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 2005  gennaio 30 Domenica calendario

Quando si osserva un’epoca da lontano capita sovente di vedere solo i rilievi più sorprendenti

• Quando si osserva un’epoca da lontano capita sovente di vedere solo i rilievi più sorprendenti. Ma se riuscissimo a aguzzare la vista, a concentrarci sui particolari, allora potremmo vedere ciò che spesso sfugge. Così scopriremmo che a Roma, duemila anni fa, c’era chi divorava ventri di cervo, talloni di cammello, murene, vulve di scrofa. E che a pochi isolati, altri erano perfettamente soddisfatti di avere in tavola cavoli bolliti conditi con un filo d’olio e un bicchiere di vino aspro. Alcuni volgevano un ultimo sguardo al tramonto prima di prendere sonno, altri tiravano mattina insieme a prostitute, buffoni e balli di danzatrici di Cadige. Poche cose danno l’idea della complessità della società romana come il cibo. Dietetica, ostentazione, moralità, religione, status: tutto questo, e altro ancora, si riverberava sui deschi apparecchiati. La regola, che come tale, soprattutto a Roma, ammetteva molte eccezioni, prescriveva la sveglia all’alba. Al risveglio si beveva solo qualche sorso d’acqua. Poi, a mezza mattina c’era il jentaculum, ossia una merendina veloce con pane e formaggio. A mezzodì si faceva un intervallo con il prandium, ovvero pane e frutta, magari un pezzo di carne. Ma niente di più e di meglio. Infine, la sera, con una giornata di lavoro alle spalle e dopo essere stati alle terme, si cenava, e questo era il pasto più importante della giornata. In cucina c’era di tutto ma mancava molto: niente pomodori, patate, cacao. Ciliegie e albicocche primizie d’importazione. Carne bovina vietata perché il bue era sacro. Lo zucchero non c’era, a parte il misterioso e costosissimo saccaron che arrivava dalla Persia. Pure di fagioli non c’era traccia, ma a questo si poneva rimedio con lenticchie, fave, ceci e cicerchie. E poi niente agrumi (a parte i cedri), niente peperoni e peperoncini (quindi il sapore piccante si otteneva solo con il pepe, spezia d’importazione) e ovviamente nessuno si sognava nemmeno tè e caffè.
• Gusti e preparazioni. Ciò che c’era comunque era sufficiente, volendo, per una cucina molto elaborata. A noi basta leggere il trattato di cucina del celebre cuoco Apicio per avere un elenco di incredibili piatti: ci sono lingue di pappagallo parlante, due salse diverse per lo struzzo lesso, ricette per vulve di scrofa fertili e sterili. Alla base di ogni piatto c’è generalmente il garum, una salsetta a base di interiora di pesce putrefatte e passate al setaccio e aceto di vino. Sembra repellente ma a rifletterci il suo sapore non doveva essere molto diverso da quello di una speziata pasta d’acciughe. Il garum è diffuso in ogni casa, serve per insaporire tutto e prende in parte il posto del sale, che è molto costoso. Qualcuno se lo fa a casa, ma ci sono numerose aziende che lo producono in forma semi industriale e alcuni marchi sono rinomati per la qualità del loro prodotto. Pensare che gli antichi apprezzassero gli stessi sapori a cui noi siamo abituati è un’ingenuità. Gli anni che ci separano da loro sono un po’ come i chilometri che ci dividono oggi da popolazioni lontane, con abitudini alimentari tanto diverse dalle nostre. Anche questa considerazione non è però applicabile senza fare una serie di distinguo. I poveri tutto sommato mangiano pietanze che potremmo persino apprezzare: polente di cereali (ma non di mais perché arriverà secoli dopo), zuppe di legumi e farro, formaggio simile a ricotta, frutta e, di rado, un po’ di selvaggina, pollame o carne suina. I ricchi invece, soprattutto se desiderosi di intraprendere una faticosa scalata sociale, sanno che devono approntare stupefacenti banchetti e affrontare spese folli per soddisfare le ganasce di chi in seguito li dovrà sostenere nella loro ascesa. E anche nei sapori le mense più ricche prediligono quelli cangianti, come l’agrodolce del pesce mischiato al succo d’uva e ai datteri, o la sorpresa che scaturisce quando la lingua ha a che fare con il pepe piccante mischiato con dolcissimo miele.
• Trovate spettacolari. Certo, anche all’epoca è considerato un po’ cafone offrire banchetti sfrenati, però sembra quasi che il brontolio dei moralisti sia un ulteriore motivo per inventare trovate sempre più spettacolari. Stupire gli amici e indignare i bacchettoni: questa è l’essenza del divertimento per i ricconi dell’epoca. Siamo lontani anni luce dall’intensità del Pranzo di Babette descritto dalla Blixen. Non c’è ricerca di perfezione nella preparazione, di armonia delle portate, nessuno si concentra sulla educazione del gusto. Il sublime non è nella sostanza, ma nella forma e nella quantità. Petronio descrive con acume e sarcasmo la cena del liberto Trimalcione. L’arricchito tanghero appronta con infantile fantasia una serie di colpi di teatro. Dalle pietanze arrostite escono uccelli vivi pronti a prendere il volo, i servi inscenano una rissa e bastonandosi rompono anfore da cui escono ostriche pronte per essere distribuite agli ospiti. Quindi viene portato in tavola un cinghiale avanzato dalla sera prima, affinché tutti sappiano che in quella casa l’abbondanza è tale che non si riesce mai a finire ciò che è stato cucinato, e sul grugno l’animale ha un berretto da liberto, dato che per le 24 ore precedenti è stato libero. Infine, racconta Petronio, arriva in tavola un enorme porco arrosto. Alla vista della portata Trimalcione rotea gli occhi, impreca e manda a chiamare il cuoco: l’animale non è stato eviscerato. Ne nasce una scenata di fronte agli ospiti con lo chef che piagnucola scuse mentre il suo padrone bercia. Alla fine è lo stesso Trimalcione che, davanti a tutti, squarta il maiale. Dopo avere affondato le mani nel ventre, ne tira fuori, come fossero budella, collane di salsicce e sanguinacci tra lo stupore di tutti. E da quanto ci risulta Trimalcione non è certo l’unico a cercare spasmodicamente la sorpresa. Il pettegolo Cicerone malignava che a casa di Lucullo si mangiasse bene soltanto quando c’erano i banchetti. Per sbugiardare la malalingua Lucullo si accordò quindi con i suoi servi. Quando chiedeva di «apparecchiare nella sala d’Apollo» ci doveva essere una sorta di allarme generale nelle cucine per approntare un lauto banchetto nel minore tempo possibile, affinché i suoi ospiti pensassero che in quella casa l’abbondanza fosse regola, e non eccezione. E del resto Lucullo alla fine risolse ogni possibile equivoco spiegando alla servitù che lui, in effetti, da solo non pranzava mai. Al massimo «Lucullo pranzava con Lucullo», cioè era ospite di se stesso, e quindi da trattare col maggiore riguardo possibile.
• Spese folli. La spettacolarizzazione della tavola, ovviamente, si riverberò in una ricerca di ingredienti rari e questo fece molto salire il prezzo delle delicatessen più raffinate. Le cronache raccontano che Apicio pagò, per un triglia fuori misura (pesava circa un chilo e mezzo!), la bellezza di 5000 sesterzi. Pur evitando spericolati cambi con l’euro, per dare un’idea si può ricordare che a Pompei è stato rinvenuto all’interno di un thermopolia, ossia il fast food dell’epoca, un sacchetto con 678 sesterzi. Tanto era l’incasso del giorno di una ben avviata attività commerciale nel centro di una ricca cittadina. E con un sesterzio alla fine del II secolo d.C. si poteva comprare un litro di vino buono. Ora che sappiamo quanto era disposto a spendere per un singolo pesce, non stupisce più di tanto che proprio Apicio si suicidò quando scoprì che il suo patrimonio era di 10 milioni di sesterzi. Un patrimonio immenso ma allo stesso tempo insufficiente a garantirgli il tenore di vita al quale era abituato. Non era comunque l’unico a dovere pagare cifre consistenti per tenere ben piena la dispensa. Molti mantenevano una nave veloce e una ciurma esperta che fosse pronta a partire per andare a buttare le reti lungo la costa nordafricana nella speranza di prede miracolose. Domiziano convocò addirittura alcuni senatori per discutere come fosse meglio cucinare un enorme rombo pescato vicino a Ancona e portato in una vasca d’acqua marina ancora vivo a Roma. Mancava un tegame abbastanza grande per contenerlo, quindi tutti proposero di tagliarlo fino a quando, l’intimidito Montano (con Domiziano era pericoloso sbagliare) sentenziò che per un pesce così maestoso fosse doveroso costruire una pentola adatta. La sua proposta passò all’unanimità. Per mostrarsi raffinati era dunque necessario approvigionarsi di primizie, acquistando lontano da Roma, e questo faceva lievitare ulteriormente i prezzi. I tartufi, quelli migliori, venivano dalla Libia, il vino dalla Campania, alcuni tipi di selvaggina dall’Africa e via spendendo.
• Gente di classe e parvenu. Pensare però ai ricchi romani come a un blocco compatto di persone dedite soltanto alla crapula e alle orgie è come ritenere tutti i benestanti europei intenti, da giugno a settembre, a ballare sui cubi del Billionaire di Porto Cervo. Plinio il Giovane, raffinato e colto, racconta quanto gradevoli fossero le frugali cene nella villa di Traiano, a Civitavecchia, composte da cibo semplice buono, vino bevuto con misura e piacevoli discussioni. Ma se per molti un piatto di lumache, qualche frutto, un pezzetto di carne e magari qualcuno che divide le sue buone letture coi commensali sono gli ingredienti perfetti per una splendida serata, per altri il piacere dell’eccesso e dell’ostentazione era irrinunciabile. Questa dinamica inizia a diffondersi soprattutto dopo il disfacimento dei valori dell’età repubblicana. Da un dato momento l’alta società romana appare tutta tesa ai piaceri dell’amore e del palato e la percezione del decadimento generale distilla un senso di precarietà che degenera sovente nell’eccesso. Idealmente la cena di Trimalcione descritta da Petronio è del tutto simile alla Grande abbuffata del graffiante Ferreri. In due epoche diverse, la classe dirigente si stordisce nell’eccesso in attesa della fine: questo è il concetto che unisce due opere per altri versi naturalmente lontane.
• Galateo e abitudini. A tavola si sedevano solo i provinciali, i rozzi e chi era così raffinato da permettersi il lusso dell’anticonformismo. Il bon ton infatti ordinava di cenare stando (scomodamente) sdraiati su un fianco. Si può persino pensare che mangiare sul triclinium non fosse proprio un’usanza amata da tutti i romani se è vero (come sembra) che Catone l’Uticense raccolse una grande stima dai suoi concittadini dopo avere dichiarato che avrebbe mangiato seduto finché non fosse riuscito a ribaltare la tirannia di Cesare. Infine rutti e peti erano tranquillamente ammessi. « l’ultima parola della saggezza», commentava Cicerone, anche se ora queste parole sembrano più un detto da osteria che la chiosa di un colto letterato. Per quanto riguarda il vitto, lo abbiamo già detto, cambiava molto a seconda delle classi sociali. I soldati per esempio seguivano una dieta sana: ogni giorno avevano diritto a quasi un chilo e mezzo di pane, all’equivalente di una bottiglia di vinaccio, a ortaggi e a legumi. Completavano il pasto, se ci riuscivano, con un po’ di selvaggina e fichi. La dieta dei contadini era simile, mentre chi abitava in città consumava molto pesce. In ogni caso tutti tendevano a mangiare meglio che potevano. Gli dei, dopo averli obbligati a magiare per sopravvivere, si facevano perdonare invitandoli a tavola con l’appetito e ricompensandoli col gusto, dunque il piacere della buona tavola non era un torto per nessuno. In ogni caso ci sarebbe stata di sicuro una rivoluzione se fosse stato imposto loro, come accadeva a Sparta, di mangiare in tavolate comuni sempre lo stesso piatto, il terribile ”brodetto nero” specialità del posto. Si trattava di un intruglio caldo di sangue, vino, grasso, cereali e carne. Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, che l’aveva assaggiato, aveva chiesto indignato: «Come si può mangiare un simile orrore?» «Condito con fame stanchezza e sete», gli avevano risposto distrattamente i commensali, continuando a trangugiare la broda.
• Avvelenare lo spirito, e il corpo. Alla fine gli stravizi minarono lo spirito delle classi dirigenti romane. E non si trattò solo di una deriva morale, ma soprattutto di un lento avvelenamento del corpo. innanzitutto i ricchi mangiavano moltissime piatti cucinati con spezie. Questi odori erano molto costosi e i commercianti avevano l’abitudine di mescolarli con polvere di piombo per farli pesare assai e frodare la facoltosa clientela. Allo stesso modo il pesce troppo frollato veniva ugualmente venduto dopo essere stato lavato e nei banchetti si faceva un gran consumo di vino cotto in grandi pentole di piombo. Oltre a queste frodi alimentari, ci fu pure una generale, scarsa attenzione alla ruggine del grano, che rende il cereale in parte tossico e non venivano scartate le spighe colpite dal fungo della segale cornuta, da cui duemila anni dopo è stato sintetizzato il principio attivo dell’Lsd. Ci vuole molta immaginazione per convincersi che l’impero romano sia crollato per colpa di una dieta sbagliata, e probabilmento questo non è accaduto. Certamente però fu a tavola che la Roma imperiale sublimò il suo decadere.
• Un succulento pollo con pasta e latte. Metti il pollo a cuocere in una salsa di garum, olio, vino con un mazzetto di coriandolo e una cipolla. Una volta cotto, levalo dal sugo di cottura e versa in una pentola pulita il latte con un pizzico di sale, miele e una goccia d’acqua. Fai intiepidire sul fuoco lento e sbriciola della pasta che, poco alla volta, aggiungi rimestando in continuazione per non fare bruciare. Mettici dentro il pollo intiero o a tocchi; travasa il tutto sul piatto e innaffia con una salsa così preparata: pepe, ligustico, origano; tempera con miele e un po’ di mosto cotto e lavora col sugo di cottura. Fai bollire in un pentolino; dopo la bollitura, lega con l’amido e servi.