Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 30 agosto 1999
Qualcuno di molto grosso, di molto importante, ha deciso che il regno di Boris e dei suoi troppi Rasputin del denaro è finito
• Qualcuno di molto grosso, di molto importante, ha deciso che il regno di Boris e dei suoi troppi Rasputin del denaro è finito. «La muraglia di omertà politica e giudiziaria puntellata dall’America e dal Fondo Monetario Internazionale che per tutto gli anni Novanta aveva protetto gli affari del Cremlino sta squagliandosi davanti ai nostri occhi, in una contemporaneità di inchieste, rivelazioni e scandali [...] Dalla Banca del Gottardo alla New York di Manhattan, procuratori, investigatori e ispettori fino a ieri ciechi, sordi e muti scoprono flussi e gorghi di immensi capitali russi di oscura provenienza».
• Senza il segnale verde di Washington ancora nessuno si sarebbe accorto di quello che da anni stava accadendo: «Migliaia di miliardi di lire rovesciate dal Fondo Monetario Internazionale nel pozzo senza fine della Russia eltsiniana finivano più spesso nelle tasche degli ”oligarchi” russi e della famiglia imperiale che in quelle dell’immaginaria economia di mercato o della non meno immaginaria ”classe media russa”. Quei diciottomila miliardi di lire [...] erano il prezzo che l’America pagava, e faceva pagare a tutti noi finanziatori involontari, attraverso il Fondo, per mantenere in piedi l’oligarchia di Mosca».
• Carte di credito. Secondo le dichiarazioni rese alla magistratura svizzera dall’affarista russo-ebreo-spagnolo Felipe Turover, il costruttore svizzero-kosovaro Behgjet Pacolli avebbe pagato tangenti a funzionari del governo russo tra cui Boris Eltsin e le sue due figlie Tatjana ed Elena.
Pacolli sostiene ancora che non ha pagato tangenti ai funzionari del Cremlino, ma soltanto spese di rappresentanza...
«Su quel conto c’erano un milione e 800 mila dollari. Non è un po’ troppo per le sole spese di rappresentanza? Ancora Pacolli sostiene di aver avuto con Pavel Borodin soltanto rapporti ufficiali. un’altra bugia».
Pacolli sostiene di non aver pagato un rublo di tangente per gli appalti russi. Le chiediamo: è possibile ? Esiste la corruzione per gli appalti in Russia?
«Esiste soltanto la corruzione». [...]
Per alcuni, Pacolli è un capacissimo e intraprendente costruttore. Per altri, un canale di riciclaggio scelto dall’oligarchia del Cremlino. A suo avviso chi è Pacolli?
«Io credo che sia un canale di riciclaggio e lo strumento scelto dal Cremlino per appropriarsi delle ricchezze dello stato. Ascoltatemi, da trent’anni c’è il fior fiore delle industrie delle costruzioni al lavoro in Russia. Sono società francesi, turche, finlandesi, italiane come la Codest di Udine e la Edilter di Bologna, che qui hanno gran prestigio. Improvvisamente vengono spazzate via. A favore di chi? Di una piccola società svizzera con 100 mila franchi di capitale. Lei che cosa penserebbe se i lavori di ristrutturazione di San Pietro fossero aggiudicati a una ditta con un milione di capitale e sede a Palermo o a Napoli?».
Chi c’è dietro Pacolli? E chi c’è dietro Borodin?
«Dietro Pacolli c’è Borodin, e dietro Borodin c’è soltanto una persona, la più importante delle persone».
A chi si riferisce?
«Al presidente Boris Eltsin che ancora lo sostiene perché Borodin sa troppo. Quando non sarà più utile o sarà troppo minaccioso volerà fuori dalla finestra come il suo predecessore, il tesoriere del Pcus Kruchina, volato giù nel 1991 dalla finestra dello stesso ufficio che oggi è di Borodin. Così si usava durante il comunismo. un vizio difficile da perdere».
• Traffici e soldi spariti. Le autorità federali americane hanno scoperto che parte dei crediti erogati dal Fmi alla Russia come aiuto alla ricostruzione dopo il comunismo (200 milioni di dollari per ”Wall Street Journal”, 2 miliardi per ”Usa Today”), non sono mai giunti a destinazione. Sarebbero finiti in una front company intestata a una banca commerciale russa. Nel settembre ’98 Anatolij Ciubais raccontò in un’intervista del megacredito di 22 miliardi di dollari ottenuto dal Fmi pochi mesi prima (bloccato poi per le insolvenze russe dell’agosto ’98) e commentò «Gli abbiamo fregato 20 miliardi [...] Come? Manipolando cifre, dati e impegni».
• Eugenij Primakov. Dietro questa campagna c’è la firma di Eugenij Primakov, ex capo del Kgb, ex primo ministro, ora schierato con il partito di Luzhkov, popolarissimo sindaco di Mosca e grande avversario di Eltsin. Irina Alberti: «L’informazione e la disinformazione che rimbalza dall’occidente è la sua specialità professionale. La sua carriera nel Kgb, di cui è salito ai vertici nel ’91, è rivelatrice [...] Il marchio professionale del Kgb consiste nel non apparire come la fonte prima di certe ”rivelazioni” o ”disinformazioni” [...]. La sagacia del Kgb consiste nell’utilizzare, anche a loro insaputa, personaggi insospettabili come il procuratore Skuratov o la super giudice svizzera Del Ponte. Il maestro di questi metodi era Yuri Andropov, il vecchio e geniale capo del Kgb: Primakov e Gorbaciov sono suoi allievi [...] Sa qual è la vera novità?».
Quale?
«Che allora il Kgb si imitava a sventolare i suoi dossier scandalistici sotto il naso degli interessati, per tenerli buoni. Ora li deve rendere pubblici, passare alla stampa occidentale: perché dopotutto si tratta di vincere un’elezione, di influire sull’opinione pubblica russa» (Maurizio Blondet).
• Lo scopo finale di Primakov. Ancora Irina Alberti: « quello di sconfiggere il centro destra, bene o male rappresentato da Eltsin, per riportare al potere la vecchia nomenklatura. , ancora, la ripresa del vecchio piano di Andropov: nel crollo del regime, salvare le nomenklature intelligenti. Riciclarle, ricostruire un sistema di potere travestito in senso democratico. La perestrojka, la glasnost, e al fondo il modello cinese: capitalismo selvaggio e controllo ideologico, l’arricchimento concesso solo a chi è docile al sistema. Eltsin fece fallire quel piano: per questo certi circoli occidentali l’hanno odiato fin dal principio» (Maurizio Blondet).
• Daghestan. Il conflitto che oppone la guerriglia separatista e islamica del Caucaso ai reparti speciali del ministero degli interni (alle dipendenze dirette del nuovo premier Putin), gli Spetnatz, viene presentata dal governo come «Lotta al terrorismo organizzato e finanziato dall’estero». Sandro Ottolenghi sull’ultimo ”Panorama”: «Molti dicono che il confronto durerà almeno un anno: il tempo che ci vuole per andare oltre le scadenze elettorali. La situazione di guerra permetterebbe al Cremlino di fronteggiare l’opposizione politica interna adottando misure eccezionali, se non addirittura lo stato di emergenza: i blindati dell’Fsb (ex Kgb) si sono già visti a Mosca nei giorni scorsi. La situazione di crisi potrebbe persino consentire a Eltsin di sciogliere la Duma, il parlamento, e di assumere i pieni poteri, addirittura di annullare le elezioni presidenziali prorogando sine die il suo mandato».
• Se le truppe russe dovessero ritirarsi non sarà certamente perché la maggioranza deglia abitanti del Daghestan sostiene i militanti nella loro dichiarazione di uno Stato indipendente islamico. Anatol Lieven: «La maggior parte degli abitanti del Daghestan rimane fedele al credo Sufi della regione e ci sono stati seri scontri con i nuovi fanatici estremisti. Il governo del Daghestan di Mahomedali Mahomedov e la grande maggioranza dei politici hanno ripetutamente dichiarato il loro desiderio di restare nella Federazione russa. Ma questa posizione non testimonia un particolare amore per la Russia, quanto la dipendenza dai sussidi. dunque da considerare che la ritirata della Russia porterebbe inevitabili disastri tra le 34 differenti nazionalità del Daghestan e farebbe dell’intera Repubblica una versione impoverita del Libano degli anni Settanta».
• I ceceni, che sanno fare politica e conoscono i punti deboli dei loro nemici, devono aver fatto i loro calcoli sulla deriva di Mosca. Adriano Sofri: «Tuttavia sono divisi tra loro, non stanno difendendosi da un’aggressione e non possono parlare la lingua della libertà caucasica alle minoranze non islamiche. Sono amici dei cosacchi del Terek, nemici dei cosacchi del Don. Hanno l’Inguscezia come un’enclave (ma, vi dicono, non voltare mai le spalle a un inguscio), l’Ossezia filorussa come un campo di incursioni terroristiche, il Daghestan come paese fratello, ma rischiano di sembrare attaccati, piuttosto che all’indipendenza caucasica e alla stessa Jihad islamica, al petrolio e all’oleodotto del nord. Che peccato».