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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

ll calcio di Amadei: «Emigranti e salami rubati»

• ll calcio di Amadei: «Emigranti e salami rubati». Il Giornale 21 maggio 2006. L’India voleva giocare a piedi nudi e per questo fu squalificata. L’Inghilterra perse contro gli Stati Uniti e a Londra pensarono a un errore tipografico leggendo il risultato sui giornali. Brasile, 1950: il primo mondiale del dopoguerra, vinse l’Uruguay facendo piangere il Brasile in un Maracanà nuovo di zecca. Doveva essere il torneo del Grande Torino, ma finì un anno prima contro la collina di Superga. C’era una nazionale da ricostruire e un viaggio da organizzare, la Fifa diede più di una mano a una federazione campione del mondo in carica, ma con le tasche vuote. Pio XII benedì la squadra prima della partenza e Boniperti racconta che mentre tutti baciarono l’anello papale, il terzo portiere si presentò al Pontefice: «Piacere Casari», disse. La squadra raggiunse il Brasile via mare, su quella nave c’era anche Amedeo Amadei, il «fornaretto» centravanti di Roma, Inter e Napoli. «Eravamo in due a voler viaggiare in aereo, a me non faceva paura volare. Però la federazione aveva deciso così: partimmo da Napoli con la motonave Sises, di proprietà degli Agnelli. Sedicimila tonnellate. Un ponte, quello più in alto, riservato a noi. Sotto, gli altri viaggiatori cui era proibito salire al nostro livello». Quanti giorni durò il viaggio? «Sedici. Con una tappa a Las Palmas, nelle Canarie. Dove giocammo un’amichevole contro la squadra locale e facemmo tutti schifo, tanto che il migliore fu il portiere Sentimenti IV, ala destra per l’occasione». Chi era il leader di quella nazionale? «Senza dubbio Carlo Parola». E Boniperti? «Ah, Marisa. Noi eravamo dei figli ’e ’ndrocchia, lui un signorino tutto perfetto, elegante e distaccato. Da qui, il soprannome».  vero che in quel viaggio tutti i palloni finirono in mare? «Tutto falso. Gli unici palloni visti erano quelli medicinali per fare i pesi. Per tutto il viaggio abbiamo fatto due sedute fisiche al giorno e tattica. E camminate sui ponti e tante carte. Arrivammo a San Paolo stanchi e senza preparazione, ma accolti da duecentomila italiani emigrati laggiù. Cinque giorni e avremmo esordito» . Già, Svezia-Italia 3-2: Carapellese, Jeppson (2), Andersson, Muccinelli i marcatori scandinavi senza «stranieri» (per dire, il Gre-No-Li rimase a casa), la stella è Jeppson, mister 100 milioni. Qual è il suo ricordo? «Che mentre stavo riposando, come facevo sempre prima di ogni incontro, mi portarono in camera la maglia da titolare e poi vennero a riprendersela, ”lasciamo stare, decidiamo sul campo” dissero. Volevano far giocare Campatelli per questioni di mercato, il Bologna aveva intenzione di venderlo e aveva bisogno di alzare la sua valutazione. Uno, tra me e Muccinelli, doveva fargli posto: seppi che non avrei giocato solo venti minuti prima della partita». Chiese spiegazioni? «A quei tempi le spiegazioni né si chiedevano e né si davano. Si subiva e basta. Novo e Bardelli, i due commissari tecnici, facevano anche gli interessi delle società». Brera scrisse che Novo, presidente del Grande Torino, e Bardelli, giornalista di Stadio, quotidiano sportivo di Bologna, «litigavano miserevolmente» prima di ogni formazione. vero? «Discutevano, ma allora tutti eravamo più educati di oggi». Come passavate il tempo nel ritiro paulista? «Eravamo in un albergo in centro, ci portavano al cinema e a teatro, visitammo anche due rettilari». Niente scappatelle con le donne brasiliane? «Dopo tanto digiuno una merendina ci stava bene, ma ci fu chi se la mangiò solo alla fine del torneo...». La Svezia pareggiò col Paraguay così la vittoria con i sudamericani (2-0, Carapellese e Pandolfini i marcatori) fu inutile. Che cosa ricorda dell’eliminazione? «Facemmo una figura da pellegrini e per i nostri emigrati fu una batosta incredibile. Gli italo-brasiliani che circondarono il pullman dopo la seconda partita, ci guardavano come cani bastonati». Tornaste in nave o in aereo? «Io in aereo, non vedevo l’ora di rivedere casa. Benito Lorenzi scelse la nave, ma sbagliò i conti salendo su un bastimento che fece scalo in Francia per lasciare un carico. Arrivò in Italia un mese dopo, giusto in tempo per ricominciare la preparazione estiva». Che tipo di mondiale fu? «Cosa vuole che le dica, sono passati così tanti anni. Ci fece una grande impressione la Svezia. Delle altre squadre non sapevamo un granché. Nell’Uruguay credevamo molto poco, per tutti doveva vincere il Brasile». Quanto guadagnò per quelle due partite? «Ogni tanto ci davano 50mila lire, allora solo la medaglietta di partecipazione». Quali erano gli stipendi dell’epoca? «All’Inter io guadagnavo 240mila lire al mese, ma a Milano si stava bene. Al Torino, per esempio, non superavano quota 150mila. Con quei soldi rimisi in piedi la mia panetteria di Frascati distrutta dai bombardamenti». Amadei, cos’era la miseria per i calciatori di quell’epoca? «Il cestino da viaggio nelle trasferte con la nazionale, se c’era un pezzo di pollo eri fortunato. Una volta in treno io dormivo con Gino Cappello: ci mangiammo il salame che lui aveva fregato a un compagno di squadra». Paolo Brusorio (continua)
• Boniperti stregato da Puskas «Come hanno fatto a perdere?». Il Giornale 23 maggio 2006. Torino. E questa volta non c’era nemmeno la scusa del viaggio in nave come quattro anni prima in Brasile. Millenovecentocinquantaquattro, quinta edizione della coppa Rimet, si gioca in Svizzera. Gli azzurri ci vanno in pullman ma rimediano un’altra magra figura: fuori al primo turno. Sedici squadre alla fase finale, nei gironi eliminatori l’Ungheria, strafavorita, incontra la Germania. Così quella che sarebbe diventata la finale mondiale ha un prologo incredibile: 8-3 per l’orchestra di Puskas, ma i tedeschi schierano le riserve. Nell’ultimo atto di Berna le cose andranno poi alla rovescia: l’Ungheria che da anni menava la danza in Europa (aveva rifilato un 6-3 a Londra e un 7-1 a Budapest ai boriosi inglesi), che in semifinale aveva liquidato il Brasile per 4-2 (con Puskas preso a bottigliate negli spogliatoi da Pinheiro) viene schiacciata dai cingolati tedeschi. Finisce 3-2 per Fritz Walter e soci con una scia di dubbi sulla benzina che faceva girare il motore della panzer division. Sette giorni dopo la finale tutta la squadra tedesca, ma non Walter, sarebbe finita in ospedale per un’epatite virale. Sospetti. Voci. Prove? Zero. Capitano dell’Italia e tra i reduci dal disastro brasiliano (Cappello, Mari, Pandolfini, Muccinelli e Lorenzi gli altri) è Giampiero Boniperti, prima bandiera della Juventus («Ma sa che dovevo andare al Torino, pensi, sarei anch’io morto a Superga») e ora presidente onorario dei bianconeri. «Nel Paese c’era molto entusiasmo per quei mondiali anche perché si giocavano così vicino a casa». Il commissario tecnico era Lajos Czeizler, applica il WM in campo, veniva dal Milan e nel ’48, alla guida della Svezia, aveva vinto le Olimpiadi a Londra. Che tipo era? «Un vecchio signore ungherese. Un bell’uomo, alto e dal gran portamento. Severo. Mai una parola fuori posto. Czeizler era il direttore tecnico, sul campo lavorava la commissione formata da Schiavio, Pitto e Piola». Dietro la scrivania c’è una sua foto con Piola... «Un grande giocatore che in campo lottava come pochi. Dava delle gomitate che non ho più visto tirare da nessuno. Andavamo a caccia insieme, aveva una falcata impossibile da tener dietro». In ritiro andaste a Ginevra, ma l’ambiente soprattutto dopo la prima partita (2-1 per la Svizzera, gol proprio di Boniperti) si surriscaldò in modo inaspettato. Che cosa successe in campo? «Subimmo gol in contropiede, poi pareggiai io. Nella ripresa scoppiò il finimondo, prendemmo due pali con Galli e l’arbitro brasiliano Viana annullò in modo inspiegabile una rete di Lorenzi. E a dieci minuti dalla fine, ancora in contropiede, arrivò il secondo gol». Mai più incrociato Viana? «Sì, otto anni dopo in Cile. Ero là da osservatore e in un ristorante di Valparaiso lo riconobbi e montai su tutte le furie. Volevo quasi picchiarlo, ma riuscirono a fermarmi». Il suo mondiale durò poco, però. «Presi un calcione terribile dallo svizzero Flükiger. Mi ha rovinato la caviglia, così rimasi fuori la seconda partita, quella con il Belgio a Lugano». Vinciamo 4-1, la Svizzera perde con gli inglesi, è spareggio a Basilea con i padroni di casa. Disfatta, 4-1 per loro. Come si spiega quel tracollo? «Non erano così scarsi. Vonlanthen per esempio era un grande giocatore. Erano stati risparmiati da guerra e miseria e, forse, avevano un entusiasmo superiore al nostro». Lei di quella nazionale era il capitano. Che cosa ha voluto dire portare quella fascia ai mondiali? «Ero tra i reduci del Brasile, avevo più esperienza degli altri. Ma devo essere sincero: l’unica incombenza per il capitano era scegliere il verso della monetina al momento del sorteggio». Con chi legava di più di quel gruppo? «Con Lorenzi. Il più giocherellone di tutti. Tanto che sul pullman persino i suoi compagni dell’Inter si sedevano il più lontano possibile da lui». Al vostro ritorno Andreotti, allora sottosegretario agli Interni, chiese di limitare gli stranieri a uno per squadra, ricorda? «Ricordo solo che Andreotti seguiva il calcio sempre molto da vicino. Ci spediva molti telegrammi di auguri e di congratulazioni». La finale di quella coppa Rimet è Ungheria-Germania. Perché l’Ungheria era così favorita? «Giocava un calcio fantastico. Incontrarla, metteva paura». Hidegkuti centravanti arretrato: era quello il segreto? «Ma va, questa è un gran balla. Hidegkuti faceva la mezzala, poi c’erano le due ali Kocsis e Csibor che spompavano le difese avversarie e quel fuoriclasse di Puskas che faceva il resto. Tutto sinistro, usava il destro solo per scendere dal letto». E allora come fece a perdere dalla Germania? «Quella partita è il miglior ricordo del mio mondiale. Dovevo sposarmi, ma restai apposta in Svizzera per andare allo stadio. Dopo otto minuti l’Ungheria era sul 2-0, volevo venire via, sembrava tutto finito. Ma la Germania mise in campo una forza dell’altro mondo, non ci credeva nessuno...». Quanto c’è di vero nelle voci sul doping tedesco? «Non lo so. Dico solo una cosa: ancora non mi spiego come la Germania riuscì a vincere». Paolo Brusorio (Continua)
• «Nel mio grande Brasile il mitico Garrincha era più decisivo di Pelè». Il Giornale 29 maggio 2006. Milano. A Belfast avevamo portato spaghetti e bottiglie di Chianti. Mancava solo la squadra. Così, per la prima volta l’Italia non va alla fase finale dei mondiali battuta dall’Irlanda del Nord per 2-1 e dalle scelte di un ct, Alfredo Foni, incomprensibili per la critica dell’epoca: imbottita di oriundi (da Schiaffino a Ghiggia, da Montuori a Da Costa) quella nazionale finì per perdere l’anima oltre al biglietto per la Svezia. Dove ci vanno sedici squadre: c’è l’Inghilterra ancora scioccata dalla tragedia aerea che ha decimato il Manchester United; la Svezia organizzatrice che richiama a colpi di referendum popolare i senatori professionisti un po’ in là con gli anni (Liedholm ne aveva 37, Gren 38 e aveva già smesso da due stagioni) e c’è il Brasile che ai pilastri (i fratelli Santos, Didì e il capitano Bellini) affianca una covata di ragazzini: Pelè, Garrincha e Altafini. la prima volta di un Paese vincente fuori dal proprio continente: 5-2 per il Brasile in finale, Liedholm, in campo rapato a zero per scommessa, segna il primo gol, poi Vavà, Pelè (doppiette) e Zagallo e «raggio di luna» Selmosson fanno il resto. Miglior giocatore del torneo è Didi, guardava la palla e diceva «è lei quella che deve correre». Racconta José Altafini: «Siamo stati cinque mesi in ritiro in montagna, a Campos de Jordao, regione del Minas Gerais. Eravamo in trentatré, ci fecero ogni tipo di esame: vista, denti, muscoli. Io e Pelè fummo gli unici a non aver problemi odontoiatrici, molti furono operati di appendicite. Ci tormentavano con i test di intelligenza: dadi, cubi, disegni. Come fossimo dei matti. Il preparatore atletico era Amaral, un militare che poi arrivò alla Juventus». Allenava Vicente Feola. Oriundo napoletano, venne in Italia per studiare la Fiorentina di Bernardini e poi modellò il Brasile. «Feola era un grasso bonaccione, capiva di calcio, ma passava ore a spiegarci cose noiosissime, tipo come battere un fallo laterale. Assomigliava a Rocco, ma era meno burbero». Come fu l’impatto con la Svezia? «Eravamo in ritiro a Hindas, vicino a Göteborg. Andavamo in città in autostop. E lì scoppiava il finimondo...». Scusi? «Le ragazze svedesi impazzivano per quelli con la pelle nera. Si avvicinavano e passavano il dito per vedere se quel colore veniva via... Io ero il più sfigato: da bianco, non interessavo. Pelè fece colpo su una svedese inusuale, una morettina. Dissero anche che Garrincha avevo messo incinta una ragazza...». Fu l’esordio di Pelè nella coppa Rimet: ricordi? «Siamo cresciuti insieme, lui nel Santos e io nel Palmeiras. Nelle sfide di campionato faceva sempre un gol più di me. Aveva 17 anni, ma era già maturo. Più di me sicuramente...». Parliamo di Garrincha, l’altro fenomeno. «Era poco intelligente, Feola non gli spiegava gli schemi tanto non li avrebbe capiti. Ma in campo gli veniva tutto naturale, quel mondiale l’ha vinto lui. Pelè ha contribuito al titolo, Didì era il leader, ma Garrincha ha risolto i problemi». E Altafini? «Ero titolare con Pelè, poi nell’esordio con l’Austria su un campo di patate mi sono storto la caviglia. Facevo fatica a stare in piedi, contro l’Inghilterra sbagliai due gol. Feola mi mise fuori con la Russia e Vavà, il mio sostituto, fece una doppietta. Tornai contro il Galles, ma sembrava il Padova di Rocco: impossibile sfondare. Fu giusto scegliere Vavà, uno peitudo si dice in Brasile. Forte, dal gran fisico. A me restano un po’ di rimpianti...». Quali? «Non aver capito l’importanza di vincere un mondiale. Ancora adesso quando vedo gli altri alzare la coppa, mi prende la malinconia. Ho sbagliato anche a giocare da oriundo con l’Italia, non l’avessi fatto avrei vinto altri tre mondiali... E una volta qui da voi, non dovevo nemmeno cambiare il nome: io ero Mazola, in Brasile nessuno mi conosceva come Altafini». Capocannoniere fu Fontaine: 13 gol, ancora record. Che tipo di attaccante era? «Potentissimo. Quella Francia aveva tre giocatori fantastici: Kopa, Vincent e appunto Fontaine. Uno cui era difficile togliere la palla, un tipo alla Toni». Fu l’esordio dell’Urss di Jascin: davvero un portiere fenomeno? «Contro di noi non fece miracoli. Ma di quella squadra conoscevamo tutto: si allenavano a un chilometro da noi e Didì e Nilton Santos, due con la testa già da allenatore, si nascondevano nella foresta per spiare i loro schemi». Quanti soldi vi fruttò quella vittoria? «Soldi? Prenda nota: un piccolo televisore, una bicicletta, un frigorifero da picnic, una patacca di orologio placcato oro dalla rivista Cruzeiro e un terreno nella regione del Pantanal. Djalma Santos lo vide, ci disse di lasciar perdere. Registrarlo costava troppo...». Rispetto agli altri, il «suo» Brasile che posto occupa? «I miei idoli restano quelli del 1950. Poi ci siamo noi e la nazionale del ’70, con quattro numeri dieci in campo. Quelle del ’94 e del 2002 si assomigliano, più operaia la prima, ma entrambe modellate su un giocatore: Romario e Ronaldo. Quello dell’82 invece era forte, ma giocava sui tacchi a spillo. E per questo perse contro l’Italia». Paolo Brusorio (continua)
• Il 1962 di Maldini: «Ci buttarono fuori i due ct e la stampa». Il Giornale 3 giugno 2006. Milano. Alfredo Di Stefano si fa male al ginocchio destro proprio alla vigilia del mondiale in Cile. il 1962. Aveva 36 anni il fenomeno argentino e quel torneo l’avrebbe giocato per la Spagna, la sua nuova patria.  l’ultimo treno mondiale per lui: lo perde. Pelè comincia da Pelè, un gol al Messico, ma continua da umano: uno stiramento fischia la fine del suo mondiale. Gli subentra Amarildo, in Italia con Milan e poi con Fiorentina e Roma: non cambia nulla, i campioni in carica non abdicano, la preda finale di turno è la Cecoslovacchia del Pallone d’oro Masopust. Suo il primo gol, poi Amarildo, Zito e Vavà autografano la seconda coppa Rimet. Brilla ancora Garrincha, «da che pianeta arriva?» si chiede il giornale El Mercurio. Finale in diretta tv per la prima volta, riprese in bianco e nero. L’Italia si fa male da sola. O quasi. La buriana degli oriundi continua, non bastano i danni fatti quattro anni prima da Foni. In Cile sono quattro i convocati dal passaporto spurio: gli italo brasiliani Sormani, Altafini (che nel ’58 in Svezia aveva giocato con i Verdeoro) e gli italoargentini Sivori e Maschio. Los angeles con la cara sucia: gli angeli dalla faccia sporca. Il commissario tecnico è Giovanni Ferrari, mezzala campione del mondo nel ’34 e nel ’38, praticante del WM. La federazione gli affiancò Paolo Mazza, grossista di elettrodomestici e dirigente della Spal. Amico del presidente della Federcalcio, il pugliese Giuseppe Pasquale che a Ferrara abitava. In ritiro gli azzurri vanno a San Pellegrino e le cronache tramandano notti bianche aspettando un poker: Ferrari alle dieci di sera prendeva i bagagli e tornava a Milano, via libera per gli amici del tavolo verde guidati da Omar Sivori. Trapattoni, Radice, Bulgarelli, Bolchi e Maldini: col senno di poi, la nazionale degli allenatori. Uno di loro, Cesare Maldini, riavvolge il film. «Fallimmo perché due come Ferrari e Mazza non erano all’altezza di guidare una squadra ai mondiali». Perché? «Avevano delle carenze, non studiavano gli avversari e, soprattutto, si facevano imporre la formazione dai giornalisti». Fuori i nomi? «I due più potenti e influenti erano Aldo Bardelli del Corriere dello Sport e Gualtiero Zanetti, firma della Gazzetta. La loro opinione era molto ascoltata dal ct». La nazionale fu preceduta da un reportage di due inviati italiani, Antonio Ghirelli e Corrado Pizzinelli, che descrissero il Cile come un Paese «afflitto da corruzione, prostituzione, analfabetismo, alcolismo e miseria». Niente male come inizio. «L’atmosfera infatti cambiò improvvisamente. Fummo accolti da un gran entusiasmo, poi il vento girò. Eravamo in ritiro a Santiago, in una caserma dell’aviazione, una bella struttura in legno ma la vita per noi divenne molto difficile». Che cosa successe? «Che non potevamo allenarci in pace, ”italiani di merda” era la cosa più carina che ci gridavano dietro». Esordio con la Germania: 0-0. Che cosa ricorda? «Che come tutte le prime partite fu giocata in modo molto attento. Fu un buon incontro, con loro giocava Uwe Seeler. fisicamente fortissimo. Un tipo alla Nordahl». Poi il misfatto con il Cile. Gli italiani lanciano garofani al pubblico, ma vengono ricambiati da fischi. L’arbitro Aston dopo 12 secondi fischia il primo fallo, Ferrini e David espulsi per reazione, il «pugile» di casa Sanchez gira impunito per il campo. Finisce 2-0 per i cileni. E siamo di nuovo subito a casa. Inutile il 3-0 successivo alla Svizzera. «Prima bisogna fare un altro discorso...». Facciamolo. «Alla vigilia, la commissione decise di cambiare mezza squadra. Dissero che eravamo stanchi, assurdo visto che avevamo giocato una sola partita. Rimasero fuori Buffon, Losi, Radice, Sivori e il sottoscritto. In più spostarono Salvadore da libero a centrocampista per far posto a Tumburus. Si erano fatti consigliare dalla stampa, non avevano capito un tubo». Sicuro? «Le racconto la sera della vigilia. Io sono in camera con Altafini, arriva Sivori con la sigaretta in bocca e dice che noi non avremmo giocato. ”Sei pazzo” gli risposi. E allora lui ci racconta che aveva sentito tutto il colloquio tra Ferrari e i giornalisti nella hall dell’albergo». Allora il colpevole di quell’eliminazione non fu Aston? «Lui ha fatto il resto. Era un incapace, ha permesso a Sanchez di stendere David con un pugno, ha fischiato a senso unico. Tanto che da quella volta non ha più arbitrato». Certo, bel tipo quel Sanchez... «Un mese dopo la fine del mondiale, giocò col Milan nel torneo città di Milano. Ci fu un grande imbarazzo alla sua entrata negli spogliatoi, poi ci guardammo e scoppiamo tutti in una grande risata». Fu un mondiale pieno di errori da parte dell’Italia. Quale fu il più grosso? «Abbiamo sbagliato la comunicazione. Quando ce ne accorgemmo, era troppo tardi. Quando nel sottomarino c’è troppa acqua, poi è difficile buttarla fuori». Paolo Brusorio (Continua)
• «La Corea del ’66 fu tutta colpa di Fabbri». Il Giornale 4 giugno 2006. Milano. Davanti all’albergo di Middlesbrough i coreani avevano riprodotto esattamente le misure dell’Ayresome Park, il campo sul quale avrebbero giocato il girone di qualificazione. Contavano i passi, li mandavano a memoria. Saggezza orientale o lucida follia, fatto sta che ebbero ragione loro quando il 19 luglio 1966 ci spinsero in quella che, insieme con la Corea trapattoniana del 2002, rimane la tomba del calcio azzurro.  il mondiale di Inghilterra. Oltre che per la nostra magra passerà alla storia per: il furto della coppa Rimet alla vigilia (fu ritrovata in un parco di Londra); l’ultima apparizione di Garrincha (marcato a uomo dalla ballerina di samba Elsa Soares); la comparsa di Eusebio, africano del Mozambico, lo chiamavano Ninguem da bambino (niente, nessuno), trascinò il Portogallo in semifinale; il «gol non gol» di Hurst in finale contro la Germania che spianò la strada all’Inghilterra campione del mondo: 4-2 per i Maestri. Pelè prese un sacco di botte dai bulgari, lui e il Brasile fuori al primo turno. In tutto questo l’Italia fece da comparsa. Costruita con blocchi (quello del Bologna: Janich, Bulgarelli, Perani, Pascutti) e blocchetti (Inter e Milan), era allenata da Edmondo Fabbri, detto Topolino per la bassa statura, ala destra di Atalanta e Inter. Produceva Sangiovese, Fabbri. «Pareva un pretino arguto», scrisse Brera. L’ultimo mese premondiale fu una stella filante: 3-0 all’Argentina, 5-0 al Messico, 6-1 alla Bulgaria. Risultato: «Arrivammo svuotati». Lo dice Giovanni Lodetti, che in quella nazionale pedalava in mezzo al campo. «Una volta in Inghilterra il giocattolo si era già rotto. Forse ci sentivamo troppo sicuri e sbagliammo la preparazione». Era una nazionale divisa in clan? «No, anche se quelli del Bologna erano i più legati a Fabbri. Prima di partire il ct fece fuori Picchi, ”è troppo statico, tiene la difesa troppo arretrata” diceva del libero dell’Inter. Decise lui, ma Rivera ci mise una buona parola, Picchi non gli piaceva. E lì cominciò a rompersi qualcosa...». In che senso? «Il ct stava con Rivera, si alienò le simpatie degli interisti». Fabbri: parliamone. «Non era un uomo molto tenero, chiedeva disciplina. Più offensivo di Herrera, ricordava Trapattoni per le scaramanzie. Dopo una sconfitta, cambiava la strada per andare allo stadio». Dove sbagliò? «In Inghilterra perse la testa. La critica era feroce nei suoi confronti: Zanetti e Brera gli facevano arrivare la formazione, lui buttava i foglietti, ma andò in confusione». In quella squadra c’era Gigi Meroni: l’ala granata sarebbe morta un anno dopo. Era così naïf anche in nazionale? «Con la nazionale B era il Gigi di sempre, occhiali scuri e capelli lunghi. Con Fabbri modificò l’atteggiamento, il ct lo mise in riga. Vede, in quel gruppo mancava l’allegria». Nemmeno il ritiro vi salvò? «La federazione sbagliò la scelta: un college isolato a Durham. Ragazze? Ma se non venivano nemmeno i ragazzi...». Chi era il leader di quella squadra? «Il più ascoltato da Fabbri era Bulgarelli. Ma anche Salvadore aveva grande personalità». L’esordio con il Cile: 2-0, gol di Mazzola e Barison. Vendicata la mattanza di Santiago del ’62 «Non giocammo benissimo, la pressione era esagerata e volevamo dimostrare che Fabbri aveva ragione». L’Urss ci batté 1-0, c’era Jascin in porta. «Eravamo già in fase calante. Jascin era massiccio, faceva paura. Assomigliava a Cudicini, ma fisicamente era più forte». E siamo all’epilogo. Valcareggi, mandato da Fabbri a spiarli, definì i coreani, «una squadra di Ridolini». Fini 1-0, rete di Pak Doo Ik, presunto dentista. «Io non sentii quella frase, ma so che venne detta. Alla vigilia immaginavamo lo schema, Barison era un metro e novanta, ”ti mettiamo la palla sulla testa Paolo e poi ci pensi tu...”». Beh, non andò proprio così... «Convinto che fosse una passeggiata, Fabbri cambiò mezza squadra: lasciò fuori me, Burgnich, Rosato, Salvadore, Leoncini, Pascutti e mandò in campo Bulgarelli infortunato. Che si fece male subito, non c’erano le sostituzioni e restammo in dieci. Sbagliammo anche un paio di occasioni con Perani». I coreani? «Correvano come dei matti. Alla fine Rosato, Burgnich ed io non volevano nemmeno scendere negli spogliatoi. Nessuno dei dirigenti voleva tornare con noi, era come l’8 settembre. Decisero di atterrare a Genova, sperando di evitare gli insulti, ma i tifosi lo seppero. Prendemmo fischi e pomodori». E Fabbri? «’Non credevo finisse così”. Fu l’unica cosa che disse. Ma vedeva complotti ovunque, così scrisse un memoriale affermando di essere stato boicottato, parlava di sostanze somministrateci per indebolirci. Con Salvadore, Rivera, Bulgarelli e Rosato ci trovammo a Milano Marittima, firmammo quel documento. Ci faceva comodo: ma capimmo subito di aver fatto una scemenza». Nel ’66 trionfò il calcio fisico. «Solo in parte perché l’Inghilterra propose qualcosa di nuovo con due terzini, Wilson e Cohen, molto bravi ad attaccare». Chi fu il miglior giocatore? «L’inglese Bobby Charlton: dava sicurezza e personalità. Un incrocio tra Gullit e Rijkaard». Eusebio: un aggettivo per lui? «Felino. Un tipo alla Eto’o». Che cosa guadagnò da quel mondiale? «Una bicicletta dalla Valsport per aver usato le loro scarpe». Chi si salvò di quella spedizione? «Quelli che due anni dopo vinsero l’Europeo facendo dimenticare la Corea. Perse solo Fabbri». Paolo Brusorio (Continua)
• Boninsegna: «Nel ’70 con Rivera in campo avremmo vinto noi». Il Giornale 7 giugno 2006. Milano. Messico 1970, debuttano i cartellini gialli e rossi e le sostituzioni. Inebriato dalle novità, il ct azzurro Ferruccio Valcareggi si fa prendere un po’ la mano, inventa la staffetta Mazzola-Rivera, non contento fa giocare a Rivera sei inutili minuti nella finale con il Brasile e insomma sparge benzina su un torneo che di suo lascia ai posteri la più incredibile semifinale della storia (per chi fino a ieri è stato su Marte: Italia-Germania 4-3), una squadra, il Brasile, che si porta a casa definitivamente la coppa Rimet per averla vinta tre volte giocando come in Paradiso. «Dovrebbe essere proibito un calcio così bello» scrive la stampa inglese. Alla vigilia trentotto radio messicane mischiano numeri e nomi delle squadre partecipanti, per loro la finale sarà come nel ’66 Inghilterra-Germania. L’Italia? Terza, dice il sondaggio. Sul mondiale piombano i telecronisti Rai: all’ottava partecipazione Nicolò Carosio passa e chiude quando in diretta chiama negraccio il guardalinee etiope che annulla un gol a Riva contro Israele, gli altri due sono Nando Martellini e Bruno Pizzul all’esordio. Il ct del Brasile è l’ex campione del mondo Mario Zagallo: alla vigilia sostituisce Joao Saldanha, funambolico allenatore-giornalista inviso al governo brasiliano perché troppo di sinistra. L’Italia è spaccata prima ancora di cominciare. «Rivera o Mazzola» è l’ok corral che infiamma il Paese. Corso lo fanno fuori prima, Rivera annusa l’aria e capisce che non tira dalla sua parte, così si accapiglia con Valcareggi. Il ct viaggia con un tutor, Walter Mandelli, presidente della commissione tecnica. Rivera punta i piedi, la Federcalcio manda Nereo Rocco e Franco Carraro, allora presidente del Milan per tenerlo buono. In piena bufera sbarca a Toluca, ritiro degli azzurri, Roberto Boninsegna: Anastasi è infortunato, Valcareggi chiama Bonimba, centravanti dell’Inter. «Mi sembrava una favola. Quando arrivai Rivera e Mandelli già litigavano, volevano mandare a casa Gianni per le sue parole». Il primo ricordo di quel ritiro? «I duemila metri di altitudine. Avevo annusato l’aria e capito che potevo giocare titolare così in allenamento cominciai a correre a destra e sinistra per mettermi in mostra. I compagni, lì già da un po’, non mi dissero niente: dopo venti minuti stramazzai per terra. Mi sembrava di soffocare». Svezia battuta 1-0 (gol di Domenghini), poi doppio 0-0 con Uruguay e Israele: turno passato e «arriba Mexico». 4-1, due gol di Riva, uno di Rivera e un’autorete: pratica archiviata. «La vigilia fu più dura della partita. Stavamo al Parco dei principi di Città del Messico e sui tetti circostanti l’hotel si era dato appuntamento un gruppo di mariachi: sombrero e chitarre avevano il compito di non farci dormire. Chiamammo la polizia, ma fu inutile. Si dileguarono scappando sui tetti». Ci porti nella storia, stadio Azteca, 17 giugno: la semifinale con la Germania. 4-3: Boninsegna e Schnellinger nei novanta minuti, poi il diluvio dei supplementari. Muller, Burgnich, Riva, ancora Muller e Rivera. «Aveva eliminato l’Inghilterra, era una grande squadra quella Germania. Per noi il pareggio sarebbe già stato un ottimo risultato. E invece nei supplementari successe il finimondo. Trenta minuti che hanno fatto di una partita normale, quasi brutta, il miglior incontro della nostra storia». Un episodio inedito di quella sfida? «Schnellinger dopo aver pareggiato al 90’ torna verso centrocampo e incrocia Rivera, suo compagno al Milan, che gli dice: ”Quando torni a Milano ti facciamo saltare in aria la macchina...”. Non fu necessario visto l’esito finale». Non «restava» che battere il Brasile? «L’ambiente era rilassato, i dirigenti contenti e appagati. Ci credevamo solo noi giocatori». 21 giugno, la finale: gol di Pelè poi... «Alt. Partendo con Rosato su Pelè e Burgnich su Tostao, Valcareggi aveva sbagliato la marcatura. E infatti stavamo invertendola, quando Pelè è andato in cielo a prendere quel pallone. Credo sia ancora là in aria...». Poi pareggia un certo Boninsegna. Intervallo. «Siamo tutti distesi sui lettini, d’accordo con i dottori abbiamo la mascherina per l’ossigeno. Ci guardiamo in faccia convinti che sia il momento di fare entrare Rivera». Invece? «Invece non succede niente. Fino agli ultimi sei minuti, quando sotto 3-1 Valcareggi decide il cambio...». Uscì proprio lei. Si rese conto del momento storico? «Ero stanco, ma non avevo nessuna voglia di lasciare il campo. Infatti non dovevo essere io a farlo, Valcareggi provò prima con altri due che lo mandarono a quel paese». I nomi, i nomi... «Non li dirò mai». Amen. Come vi accolsero al ritorno i tifosi? «Ventimila persone a Fiumicino, insulti a Valcareggi e a Mandelli per non aver fatto giocare Rivera». Chi fu il miglior giocatore di quel mondiale? «Il tedesco Overath. Trequartista, mancino puro, classe eccezionale. Lo chiamavamo ”il pennello” per la precisione». Più contento per l’assist del 4-3 sulla Germania a Rivera o per il gol in finale? «Non c’è storia: per il gol contro il Brasile. Ho dovuto scartare anche Riva...». Davvero impossibile battere quei fenomeni? «Erano fortissimi, ma quella finale è una ferita ancora aperta. Per questo mi piacerebbe rigiocarla con Rivera in campo, chissà, potrebbe anche finire diversamente». Paolo Brusorio (Continua)
• «Noi granata e i bianconeri divisi a tavola». Il Giornale 8 giugno 2006. Bologna. La rifondazione azzurra parte da quell’inverno argentino del 1978. In panchina c’è Enzo Bearzot. Con Fulvio Bernardini prima e da solo poi, ha caricato la sua pipa e tolto la muffa alla nazionale. In Argentina c’è la dittatura, i baffoni del generale Videla invadono le tribune del Monumental di Buenos Aires. I sudamericani arrivano in finale non senza trucco, quel 6-0 al Perù puzza ancora di bruciato. Vincerà il mondiale l’Argentina, Olanda ancora battuta: 3-1 ai supplementari. Arbitro Gonella. Gli azzurri lasciano l’Italia tra i fischi, poi Bearzot pesca due angeli dalla faccia pulita: Antonio Cabrini e Paolo Rossi. Finiscono quarti, ma sono le fondamenta del mundial ’82. Squadra bloccata, tranne che nel numero dieci: se lo giocano Antognoni e Zaccarelli. Finisce più o meno pari, ma Zac scaccia gli incubi contro la Francia. E racconta. Otto della Juventus, sei del Torino in quella nazionale. Come facevate a convivere? «Noi del Toro tendevamo a stare insieme, a tavola i due blocchi erano ben distanti. In mezzo c’erano Antognoni e Bellugi a dividerci». Tutti insieme appassionatamente all’Hindu club? «C’era un campo da golf, e 3-4 da calcio. Lo stesso complesso ospitava noi e la Francia. Loro al quarto piano, noi al secondo. Così quando finivamo l’allenamento andavamo a vedere il loro e viceversa. E quante volte ci siamo trovati a passeggiare insieme con Platini nel parco dell’Hotel...». Esordio proprio con la Francia: 2 giugno, trentasette secondi e Lacombe fa gol. Poi pareggia Rossi e segna proprio lei nel secondo tempo. Roba da brividi? «Bearzot non si era ancora seduto in panchina alla rete della Francia e non ha fatto una piega. Noi giocatori avevamo già le valigie in mano. Lui no». Che cosa ricorda del suo gol? «Che fu un bel gol. E che una volta tornato in Italia i tifosi del Toro mi attaccarono perché avevo aiutato il gruppo della Juve ad andare avanti». Passiamo oltre. Qual era la filosofia di Bearzot? «Giochiamo noi la palla che siamo bravi. Il calcio stava cambiando e Bearzot l’aveva capito. Zoff era il suo punto di riferimento». Con l’Ungheria è una passeggiata (3-1 Rossi, Bettega e Benetti). Già qualificati, ci aspettano gli argentini, anche loro già al turno successivo. Che cosa succede alla vigilia? «I giornalisti ci dicono che giochiamo noi del Toro. Graziani, Pulici, Claudio Sala ed io. Bearzot vuol fare riposare i titolari. Ma alla vigilia scopriamo che giocano i soliti. Graziani è furibondo, aveva perso il posto a favore di Rossi». E che cosa successe? «Fu fondamentale Gigi Peronace, il team manager della nazionale si direbbe oggi. Chiedemmo spiegazioni a lui, si limitò a dirci che Bearzot aveva cambiato idea, ma riportò la calma». Il gol di Bettega contro l’Argentina è lì per le scuole calcio. Ci riporti a quella sera. «Ci fu un silenzio pazzesco allo stadio Monumental. Anche i nostri connazionali rimasero zitti. Durò un secondo, ma sembrò un’eternità. Poi per Buenos Aires scoppiò la festa». Pari stretto con la Germania. 1-0 all’Austria grazie a Rossi, la peggior differenza reti ci obbliga a battere l’Olanda. Autorete di Brandts, ma due proiettili impallinano Zoff. Che diventa il colpevole della sconfitta. «Eravamo convinti di batterli. Ma a un certo punto loro misero in campo la prepotenza fisica. L’arbitro israeliano Klein lasciò passare tutto e quando vidi per terra Benetti, uno che per abbatterlo ci voleva una ruspa, capii che qualcosa non quadrava. Non a caso Klein 4 anni dopo permise quella marcatura di Gentile su Zico. Forse doveva farsi perdonare». Come fu il dopo partita di Zoff? «La stampa aveva individuato in lui il colpevole. Era un ”dagli al mostro”. Rivedendo il secondo gol olandese con Bearzot, Dino disse di non averlo visto partire». Quanto fruttò il quarto posto? «Circa 20 milioni di euro. 30 se avessimo vinto. Così aveva pattuito la commissione formata da Zoff, Causio, Claudio Sala e Bellugi». Chi fu il miglior giocatore di quel mondiale? «Osvaldo Ardiles. Centrocampista completo». Era l’Argentina della dittatura, la gente scompariva. «Sì, gli stessi argentini avevano paura a parlarne. Ma ricordo i metodi della polizia che ci scortava, prendeva a calci le auto che non si spostavano. E un giorno in Calle Florida a Buenos Aires, durante lo shopping, le guardie ci dissero di non girare troppo. Come in una specia di libertà vigilata». Paolo Brusorio (Continua)
• «Macché Rossi: il migliore era Bruno Conti». Il Giornale 10 giugno 2006. «Il Brasile sarà favorito sempre e comunque perché ha vinto cinque volte i mondiali. Basta questo per fare di noi ogni volta la squadra più temuta. Penso che farebbe piacere anche a voi italiani partire favoriti tutte volte. O no?». La domanda di Leo Junior non è affatto retorica. Perché la musica ormai l’abbiamo imparata a memoria, più la partenza è difficile, sottotraccia, di nascosto, e più la nazionale azzurra va avanti. Non succede sempre, ma quando capita va così. Lo chiamano lo spirito dell’82. L’Italia è campione del mondo per la terza volta, 3-1 alla Germania in finale. Rossi Tardelli e Altobelli è la metrica che rimbomba nelle piazze, tutti ricordano tutto di quel mondiale: dov’erano e con chi, cosa mangiavano, in quale fontana sguazzavano. Persino quelli che schifarono la finale ricordano il film visto quella sera. Irripetibile 1982. La vigilia è un pianto greco, nell’ultima amichevole lo Sporting Braga sembra il Real Madrid. Nessuno giocherebbe una lira sull’Italia se non puntando sulla sua eliminazione. Bearzot dà fiducia a Paolo Rossi fresco di purga per il calcio scommesse, il ritiro di Vigo è un fortino, lo scudo è il silenzio stampa. Parlano solo Bearzot e Zoff: e non sono mai lunghi discorsi. Le secche con Polonia (0-0), Perù (1-1) e Camerun (1-1); il nirvana con Argentina (2-1, Tardelli e Cabrini) e Brasile (3-2, triplo Rossi); la sicurezza con la Polonia (due volte Pablito) e la Storia con la Germania. Flash: Pertini al Bernabeu, poi lo scopone sull’aereo con Bearzot, Zoff e Causio: Rossi hombre del partido. Anche Leo Junior, difensore di quel Brasile stecchito nel torrido catino del Sarrià il 5 luglio dell’82. «Chiusi in un castello vicino a Siviglia tenevamo d’occhio Argentina, Francia, Germania e Italia». Chi era il vostro leader? «Ogni cosa era discussa tra Oscar, il capitano, Zico, Socrates, Falcao e il sottoscritto». Il ct era Tele Santana, da poco scomparso. Che genere di allenatore era? «Il più giusto tra quelli avuti. Nelle sue scelte non guardava i nomi, ma la forma. Basta ricordare che Falcao, titolare nell’82, rimase in panchina nell’86». A quale tecnico italiano assomigliava? «Forse a Galeone, l’unico con una mentalità davvero offensiva. Ricordo bene il suo Pescara. Il 95% degli allenatori italiani pensano prima a difendere, è una questione di cultura. Prendete la squadra del 2002: con tante punte di qualità, Trapattoni non ha mai provato a giocare all’attacco. Se avesse in squadra Totti, Vieri, Del Piero, Gilardino un tecnico brasiliano farebbe almeno un tentativo». In quel Brasile giocava Socrates: fumava anche durante il mondiale? E la sua democrazia? «Durante la preparazione Socrates si concedeva solo tre sigarette al giorno: per questo era in forma strepitosa. E in quel periodo non si parlava quasi mai di politica, si respirava calcio, lì dentro». Che idea vi eravate fatti dell’Italia? «Andammo al Sarrià per vedere la partita contro l’Argentina. Ci impressionò per come vinse, vedemmo una squadra completamente diversa da quella del primo turno». Dopo aver battuto 3-1 l’Argentina di Maradona, eravate convinti di aver superato l’ostacolo più importante? «Erano i campioni in carica e sapete quanta rivalità ci divide. Quel giorno abbiamo fatto una buona partita, ma non eccellente. Avevamo ancora negli occhi il successo dell’Italia, sapevamo che sarebbe stata dura». Chi erano gli uomini più pericolosi tra gli azzurri? «Zoff, Scirea, Cabrini, Antognoni, Tardelli, Graziani e Conti». Intervallo, 2-1 per l’Italia: a che punto erano le vostre speranze? «Sapevamo di potercela ancora fare. Tanto che abbiamo pareggiato e creato altre occasioni». E allora, che cosa successe? «Rossi è stato bravo a sfruttare le occasioni e l’Italia ha sbagliato pochissimo. Sia in attacco, sia in difesa». Brasile fuori dal mondiale: che cosa accadde negli spogliatoi? «Avevamo fatto il massimo, senza risparmiare una goccia di sudore e senza aver sottovalutato l’Italia. Giovani come Leandro e Luisinho piangevano, toccò a noi più esperti spiegargli che quello era il calcio». Altafini dice che il vostro Brasile ha perso perché giocava sui tacchi a spillo. «José ogni tanto dice delle enormi scemenze». Fu la supremazia del catenaccio sulla fantasia? « un discorso sbagliato. Noi abbiamo giocato come sappiamo e voi pure. Anche se sono passati 24 anni, in ogni parte del mondo che ho visitato parlano ancora del Brasile dell’82». L’Italia ha meritato di vincere? «Giustizia e merito nel calcio contano pochissimo. Valgono i risultati». Come vi accolsero in Brasile dopo l’eliminazione? «Benissimo. Andai via tra gli applausi». Chi fu il miglior giocatore di quel mondiale? «Bruno Conti». Paolo Brusorio (continua)
• «Maradona aveva l’occhio cattivo, noi no». Il Giornale 11 giugno 2006. Milano. Succedono cose strane nel mondiale ’86 in Messico. In ordine sparso: la Fifa obbliga i giocatori a tenere la maglietta dentro i pantaloncini (e Platini si arrabbia perché l’ultima che gli aveva detto una cosa simile era la mamma); per esigenze di prime time televisivo europeo molte partite si giocano a mezzogiorno e alle due, ora in cui se i messicani fanno la siesta un motivo pure ci sarà; negli stadi scoppia la moda della «ola» e nessuno protesta. Maradona segna un gol irregolare all’Inghilterra, «la mano di Dio» è nel museo del pallone ormai: gli inglesi provano anche a farlo notare all’arbitro Bennaceur, ma niente. Il titolo lo vince l’Argentina: fa tutto quasi Maradona, contro l’Inghilterra prende palla a centrocampo e non la lascia più se non per accarezzarla in rete dopo aver steso mezzo Regno Unito. Fa lo stesso più o meno con il Belgio. In finale contro la Germania con Matthaus appiccicato alle caviglie, si «limita» a infilare Burruchaga nel corridoio giusto: Argentina-Germania 3-2. A quell’ora l’Italia è a casa da un pezzo. Arrivati da campioni ce ne torniamo da penultimi della classe, pochissime le lodi, ma quasi a zero anche l’infamia: un girone di qualificazione a luci basse (1-1 con la Bulgaria e con l’Argentina, 3-2 alla Corea del Sud. Tutti gol di Altobelli più un’autorete coreana), poi battuti dalla Francia agli ottavi per 2-0. Proprio non riesce la miscela tra i campioni del mondo e le novità, dalla manica di Bearzot non escono gli assi giusti, gli eroi dell’82 (Cabrini, Scirea, Conti, Tardelli e Rossi) sono stanchi, ci sono Vialli e Zenga che scalpitano, De Napoli che corre per tre e il gruppo del Verona che l’anno prima aveva vinto lo scudetto. Tra loro Giuseppe Galderisi. Venerdì 30 maggio 1986: mancano ventiquattro ore a Italia-Bulgaria, partita inaugurale del mondiale, Bearzot la prende da parte... «E mi dice: ”Domani parti tu”. Rimasi tranquillo, ma bluffai come nel giorno del mio esordio in serie A. Prendevo il posto di Pablito, mica di uno qualunque. Con Rossi poi dividevo la camera quando giocavo nella Juventus». L’Italia era campione del mondo, quanto pesava l’eredità? «Tra il gruppo storico e i nuovi c’era complicità, eravamo convinti che avremmo fatto un buon torneo. In quel gruppo c’erano Tardelli e Scirea, gente che mi aveva visto crescere nella Juve. Mi davano tranquillità. Quel titolo non pesava». E allora perché le cose andarono male? «Ci è mancata la scintilla, sul campo il mix tra i vecchi e i nuovi non è riuscito. Forse ci voleva un po’ più di cattiveria». Com’era l’atmosfera in ritiro? «Prima, venticinque giorni a Roccaraso. Per abituarci all’idea ci allenavamo a 2mila metri. A Puebla trovammo un’aria festosa, forse troppo. Eravamo in un fortino con le guardie intorno, non siamo mai usciti dall’albergo». Chissà che divertimento allora... «La cosa più ridicola fu Vierchowod improvvisatosi barbiere per tagliare i capelli a Vialli col rasoio elettrico. Sembrava un cespuglio la testa di Luca. Io dormivo con Tricella, dovevo stare attento a quanto cioccolato mangiava. E poi le botte con Bagni in allenamento, litigavamo sempre e arrivammo quasi alle mani. Quando ne riparliamo adesso, ci facciamo delle grandi risate». Un ricordo di Bearzot? «Al nostro ritorno in Italia fummo attaccati duramente, io venni preso particolarmente di mira. ”Hai giocato un torneo grandissimo”, mi disse Bearzot. Bastarono quelle parole per tranquillizzarmi». Fu il mondiale di Maradona: ve l’aspettavate così forte? «Diego ci venne a trovare a Casa Azzurri e rimase con noi mezza giornata. Non l’avevo mai visto così tirato, aveva l’occhio cattivo. Sapevamo che era in formissima». Non giriamoci troppo intorno, con la Francia fu un disastro. Beppe Baresi doveva marcare Platini a uomo... «Fu una partita strana, io mancai una deviazione vincente per pochi centimetri. Per la marcatura di Gentile su Maradona di quattro anni prima si sprecarono i complimenti, per la scelta di Baresi invece si parlò di vergogna. Le solite esagerazioni. Se perdemmo non fu certo per colpa di quella mossa. Eravamo anche sfiancati, Montezuma aveva colpito dieci di noi, ci mancavano le forze... ». Il più bel ricordo del Messico? «La loro allegria ma anche la loro povertà. Quando ci spostavamo da Puebla vedevamo le loro condizioni di vita, ma mai uno che perdesse la dignità». Maradona è fuori gara, chi fu il miglior giocatore di quel mondiale dopo di lui? «Dico una squadra. La Danimarca del mio grande amico Elkjaer». Paolo Brusorio (continua)