizio si sgonfiò. Per far fronte alle insolvenze, Tanlongo fece ricorso alle tecniche delle cantine di Collecchio, ai tempi della vecchia Parmalat: dopo aver prodotto 25 milioni di nuove banconote più del consentito, ne aveva stampate altre per 9 milioni clandestinamente. Cinque mesi dopo Giovanni Giolitti faceva nominare senatore Tanlongo, nomina non ratificata dal Senato. Di qui una durissima battaglia parlamentare, illuminata dalla foga oratoria di Napoleone Colajanni, un’inchiesta penale, culminata nelle rivelazioni di Tanlongo di elargizioni a tre presidenti del Consiglio (Francesco Crispi, Antonio Di Rudinì e Giovanni Giolitti).


• Il Foglio 22/12/2005. ”Arrivano i Longobardi!”. Così Stringher accoglieva in Banca d’Italia i padroni del credito del grande Nord, Otto Joel e Giuseppe Toeplitz. E a rivelarlo, in una rarissima confidenza pubblica, fu lo stesso Enrico Cuccia sottolineando che, con la stessa diffidenza, Raffaele Mattioli venne ricevuto da Donato Menichella quando, nel dopoguerra, andò a chiedere il via libera alla nascita di Mediobanca. Eppure Bonaldo Stringher, che nel 1926 riuscì a concentrare in via Nazionale il potere di battere moneta annullando i privilegi concessi ai banchi meridionali, è stato accusato, ancor di recente, di aver assestato ”un tiro mancino al Mezzogiorno d’Italia”. Accusa immeritata perché è assai dubbio che in Italia potesse funzionare il modello Federal System che prevede diverse banche con il potere di battere un’unica moneta, il dollaro. In realtà, è con Stringher, che resterà al vertice della banca addirittura per 30 anni, prima come direttore generale, poi come governatore, che prende corpo il primato discrezionale che l’istituto ha esercitato sulla finanza di casa nostra. Un potere che trae la sua ragion d’essere dalle emergenze che, in un arco di storia che va da Bava Beccaris alla crisi del ’29 passando per la guerra mondiale, non sono state certo poche. Stringher organizza, su richiesta di Giolitti, il salvataggio della Società bancaria italiana (1907) travolta dalla crisi di Borsa; interviene a favore del Banco di Roma (1913), sull’orlo del collasso per i mancati profitti dell’impresa di Libia; nel 1920 organizza il consorzio che salverà dal fallimento la Banca Italiana di Sconto, grande finanziatrice dell’Ansaldo; nel 1922, di fronte a una nuova, più pesante, minaccia di crollo del Banco di Roma mette a punto la società italiana per l’industria e il commercio, una sorta di prova generale di quello che sarà l’Iri. Nel 1929, attraverso l’Istituto di liquidazioni, tampona i conti traballanti di un gruppo di banche cattoliche e della banca agricola italiana, controllata dal gruppo Snia e pesantemente coinvolta nelle sue speculazioni. Lascia il testimone a Vincenzo Azzolini quando bussa alle porte la crisi che imporrà allo Stato il salvataggio di Comit, Credit e Banco di Roma. In assenza di leggi e strutture adeguate ”la Banca d’Italia – scriverà Marco Onado – finiva per avere come obiettivo prioritario, o come vincolo se si preferisce, il salvataggio delle imprese”. Cosa è più importante: evitare alla collettività la catastrofe finanziaria oppure tutelare, con il salvataggio, i responsabili delle crisi? La risposta, nel 1926 (ma anche dopo) è quasi scontata: vengono approvate nuove regole (capitale minimo, ratios patrimoniali, limiti di fido) ma, visto che un’applicazione rigida delle nuove regole avrebbe condannato buona parte delle banche esistenti, si affidano alla Banca d’Italia poteri discrezionali. Più o meno la stessa soluzione adottata da Antonio Fazio di fronte alla concorrenza in ambito europeo. La formula regge, ma a una condizione: quando si è di fronte al potere concentrato nelle mani di un solo uomo forte ”del prestigio personale incontrastato riconosciuto a Bonaldo Stringher”. E non guasta il fatto che, alle spalle dell’uomo, ci sia il potere della politica (magari di un Duce). Altrimenti, quando si litiga con il referente di governo, il gioco traballa.


• Il Foglio 22/12/2005. ”L’Italia è stata definita come il paese dei salvataggi bancari. Paese relativamente povero di capitali e di scarse tradizioni finanziarie”. Così Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia dal 1948 al 1960, dipinge la Penisola in un documento sintetico e prezioso, per le circostanze e le finalità in cui vide la luce. Correva il luglio del 1944 quando il capitano americano Andrew M. Kamark, responsabile della sottocommissione che si occupava delle questioni finanziarie dell’occupazione, si rivolse a Menichella per avere informazioni sugli assetti bancari di quello strano paese, per metà pubblico, metà privato. ”In quel momento noi dell’Allied Control Commission – scriverà più tardi Kamark – non sapevamo molto dell’Iri. Non conoscevamo la sua vera essenza, se l’ente fosse stato incaricato di sviluppare una qualche visione sociale dello Stato fascista. Non sapevamo nemmeno se fosse moralmente corrotto. Per questo mi rivolsi a Menichella: trovai ciò che aveva da dirmi molto esauriente, perciò gli chiesi di preparare un rapporto sulle origini e le funzioni dell’Iri”. In poche pagine, Menichella sintetizza la storia di un capitalismo fragile, in cui la caduta di una banca non è mai stata considerata come un evento normale della vita economica, ”nella quale alla prosperità può succedere l’indigenza, ”alla salute la malattia e la morte”. Ma come evento di carattere straordinario capace di commuovere ”larghe sfere dell’opinione pubblica, provocare dibattiti appassionati sulla stampa, cadute di ministeri e così via. I governi e l’istituto di emissione, presi quasi sempre alla sprovvista e incatenati dall’urgenza dei provvedimenti hanno deciso spesso senza conoscere esattamente la situazione effettiva della banca che chiedeva di essere salvata. Ignoranza che può essere spiegata, se non giustificata, dall’ignoranza che talvolta si è avuta della situazione medesima da parte degli stessi dirigenti delle banche”.
Difficile, più di sessant’anni dopo, trovare giudizi più onesti e sintetici su quel passaggio chiave della storia di casa nostra che fu la stagione dell’Iri, destinata a durare fino al 1993, data d’avvio delle privatizzazioni e della nuova legge bancaria. ”L’istituto – insiste Menichella – trae origine dagli interventi bancari effettuati negli 11 anni correnti tra il 1922 e il 1932. Se lo Stato italiano si è trovato a possedere le tre maggiori banche del paese e molte grosse partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto in base a un proposito dello Stato stesso di voler assumere la gestione di importanti complessi finanziari e industriali; è accaduto invece che avendo lo Stato proceduto al salvataggio di molte banche, esso si è trovato ad essere il proprietario delle azioni degli istituti stessi e delle azioni industriali da ciascuna banca posseduta”. L’Iri, insomma, è figlio di un disastro che ”non ebbero il coraggio di alleggerirsi; anzi, misurando con occhio ottimistico la situazione, ritennero la crisi di carattere passeggero e, illudendosi di riuscire ad attenuarne le ripercussioni, conservarono ed estesero il possesso di azioni industriali”. E Banca d’Italia? Del tutto corresponsabile, al punto che al momento della nascita dell’Iri, sulle spalle del Governatore Vincenzo Azzolini c’è un’esposizione di 8 miliardi di lire, contro una circolazione complessiva di 13,5 miliardi. ”In una situazione del genere – chiude Menichella, che fu il primo direttore dell’Iri al fianco di Alberto Beneduce – non si poteva più parlare di un problema di grandi banche distinto e separato da quello dell’istituto di emissione”. Insomma, il fascismo intervenne non tanto per salvare le industrie ma le banche. E, soprattutto, la Banca d’Italia la cui difesa dell’esistente, senza strumenti adeguati, si era rivelata un pericoloso boomerang. Si spiega così perché la legge bancaria del ’36 punta tutto sulla stabilità, dando dignità di funzione di diritto pubblico alla raccolta dei depositi e all’esercizio del credito. E Bankitalia disporrà da allora di un’autonomia che non ha altro riscontro nello Stato fascista e che, nel dopoguerra, Luigi Einaudi e lo stesso Menichella rafforzeranno ancora.


• Il Foglio 22/12/2005. Guido Carli, nel 1971, userà quel potere discrezionale con energia ma anche con astuzia da consumato politico che delega ad altri (Ugo La Malfa, in primis) l’onore dell’urto con i nemici. Tutto comincia quando Michele Sindona, dopo aver conquistato il controllo della Centrale, lancia la prima offerta pubblica di acquisto della storia italiana sulla Bastogi, la finanziaria che è presente nei sindacati di controllo di Montedison, Pirelli e Italcementi. La Banca d’Italia sbarra la strada al finanziere, dissuadendo con la ”moral suasion” le banche pubbliche a consegnare i titoli all’Opa. Lo stesso Guido Carli racconterà così quell’esperienza. ”Riconosco che il carattere dissacrante dell’iniziativa non poteva non esercitare qualche fascino... L’onorevole Scalfari presentò un’interrogazione nella quale affermò che eventuali ostacoli al libero funzionamento della preannunziata offerta pubblica non avrebbero in realtà altro significato che la decisione del governo di favorire un gruppo privato contro un altro, con grave nocumento di decine di migliaia di piccoli azionisti”. Il giornalista-deputato cambierà ben presto opinione su Sindona. Carli, intanto, si appoggia ad Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, per far rinviare all’infinito l’autorizzazione dell’aumento di capitale di Finambro, piuttosto che utilizzare l’arma dell’amministrazione controllata o della liquidazione: anche così si evita lo scontro, quando l’avversario è troppo forte.


• Il Foglio 22/12/2005. Questa lezione, Paolo Baffi non la capì mai. ”Lui era timidissimo – scrisse al proposito Carli – e temeva il contatto con i politici. Io, invece, quando mi scontravo con loro, avevo sempre alterchi liberatori”. L’epilogo, date le premesse, non stupisce più di tanto. ”Il corso delle stelle nel 1979 fu infausto per Paolo Baffi e per me – scriverà dieci anni dopo Mario Sarcinelli, all’epoca direttore generale della Banca d’Italia – un’accusa infamante per la nostra probità fu elevata e sostenuta con gran rumore di stampa per il tramite di alcuni magistrati... Anche se le accuse apparvero ben presto frutto della malizia degli uomini, il loro permanere fu sufficiente a togliere autorità al Governatore che agli inizi di ottobre si dimise”. La crisi istituzionale più clamorosa (fino a oggi) che ha investito Palazzo Koch scoppia la mattina del 26 marzo del 1979 quando i carabinieri si presentano in via Nazionale. L’accusa è infamante sia per Baffi, che evita l’arresto soltanto per l’età, sia per Sarcinelli, che finisce in carcere fino al 5 aprile: interesse privato in atto d’ufficio e favoreggiamento per non aver inviato ai giudici il rapporto delle ispezioni sui finanziamenti a oltre 150 società collegate alla Sir di Nino Rovelli. Secondo l’accusa, destinata a cadere in breve tempo, questi crediti sarebbero stati concessi senza rispettare le procedure previste e per non aver portato a termine le opere per le quali avevano ottenuto i finanziamenti. In realtà, l’offensiva giudiziaria ha l’aria di una rappresaglia per le ispezioni predisposte dalla Banca d’Italia presso il Banco Ambrosiano e l’Italcasse. Il tutto in una situazione che dir drammatica è poca cosa. Il blitz contro Bankitalia coincide con le ultime ore di Ugo La Malfa. Pochi mesi dopo, l’11 luglio, il liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, viene assassinato da un killer sotto casa. ”Questo è un gioco violento a cui non ci piegheremo”, mormora Baffi. Ma il 20 settembre 1979, dopo poco più di quattro anni di mandato, Baffi, entrato al servizio studi di via Nazionale nel 1936, rassegna le dimissioni. Un governatorato breve ma che impresse ”una netta svolta alla concezione dei rapporti tra la Banca e il sistema politico” e all’attività di Vigilanza. Dalla seconda metà degli anni 40 in poi, infatti, i governatori avevano fatto ampio ricorso al rapporto con le singole banche, attivando un meccanismo di ”moral suasion”. Ma a metà anni 70, sostiene Baffi, questa politica non è più sufficiente: il sistema del credito, troppo rigido e inefficiente, minaccia di entrare nel novero delle imprese in perdita. Per questo non si può più guardare in faccia a nessuno. Anzi, al contrario, le procedure devono essere impersonali e severe. La stessa severità che, ingiustamente, Baffi paga sulla sua pelle.


• Il Foglio 22/12/2005. Carlo Azeglio Ciampi, che di doti politiche ne ha da vendere, fa del rapporto con i ministri del Tesoro una delle chiavi dei suoi successi in 14 anni alla guida della banca. Il Governatore condivide così con Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, la scelta della liquidazione del vecchio istituto, la messa sotto accusa dello cassaforte del Vaticano, lo Ior, e la rinascita affidata a Giovanni Bazoli. Quella del Banco è storia di ieri che ancor oggi proietta le sue ombre nell’attualità. Roberto Calvi, onnipotente padrone del Banco, a sua volta azionista-creditore della Rizzoli-Corsera, entra nel mirino della magistratura nel 1980 per violazione delle norme vigenti in occasione dell’acquisto del Credito Varesino. E’ il classico bastone nella ruota che fa saltare i meccanismi di un sistema fragile ove, a fronte di depositi a breve (e quotazioni azionarie drogate dagli acquisti della scuderia), ci sono investimenti misteriosi e quasi incontrollabili che si perdono nelle consociate estere. Il confronto tra la Banca di Ciampi e il Banco, protetto oltre Tevere e con solidi agganci nella politica italiana, ha risvolti drammatici: gli ispettori di via Nazionale vengono cacciati, ad esempio, in malo modo sulla soglia del Banco Andino di Lima. La situazione precipita nell’immediata vigilia del processo d’appello al tribunale di Milano: Calvi viene trovato impiccato sotto un ponte della City. Ciampi e Andreatta, nonostante gli sforzi in senso contrario di una fetta consistente della Dc, decidono per il commissariamento e la liquidazione del vecchio Banco. La finanza cattolica viene affidata alla solida regìa di Giovanni Bazoli, l’uomo che chiuderà la guerra pluridecennale con il fronte di Mediobanca. E che alla fine ingloberà la laicissima Comit.

• Il Foglio 22/12/2005. Questa sommaria carrellata non può che finire sul piano sequenza più opinabile di una lunga, pur travagliata storia: la passeggiata di Lodi. Il governatore Antonio Fazio affiancato da Gianpiero Fiorani e da ”Chicco” Emilio Gnutti, dietro l’interminabile codazzo di banchieri e bancari, portaborse e tesorieri che ogni anno si riuniscono per una passerella tanto rituale quanto priva di contenuti. Quel corteo, più rigoroso nella distribuzione dei posti di una cena a Palazzo reale, dava la misura di un potere amministrativo immenso e autoreferenziale. Tanto più vicini si era al Governatore, tanto più si poteva osare in termini di crescita. Chi ”sgarrava” alle regole (come Alessandro Profumo, al momento dell’avvio dell’Opa sulla Comit lanciata senza avvertire Fazio) aveva diritto al perdono purché si ravvedesse (l’impegno di Unicredit contro Vincenzo Maranghi in Mediobanca).
Per gli eletti l’Eden era di questo mondo, come ben sa Cesare Geronzi, beneficato in più di un’occasione (vedi Bipop) e protetto dai ”nemici” del Sanpaolo, che avevano osato insidiare la ”sua” Banca di Roma. Su tutto una presunzione di onnipotenza temperata da un complesso di inferiorità: le banche italiane, come ai tempi della banca romana o del crac del ’29, andavano protette e pilotate, incapaci com’erano di badare a se stesse: il risparmio, in un paese dove prima o poi i giochi della speculazione e del potere hanno la meglio sulle regole, va indirizzato verso le ”mani adatte”. Ma, ahimè, non è detto che queste s’incontrino sui marciapiedi di Lodi. (u.b.)