Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Come costruire una mandorla
• Come costruire una mandorla.
Come si domesticarono involontariamente le prime piante.
Se vi piace camminare nei boschi e siete stanchi dei soliti sapori, provate a mangiare qualche frutto spontaneo. Saprete certo che alcune piante come le fragole e i lamponi selvatici sono perfettamente commestibili, e hanno anzi un ottimo sapore: sono molto simili a quelle coltivate, anche se sono più piccole, il che le rende facili da riconoscere. I più avventurosi possono provare a mangiare i funghi, pur sapendo che alcune specie sono mortalmente velenose. Ma neanche i più fanatici potranno fare una scorpacciata di mandorle selvatiche: contengono tanto cianuro che ne bastano poche per ucciderci. E la natura è piena di altre specie ugualmente immangiabili.
Eppure, tutte le piante coltivate un tempo erano selvatiche. Come sono diventate domestiche? Il mistero è particolarmente fitto in quei casi in cui la versione spontanea di una pianta poi domesticata è velenosa, (come le mandorle), ha un pessimo sapore o è drasticamente diversa (come il mais). Chi mai può avere avuto l’idea di rendere "domestica" una pianta, e come ci è riuscito?
Possiamo definire la domesticazione di una specie vegetale il processo in cui la specie in questione viene fatta crescere dall’uomo - in maniera più o meno consapevole - in modo da farle subire quelle mutazioni genetiche che la rendono più utile e adatta ad essere consumata. Al giorno d’oggi questo processo è non solo consapevole, ma anche altamente specializzato e scientifico. Gli agronomi conoscono perfettamente le specie coltivate e, cercano di farne nascere di nuove, tramite la selezione delle varietà migliori e magari grazie alle più recenti tecniche di
Ingegneria genetica. Pensate che nella sede di Davis dell’Università della California esiste un intero dipartimento (quello di pomologia) dedicato alle mele, e un altro (quello di viticoltura ed enologia) dedicato a viti e vini.
Ma le prime piante furono domesticate diecimila anni fa, un’epoca in cui non si poteva certo usare l’ingegneria genetica. I primi contadini non avevano nessun modello a cui ispirarsi, né potevano sapere se i loro tentativi, qualunque cosa fossero, avrebbero portato a un gustoso risultato finale.
Come è possibile che la domesticazione sia avvenuta inconsciamente? Come è possibile, ad esempio, trasformare una mandorla velenosa in una commestibile senza sapere quello che si sta facendo? Quali cambiamenti si dovettero apportare per rendere una pianta selvatica più grande o meno tossica? Non tutte le specie, poi, sono state domesticate allo stesso tempo: i piselli si cominciarono a coltivare attorno all’8ooo a. C., le olive nel 4000 a. C., le fragole nel Medioevo e le noci pecan solo nel 1846; per non parlare di alcune piante il cui frutto è universalmente apprezzato, come certe querce ricercate per le loro ghiande, che resistono ancora oggi alla domesticazione. Perché alcune specie sono più docili o promettenti di altre? Perché gli olivi si sono arresi ai contadini preistorici e le querce sfidano ancora oggi i più agguerriti agronomi?
• Cominciamo a guardare ai fatti dal punto di vista delle piante. Per loro, noi non siamo che una delle tante specie animali che cercano inconsciamente di "domesticarle".
Come tutti gli esseri viventi (uomo compreso) i vegetali devono propagare la loro discendenza in luoghi dove questa possa prosperare e far sopravvivere i geni dei genitori. I piccoli degli animali quando è il momento giusto possono abbandonare la tana o volare via dal nido; le piante invece sono costrette a chiedere un passaggio. Alcune specie hanno semi adatti ad essere trasportati dal vento o dall’acqua, mentre molte altre devono convincere con l’astuzia un animale a fare da vettore. il caso di quelle piante il cui seme è avvolto in un bel frutto succoso, che segnala la sua presenza grazie al colore o al profumo; l’animale di turno se lo mangia e se ne va, e i semi vengono sputati o evacuati - in qualche punto distante dalla pianta madre. Alcuni semi fanno migliaia di chilometri in questo modo.
Può sembrarvi strano che i semi riescono a resistere al processo di digestione e a germinare anche dalle feci, ma è proprio così, come può sperimentare da sé qualche lettore non troppo schizzinoso. Alcuni semi devono passare per questo canale per poter germogliare; è il caso di un tipo di melone africano che si è specializzato a farsi trasportare dell’oritteropo, con il risultato che i suoi frutti si trovano in gran parte nelle zone usate come latrine da questo animale.
Prendiamo le fragole selvatiche. Quando i semi non sono ancora pronti a germinare il frutto che li contiene è verde, duro e acido, per poi diventare dolce, tenero e di un bel colore rosso acceso quando lo sviluppo è completo. Questo è il segnale per molti uccelli come i tordi, che beccano i frutti e volano via, trasportando lontano i semi maturi.
ovvio che tutto questo non è un piano studiato in modo consapevole dalle fragole per attirare gli uccelli solo e solo quando i semi sono pronti; né i tordi hanno mai pensato di domesticare le fragole. Tutto è dovuto alla selezione naturale: le piante con i frutti giovani più verdi e più acidi sono lasciate in pace dagli uccelli, e sopravvivono; le piante con i frutti maturi più rossi e dolci hanno più successo con gli uccelli, e propagano meglio la loro discendenza.
Questo meccanismo si ripete in innumerevoli altre specie: le ghiande sono adattate agli scoiattoli, i manghi ai pipistrelli, certi carici alle formiche e così via. un meccanismo che soddisfa in parte la nostra definizione di domesticazione, perché le modifiche generiche in queste piante le rendono più utili a chi se ne ciba. Ma nessuno potrebbe etichettare questo processo evolutivo come una vera domesticazione, perché scoiattoli e uccelli non coltivano un bel nulla.
I primi inconsapevoli passi verso l’agricoltura furono dello stesso tipo: alcune piante mutarono in maniera tale da essere più gradite all’uomo, che poteva cosi aiutarle meglio a disperdere i semi. Le latrine potrebbero esser state i laboratori dei primi, ignari contadini.
• Non solo tra gli escrementi l’uomo semina involontariamente le piante di cui si nutre. I frutti raccolti, ad esempio, devono essere portati a casa, e nel tragitto possono lasciar cadere qualche seme; alcuni marciscono pur contenendo semi perfettamente vitali, e sono quindi buttati tra i rifiuti. Alcuni semi piccoli, come quelli delle fragole, sono inevitabilmente ingeriti e poi eliminati con le feci mentre quelli più grossi vengono di solito sputati. Per farla breve, i primi laboratori di agronomia devono essere stati i cumuli di rifiuti e le latrine.
I semi che finivano in uno di questi luoghi appartenevano comunque a quelle piante commestibili che l’uomo, per un motivo o per l’altro, gradiva particolarmente. Quando i primi contadini iniziarono a seminare, si rivolsero inevitabilmente alle piante che avevano scelto deliberatamente di raccogliere, anche se non conoscevano la legge genetica secondo cui piantare i semi dei frutti più grossi dà come risultato, con grande probabilità, altre piante dai frutti grossi.
Quando vi inoltrate nei rovi, circondati da nugoli di zanzare in un’afosa giornata estiva, non lo fate in modo casuale: più o meno consciamente, scegliete il punto che vi sembra migliore. Ma con quali criteri? Innanzitutto, come è ovvio, in base alle dimensioni dei frutti: il gioco non vale la candela quando si rischiano insolazioni e punture per una manciata di bacche striminzite. Ecco uno dei motivi per cui le specie coltivate hanno frutti più grossi di quelle selvatiche; le fragole e i lamponi giganti che troviamo nei supermercati sono dovuti agli ultimi secoli di colture.
Con i piselli accade qualcosa di ancora più evidente: attraverso la selezione dei primi agricoltori preistorici, questi legumi divennero dieci volte più grossi dei loro antenati selvatici. Per millenni l’uomo ha raccolto questi piccoli piselli spontanei, proprio come oggi noi raccogliamo le fragoline di bosco, prima che la selezione degli esemplari più grossi e più allettanti – cioè quello che noi oggi chiamiamo agricoltura – facesse sì che le dimensioni medie aumentassero di generazione in generazione. Analoghi discorsi si possono fare per le mele, che nella versione domestica si sono triplicate di diametro, e per il mais: mentre le pannocchie del mais selvatico sono lunghe poco più di un centimetro, in Messico si era arrivati già nel 1500 a pannocchie di 15 centimetri, e alcune varietà moderne raggiungono i 40-45 centimetri.
Un’altra differenza evidente tra i semi delle piante spontanee e di quelle coltivate è il fatto che i primi sono assai amari. un prodotto dell’evoluzione: molte piante hanno sviluppato semi dal sapore disgustoso o addirittura velenosi, per scoraggiare gli animali dal mangiarli; la selezione naturale ha dunque operato su frutti e semi in modo opposto: i primi devono essere dolci e attirare l’attenzione, i secondi devono essere cattivi in modo tale da essere sputati, altrimenti verrebbero masticati e resi incapaci di germinare.
Le mandorle sono un esempio lampante. Quasi tutte le mandorle selvatiche contengono un composto chimico assai amaro chiamato amigdalina, che a sua volta si scinde e dà luogo al velenosissimo cianuro: uno spuntino di questi semi basta a uccidere qualche pazzoide che non si faccia scoraggiare dal loro sapore amaro. Ma il primo passo verso la domesticazione è sempre dato dalla raccolta di frutti selvatici: chi può avere mai pensato di portarsi a casa una bella manciata di mandorle velenose?
La risposta sta nella presenza di una mutazione occasionale in un gene che impedisce al mandorlo di sintetizzare l’amigdalina. Nei boschi, questi alberi sfortunati muoiono senza progenie, perché gli uccelli di solito si mangiano tutti i semi. Ma il figlio curioso (o affamato) di uno dei primi contadini può essersi accorto della piacevole novità, così come al giorno d’oggi capita con alcune querce le cui ghiande sono dolci e non amare come al solito. Quindi, quelli dolci furono gli unici semi che i primitivi si portarono a casa e piantarono prima inconsciamente tra i loro rifiuti, e poi intenzionalmente nei giardini.
Le mandorle selvatiche si sono trovate in siti della Grecia risalenti all’8000 a. C., e attorno al 3000 a. C. erano domestiche sulle coste orientali del Mediterraneo. Nella famosa tomba del faraone Tutankhamen, morto nel 1325 a. C., furono lasciate alcune mandorle che dovevano servire a sfamarlo nell’oltretomba. Tra le piante coltivate i cui progenitori sono immangiabili o velenosi troviamo i fagioli di Lima, i cocomeri, le patate, le melanzane e i cavoli; in tutti questi casi una qualche mutazione deve aver dato origine a qualche esemplare commestibile, che i primi agricoltori si portarono a casa e fecero germogliare.
I criteri con cui l’uomo seleziona le piante da raccogliere, oltre alla dimensione e al sapore, sono vari: la presenza di frutti più carnosi o senza semi, di fibre e di semi oleosi, e così via. Meloni e zucche selvatiche hanno pochissima polpa attorno ai semi, ma le preferenze alimentari dei primi contadini fecero sì che si arrivasse a poponi carnosi e con pochi semi. Lo stesso accadde per le banane, che nel passaggio da selvatiche a coltivate persero i semi; il che in tempi recenti ha spinto gli agronomi a produrre arance, uva e cocomeri senza semi. Quello dell’assenza di semi è un criterio che dimostra come l’uomo possa rovesciare il cammino dell’evoluzione naturale: un frutto che in origine ha la sola funzione di contenere e far disperdere i semi ne diventa, grazie all’uomo, del tutto privo.
Frutti e semi oleosi furono anche selezionati in tempi preistorici: l’olivo, ad esempio, fu tra le prime piante da frutto ad essere addomesticate nel Mediterraneo, attorno al 4000 a. C. Le olive coltivate sono non solo più grosse ma anche molto più oleose delle loro sorelle selvatiche. Altre piante che subirono lo stesso destino sono il sesamo, la senape, i papaveri e il lino, a cui si sono aggiunte in tempi moderni il girasole, il cotone e la colza.
Il cotone, naturalmente, è anche una fonte di fibre tessili. Si utilizzano allo scopo i peli che rivestono i semi, e i primi agricoltori sia europei che americani si diedero da fare per selezionare in modo indipendente due varietà di cotone dai peli più lunghi. Nel lino e nella canapa, invece, le fibre si ricavano dagli steli, e quindi la pressione selettiva fu in favore di gambi sempre più lunghi. Anche se spesso pensiamo alle piante coltivate solo in termini alimentari, non dobbiamo dimenticare che il lino fu una delle prime specie domesticate (attorno al 7000 a. C.) e che esso rappresentò la principale fibra tessile in Europa fino alla rivoluzione industriale, quando fu soppiantato dal cotone.
• Fin qui abbiamo visto che la trasformazione delle specie selvatiche in specie coltivate implica mutamenti visibili: frutti più grossi, dolci e carnosi, semi più oleosi, fibre più lunghe. I proto-agricoltori raccolsero qualche esemplare che possedeva caratteristiche evidentemente eccezionali e lo fecero inconsciamente germinare, compiendo così i primi passi sulla strada delle domesticazione. Non è tutto, però: esistono almeno altri quattro tipi di cambiamento che non coinvolgono caratteristiche immediatamente percepibili come le dimensioni di una bacca. I mutamenti avvennero grazie ad altri fattori e ad altri tipi di pressioni selettive.
Un primo tipo di modificazioni riguarda il meccanismo di dispersione dei semi. Molte piante hanno evoluto dei sistemi specializzati per spargerli in giro, il che fa sì che gli uomini non li possano raccogliere in modo efficiente. Queste specie diventano utili solo se una mutazione genetica impedisce loro di compiere la dispersione; possono così essere raccolte e avviarsi verso la domesticazione.
Un buon esempio è dato dal pisello, i cui semi (la parte commestibile) sono racchiusi in un baccello. I piselli selvatici devono in qualche modo far uscire i semi da questa custodia per farli germinare, e così hanno evoluto un meccanismo che fa letteralmente esplodere il baccello al tempo della maturazione. Alcune piante soffrono di una mutazione del gene che dà il via all’esplosione; questa caratteristica è letale in natura, perché i semi non possono germinare, ma è utile all’uomo, che può raccogliere i baccelli integri, aprirli e portarsi i semi a casa; così può iniziare la selezione delle pianti mutanti. Lo stesso accadde ad altre piante "esplosive" in natura, come le lenticchie, il papavero e il lino.
I semi del grano e dell’orzo selvatico non sono racchiusi in un baccello, ma stanno in cima a uno stelo, che all’epoca della maturazione si mette a vibrare per farli cadere al suolo. Basta la mutazione di un solo gene per far sì che questo non avvenga; anche qui, una mutazione fatale in natura diventa utile all’uomo: i semi del grano mutante non si spargono in giro, ma aspettano pazientemente sullo stelo che qualcuno li raccolga e li porti a casa. I primi agricoltori propagarono questa mutazione piantando solo semi del tipo utile, e capovolsero in questo modo il corso dell’evoluzione naturale: un gene utile alla pianta divenne sgradito, e fu selezionato al suo posto un gene letale. Questo primissimo esempio di miglioramento di una specie da parte dell’uomo risale a più di 10000 anni fa, e segna l’inizio dell’agricoltura nella Mezzaluna Fertile.
Un altro tipo di mutazione è ancora meno evidente. Le piante annue che vivono in zone dal clima instabile non possono permettersi di rilasciare tutti i semi allo stesso momento: se così fosse basterebbero un’improvvisa gelata o un periodo di siccità per uccidere tutti i germogli, precludendo ogni possibilità di riproduzione. Queste specie, allora, hanno imparato ad accrescere le loro chances grazie a meccanismi inibitori della germinazione, che rendono i semi inattivi anche per anni; in questo modo, se una calamità naturale uccide un gran numero di germogli, ci sarà sempre qualche seme che potrà germinare più tardi, in condizioni migliori.
Un trucco molto usato dalle piante selvatiche per raggiungere il loro scopo è avvolgere i semi in una corazza o in qualche involucro protettivo: fanno così, ad esempio, il grano, l’orzo, i piselli, il lino e il girasole. Pensate cosa può essere successo nei primi stadi dell’agricoltura: i proto-contadini scoprono, provando e riprovando, che piantando certi semi nella terra arata e irrigata ottengono dei bei raccolti; ma alcuni semi germinano immediatamente e danno origine ad altre piante che possono essere seminate l’anno successivo, mentre alcuni non ne vogliono sapere di germogliare.
Deve esserci stata qualche pianta mutante priva di involucri o di meccanismi inibitori della germinazione, i cui semi germogliavano subito e tutt’insieme. I proto-contadini devono essersene accorti senz’altro, e hanno cominciato a selezionare questo carattere proprio come hanno fatto per i frutti più grandi e succosi, grazie al circolo virtuoso semina-crescita-raccolto-semina. Queste modifiche, proprio come quelle nei meccanismi di dispersione del seme, hanno caratterizzato la domesticazione del grano, dell’orzo, dei piselli e di tante altre specie.
L’ultimo cambiamento invisibile ha a che fare con la riproduzione delle piante. Come abbiamo visto, un tipico meccanismo di domesticazione prende le mosse dal fatto che una mutazione genetica (semi più grossi, frutti più dolci ecc.) rende una certa pianta più utile del solito all’uomo. Se questi mutanti s’incrociano con altri individui normali, il loro carattere è subito affievolito o sparisce del tutto. Come può essersi conservato a beneficio dei primi contadini?
La mutazione si conserva in tutte le specie che si riproducono "autonomamente": ad esempio in quelle che si propagano per via vegetativa o che sono ermafroditi sufficienti. Ma quasi tutte le piante in natura sono ermafroditi insufficienti che hanno bisogno di altri individui per la riproduzione (in cui la parte maschile di uno feconda la parte femminile dell’altro e viceversa) oppure sono dioiche, cioè si trovano in due sessi come i mammiferi.
• La soluzione a questo problema sta in altre mutazioni che colpiscono il sistema di riproduzione. Alcuni individui possono produrre frutti senza essere impollinati, il che ci dà banane, uva, arance e ananas senza semi; certi ermafroditi insufficienti possono diventare sufficienti e cominciare ad autoimpollinarsi, come avviene per prugne, pesche, mele, albicocche e ciliegie; e alcune piante dioiche, come l’uva, possono presentarsi in forme mutate come ermafroditi. Grazie a questi meccanismi i primi agricoltori, pur non sapendo nulla della biologia dei vegetali, si trovarono a coltivare specie utili che si riproducevano nel modo giusto e che si potevano seminare di nuovo, e non inutili mutanti la cui progenie sterile era destinata all’oblio.
Abbiamo quindi visto che le qualità selezionate dai primi contadini non erano solo evidenti, come la dimensione e il sapore, ma anche invisibili, come i meccanismi di dispersione del seme, di inibizione della germinazione e di riproduzione. Nelle varie piante vennero così forzate caratteristiche assai diverse, e a volte diametralmente opposte: furono preferiti i girasoli con i semi più grandi, e le banane senza semi; la lattuga con le foglie più grandi, e i meloni senza foglie. Particolarmente istruttivi sono i casi in cui da un’unica specie sono state selezionate varietà diverse per diversi scopi. La bietola era già coltivata dai babilonesi per le foglie (come si fa ancora oggi per certe sottospecie); poi fu selezionata per dare grossi tuberi commestibili (le barbabietole) e infine, nel XVII secolo, per produrre lo zucchero. I cavoli, probabilmente coltivati in origine per i loro semi oleosi, si diversificarono ancora di più: furono selezionati di volta in volta per le foglie (le verze), gli steli (i cavoli rapa), i germogli (i cavolini di Bruxelles) o le infiorescenze (i cavolfiori e i broccoli).
Finora abbiamo parlato della trasformazione delle piante selvatiche come risultato della selezione, più o meno consapevole, operata dai primi contadini, i quali si portavano a casa solo semi delle varietà utili, che propagavano di anno in anno con nuove semine. Ma molti cambiamenti furono dovuti anche a un processo di autoselezione delle piante. Con l’espressione darwiniana "selezione naturale" ci riferiamo al fatto che alcuni individui di una specie hanno maggiori possibilità di sopravvivere e/o riprodursi rispetto ad altri individui della stessa specie, in condizioni naturali: è questo diverso tasso di riuscita che opera la selezione. Se le condizioni esterne cambiano, possono cambiare anche le caratteristiche che rendono un individuo più adatto, e tutta la popolazione è soggetta a un cambiamento evolutivo. L’esempio classico in questo senso è il cosiddetto melanismo industriale. In Inghilterra nel XIX secolo, a causa dell’inquinamento atmosferico, i tronchi degli alberi divennero scuri di fuliggine; come conseguenza, in una specie di falene che era sempre stata in grande maggioranza di colore chiaro si notò un forte aumento degli esemplari di colore scuro: questi ultimi si camuffavano sui tronchi anneriti e potevano sfuggire ai predatori.
La nascita dell’agricoltura cambiò l’habitat di molte piante proprio come la rivoluzione industriale fece con le falene. Un suolo arato, concimato, irrigato e liberato dalle erbacce è assai diverso dall’arido pendio di una collina (habitat originario di molti cereali). Molte modificazioni nelle piante coltivate si devono a pressioni selettive causate da mutamenti nell’ambiente. Ad esempio, con la semina intensiva aumenta la competizione per sopravvivere; i semi più grossi che possono sfruttare le condizioni favorevoli e crescere in fretta sono avvantaggiati rispetto a quelli piccoli, meglio adatti a terreni più aridi e meno fertili, dove la densità è minore e la competizione meno feroce. Questo tipo di pressione fu un fattore decisivo nell’aumento della dimensione dei semi durante la domesticazione.
• Per quali motivi alcune piante si lasciano domesticare con facilità e altre no? Perché alcune hanno ceduto già in epoca preistorica, altre nel Medioevo e altre ancora si sono rivelate inattaccabili? Possiamo trovare molte risposte esaminando in dettaglio ciò che sappiamo essere avvenuto nella Mezzaluna Fertile.
Le prime specie coltivate nel Vicino Oriente circa 10000 anni fa furono il grano, l’orzo e i piselli; tutti derivano da varietà selvatiche molto buone, perché abbondanti, commestibili e di rapida e facile crescita. Bastava seminarle e raccoglierle dopo pochi mesi: una bella comodità per i primi pionieri, sempre in bilico tra la vita nomade del cacciatore e quella sedentaria dell’agricoltore. E non è finita qui: si potevano immagazzinare senza problemi (al contrario, ad esempio, delle fragole e della lattuga); erano perlopiù ermafroditi sufficienti che si autoimpollinavano e trasmettevano ai discendenti tutti i geni utili; e bastavano poche mutazioni genetiche per renderli domestici (due sole nel grano, ad esempio: la mancata dispersione dei semi e la germinazione uniforme).
Nello stadio successivo, attorno al 4000 a. C., si domesticarono le prime varietà di frutto, tra cui le olive, i fichi, i datteri, i melograni e l’uva. Rispetto ai cereali a ai legumi, avevano lo svantaggio di maturare lentamente, visto che no fruttificavano per tre anni dopo la semina, e raggiungevano un regime soddisfacente di produzione solo dopo un decennio. chiaro che coltivare questi alberi era un compito possibile solo per popoli che conducevano già una vita sedentaria. Si trattava comunque di colture facili perché, al contrario di molte specie arboree, crescevano direttamente a partire dai semi o dai germogli della pianta madre, il che dava la certezza che tutte le piante figlie avrebbero avuto le stesse caratteristiche desiderabili.
Nel terzo stadio fecero la loro comparsa specie più difficili da coltivare, come le mele, le pere, le prugne e le ciliegie. Sono alberi che non si propagano con i pollini, e che non ha senso far crescere a partire da un seme, perché il risultato può essere radicalmente diverso rispetto alla pianta madre. Per farli riprodurre bisogna utilizzare la difficile tecnica dell’innesto, messa a punto in Cina molto tempo dopo la nascita dell’agricoltura. L’innesto richiede un sacco di lavoro, e il principio su cui si basa è così complesso che non può essere stato scoperto per caso: non è stato merito di un nomade che ha visto qualche bell’albero da frutto crescere come per miracolo nella sua latrina.
Gli antenati di queste piante ultime arrivate avevano un altro problema: dovevano essere impollinati da un altro individuo della stessa specie ma geneticamente diverso. I primi frutticoltori dovettero utilizzare individui mutanti, o piantare intenzionalmente a breve distanza esemplari maschili e femminili o di linee genetiche diverse. Tutte queste difficoltà fecero sì che mele, pere, prugne e ciliegie fossero domesticate solo in epoca classica. Negli stessi secoli, però, si iniziò a coltivare un gruppo di piante molto meno problematiche i cui antenati selvatici erano considerati erbacee che infestavano i campi: la segale, l’avena, i ravanelli, le rape, le bietole, i porri e la lattuga.
• Sebbene la storia che ho raccontato sia tipica della Mezzaluna Fertile, qualcosa di molto simile accadde in altre parti del mondo. Il grano e l’orzo del Vicino Oriente sono rappresentativi del gruppo di cereali (le Graminacee), e piselli e lenticchie dei legumi (Leguminose). I cereali hanno molte virtù: crescono in fretta, sono molto produttivi (fino a una tonnellata per ettaro) e sono ricchi di carboidrati; è per questo che al giorno d’oggi più della metà delle calorie consumate nel mondo proviene dai cereali, soprattutto dalle cinque specie regine: grano, mais, riso, orzo e sorgo. Molti cereali contengono poche proteine, ma a questo pensano i legumi, che ne contengono in media il 25 per cento (il 38 la soia). Un’alimentazione basata su cereali e legumi fornisce quasi tutti gli ingredienti per una dieta bilanciata.
Come si può vedere dalla tabella 7.1, la combinazione cereali-legumi ha dato il via all’agricoltura in molte zone. I casi più noti, oltre al quartetto grano’orzo-piselli-lenticchie del Vicino Oriente, sono l’accoppiata mais-fagioli in Mesoamerica e quella tra riso, miglio e soia in Cina. Meno noti sono gli abbinamenti di sorgo, riso e miglio africano con fagioli dall’occhio e arachidi in Africa, e del quinoa (un’erbacea che appartiene al genere Chenopodium e non è un cereale) con molti tipi di fa000000gioli sulle Ande.
La tabella ci mostra anche che le piante coltivate per le fibre nella Mezzaluna Fertile ebbero degli analoghi un po’ ovunque: la canapa, quattro diverse specie di cotone, la yucca e l’agave fornirono tessuti e cordame in Cina, Mesoamerica, India, Etiopia, Africa subsahariana e Sudamerica, e furono affiancate in molte zone dalla lana fornita dagli animali domestici. Solo gli Stati Uniti orientali e la Nuova Guinea non ebbero mai nulla del genere.
Oltre alle analogie non mancano le differenze tra le varie aree di prima domesticazione. Innanzitutto, nel Vecchio Mondo fu quasi sempre praticata una monocoltura basata sulla semina a spaglio (cioè con quella tecnica in cui i semi vengono gettati e sparpagliati sul terreno) e sull’aratura, possibile grazie alla domesticazione di buoi e cavalli usati come forza motrice. Nel Nuovo Mondo, dove nessun animale utile a trainare un aratro fu mai domesticato, i campi dovevano essere arati a mano, con zappe e bastoni, e i semi piantati a uno a uno in apposite buche. In questo modo più specie potevano convivere nello stesso campo, e la monocoltura non era così diffusa.
Ci sono anche differenze sostanziali riguardo al valore alimentare delle colture. In alcune zone il ruolo dei cereali come fonte principale di calorie fu preso da tuberi e radici (la cui importanza era invece minima nella Mezzaluna Fertile e in Cina): la manioca e la patata dolce in Sudamerica, la patata e l’oca sulle Ande, l’igname in Africa, il taro e l’igname nell’Asia sudorientale e in Nuova Guinea; in queste due ultime aree furono importanti anche due specie arboree ricche di carboidrati, la banana e l’albero del pane.
• Già al tempo degli antichi romani, gran parte delle colture ritenute oggi fondamentali erano diffuse in qualche parte del mondo. I popoli di cacciatori-raccoglitori che iniziarono la domesticazione avevano una profonda conoscenza del loro ambiente (come vedremo anche per gli animali nel cap. IX) e riuscirono a sfruttare quasi tutte le specie utili. Certo non tutte: i primi a coltivare le fragole furono i monaci medievali, e in tempi recenti – oltre a migliorare le piante di antica domesticazione – si sono aggiunte alla lista altre specie come i mirtilli, le more, il kiwi, le noci di macadamia, le noci pecan e gli anacardi. Ma sono piccola cosa, se paragonate al grano, al mais e al riso.
Comunque, nell’elenco delle nostre vittorie mancano ancora molte piante che potrebbero avere un valore alimentare. Un fallimento storico è rappresentato dalla quercia, le cui ghiande sono sempre state mangiate dagli indiani d’America, e hanno rappresentato la salvezza per molti contadini europei in tempo di carestia. Le ghiande sono nutrienti, ricche di amido e di oli; come molte altre bacche hanno una componente tannica amara; ma abbiamo imparato ad aggirare l’ostacolo macinandole e mischiandole all’acqua, oppure a raccogliere solo quelle che una mutazione simile a quella vista per le mandorle rende più dolci.
Perché non siamo riusciti a coltivare le querce? E perché ci abbiamo messo così tanto a capire come far crescere le fragole? Che cos’hanno queste piante così speciale che le rende difficili da domare, anche da parte di agricoltori esperti, capaci di inventare una tecnica come l’innesto?
Le querce hanno tre cose che non vanno. In primo luogo, crescono così lentamente da far perdere la pazienza a qualsiasi contadino. Mentre il grano produce il primo raccolto pochi mesi dopo la semina, e un albero di mandorle è produttivo dopo tre anni, per cavare qualcosa da una quercia bisogna aspettare anche dieci anni. In secondo luogo, le querce sono perfettamente adattate per incontrare i gusti degli scoiattoli, che tutti abbiamo visto raccogliere le ghiande, sotterrarle e poi disseppellirle per mangiarsele; ogni tanto se ne dimenticano qualcuna sottoterra, e una nuova quercia può iniziare a germinare. Di fronte a milioni di scoiattoli che sotterrano miliardi di ghiande ogni anno, gli uomini avevano ben poche possibilità di riuscire a selezionare un tipo di quercia fatto secondo i loro gusti. Problemi analoghi spiegano perché il faggio e il noce americano, i cui frutti sono stati sempre mangiati in passato, hanno avuto destino simile.
Infine, la causa forse più importante che impedisce la domesticazione della quercia è data dal fatto che il carattere "ghianda amara" non è controllato da un solo gene, come nelle mandorle, ma da un complesso di geni diversi. Un contadino dell’antichità che avesse trovato con ogni probabilità a crescere una pianta non mutante (mentre nel caso delle mandorle le leggi della genetica ci dicono che la probabilità che un esemplare dolce dia origine a un altro esemplare dolce è del 50 per cento). Basta questo per smorzare l’entusiasmo anche del contadino più paziente e più determinato nel combattere gli scoiattoli.
Per quanto riguarda le fragole, sorgono problemi analoghi di competizione con i tordi e altri uccelli amanti dei frutti di bosco. vero che i romani tenevano piante di fragole nei loro giardini, ma con milioni di tordi che spargevano i semi delle fragoline selvatiche dappertutto (anche nei giardini romani) la selezione naturale non poteva agire a favore dell’aumento di dimensioni. Solo con l’introduzione delle reti protettive e delle serre si è riusciti a sconfiggere i tordi, e a ridisegnare le fragole secondo il nostro volere.
• Abbiamo visto che la differenza tra le fragole giganti del supermercato e le fragoline che troviamo nei boschi è solo una delle tante che separano le specie coltivate da quelle selvatiche. Sono differenze che si riscontrano dapprima come variazioni naturali spontanee; alcune di queste sono evidenti, come l’aumento della dimensione o della gradevolezza del sapore; altre meno, come il cambiamento nei meccanismi di dispersione del seme. Ma quali che fossero i criteri di scelta, più o meno inconsci, dei primi agricoltori, è certo che i primi passi verso la domesticazione furono del tutto inconsapevoli. Fu una conseguenza inevitabile della nostra selezione degli esemplari selvatici più utili e della competizione evolutiva nel nuovo ambiente agricolo, dove chi era favorito allo stato selvatico non lo era più.
Ecco perché Darwin iniziò la sua Origine della specie con un capitolo in cui si dilungava a spiegare in che modo piante e animali selvatici divennero domestici grazie alla selezione artificiale imposta dall’uomo. Invece di partire in quarta con i fringuelli delle Galapagos per cui è universalmente noto, si mise a discutere delle varie sottospecie di uva spina. Ecco cosa scriveva:
Nelle opere di orticoltura è espressa grande sorpresa per gli splendidi risultati ottenuti dai giardinieri con materiali così scadenti; tuttavia il processo è stato semplice ed è stato eseguito in maniera quasi inconscia, fino al risultato finale. Esso consisteva nel coltivare sempre le migliori varietà conosciute, seminarle e, non appena compariva una varietà lievemente superiore, selezionarla, e così di seguito .
Questi metodi di selezione artificiale sono ancora oggi il modello più comprensibile della nascita della specie attraverso la selezione naturale.