Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 3 ottobre 2004
Divitis hic servo cludit latus ingenuorum filius», «qui il figlio di gente libera circonda lo schiavo di un ricco», si lamentava Giovenale alla fine del I secolo d
• Divitis hic servo cludit latus ingenuorum filius», «qui il figlio di gente libera circonda lo schiavo di un ricco», si lamentava Giovenale alla fine del I secolo d.C. Un libero cittadino che adula uno schiavo per ottenere favori, una raccomandazione, un prestito da parte del suo padrone: sembra un paradosso.
Eppure, scene di questo tipo erano frequenti nella Roma di Traiano (98-117 d.C.). La condizione degli schiavi nell’antica Roma, infatti, non fu mai un semplice rapporto di dipendenza. Risultato di una lunga evoluzione, presentava innumerevoli sfaccettature, a seconda dei ruoli che gli schiavi assumevano.
L’utilizzazione della schiavitù su larga scala risale all’epoca dei Sumeri, nel III millennio a.C. e forse ancora prima. Presso i romani cominciò a svilupparsi per gradi, a partire dalle guerre di conquista della penisola (IV sec. a.C.).
Gli eserciti facevano molti prigionieri, destinati a diventare schiavi da utilizzare nei campi, per «evitare che uomini liberi fossero costretti a coltivare invece che combattere altrove», scriveva Appiano. La sempre crescente disponibilità di prigionieri col tempo avrebbe portato all’estinzione della piccola proprietà contadina a favore dei latifondi coltivati da schiavi.
I numeri della schiavitù crebbero rapidamente. Si stima che durante la prima guerra punica (264-241 a.C.) gli eserciti romani fecero 75.000 prigionieri; 30.000 provennero soltanto da Taranto durante la seconda guerra punica contro Annibale (209 a.C.); 150.000 dall’Epiro nel II secolo a.C.
Un secolo più tardi Giulio Cesare ne catturò un milione in Gallia. La Roma di Traiano arrivò a avere tra le sue mura circa 400.000 schiavi, su due milioni di abitanti.
Oltre ai prigionieri di guerra, potevano diventare schiavi cittadini liberi che avessero perso i diritti politici e civici, che si trovassero in condizione di non potere pagare un debito, o che si fossero sottratti agli obblighi militari e fiscali. Non solo: una famiglia che riteneva di avere troppi figli, poteva vendere il più piccolo o addirittura il nascituro. Di solito si trattava di una scelta drammatica, dettata dall’impossibilità di mantenere tutta la prole. A volte, tuttavia, si vendeva un figlio per non frammentare l’eredità familiare.
• Doveri e diritti. Secondo il diritto romano gli schiavi erano cose (res) e appartenevano al padrone. Il nome stesso evidenziava questa condizione: era composto dal suffisso por (da puer, servitore) aggiunto al nome del padrone. Così lo schiavo di Lucio si chiamava Lucipor, quello di Mario Maripor. Non potevano possedere oggetti o beni, né avere una famiglia, ma solo scegliere una compagna tra le schiave. Niente teatro, né toghe (i mantelli) sopra la tunica. Le pene per chi infrangeva queste regole erano durissime: dai lavori forzati, alla flagellazione, fino alla crocifissione.
Valutato in base alla sua utilità, lo schiavo che si ammalava perdeva il proprio valore e diventava un danno. Il padrone poteva cacciarlo e lasciarlo morire in strada, portarlo al tempio di Esculapio (il dio della medicina), sull’isola Tiberina, per chiederne la guarigione, oppure ucciderlo, sulla base dello ius vitae ac necis, il diritto di vita e di morte che aveva su di lui.
Dalla tarda età repubblicana, sul finire del II secolo a.C., con la fine delle guerre di conquista, il numero degli schiavi smise di crescere e, di conseguenza, la loro vita migliorò, istaurandosi un vero e proprio regime di domanda e offerta. Lo schiavo si vide riconoscere un’anima e venne ammesso, pur con qualche riserva, alla pratica dei culti. Si diffuse uno spirito filantropico nei confronti dei più umili. Persino Giovenale, non proprio attento ai bisogni altrui, si lamentava in alcune satire dell’avarizia dei padroni che davano scarsi alimenti ai propri schiavi, oppure delle donne che, al minimo errore, torturavano le loro cameriere con flagelli e nerbi. Due categorie di schiavi avevano comunque sempre goduto di un trattamento di favore: i figli di schiavi (vernae), nati in casa, che formavano una élite, benché di proprietà del padrone dei loro genitori, e gli schiavi istruiti, provenienti dalla Grecia, che svolgevano attività intellettuali (pedagoghi, segretari, amministratori) e valevano circa settecento volte gli schiavi comuni. Nel III sec a.C. il poeta Livio Andronico, uno dei primi a introdurre la letteratura greca a Roma, venne condotto nella Capitale come prigioniero da Taranto, la sua patria, conquistata dai romani durante la guerra contro Pirro, e divenne schiavo della gens Livia, ricoprendo la funzione di educatore.
A prescindere da queste eccezioni, i rapporti padrone-schiavo erano contrassegnati da una certa benevolenza. Il padrone era il primo interessato a mantenere i propri servi sani e forti. Racconta Plutarco che Catone il Censore (234-149 a.C.), noto tradizionalista, al momento dell’acquisto sceglieva gli schiavi più giovani, «passibili, come puledri o cuccioli di cane, di allevamento razionale e di addestramento». E infatti il trattamento doveva essere simile a quello riservato agli animali da allevamento, con qualche minore attenzione da dedicare allo schiavo perché una mucca «non si sapeva guardare da sola altrettanto bene come un essere umano» (Michael Grant). I suoi schiavi dovevano vivere in isolamento, non parlare con gli estranei, e dormire il più possibile per poter essere ben riposati e più disposti a ricevere ordini.
Non solo, si dice che facesse allattare da sua moglie gli schiavi neonati, convinto che così nascesse in loro «una certa benevolenza». Era anche ossessionato dal fatto che andassero tutti d’accordo: se qualcuno commetteva un reato, organizzava un processo davanti agli altri e, in caso di colpevolezza, faceva uccidere immediatamente l’imputato.
Comunque sempre dal periodo tardo repubblicano lo status dello schiavo si modificò soprattutto per via del peculium, una piccola somma, revocabile in qualsiasi momento, che il padrone gli concedeva in amministrazione. Questa cifra poteva servire per affrancarsi, oppure essere spesa, ma in tal caso i benefici delle operazioni effettuate andavano al padrone.
Col passare degli anni venne elaborato un ampio apparato di leggi per regolare il trattamento degli schiavi in modo più rispettoso della dignità umana. Nei primi anni dell’impero una legge proibì ai padroni di mandarli in pasto alle belve senza giudizio. Nel 46 d.C. Claudio promulgò un editto che stabiliva l’emancipazione d’ufficio degli schiavi malati o infermi abbandonati dal loro padrone, anche per ovviare al problema delle epidemie che i cadaveri per le strade generavano. Nerone, dietro consiglio di Seneca, stabilì che il prefetto dell’Urbe accettasse e istruisse le proteste degli schiavi contro le ingiustizie dei loro padroni. Domiziano e poi Adriano proibirono la castrazione degli schiavi. Adriano eliminò anche il diritto di vita e di morte del padrone. Antonino Pio decretò omicidio ogni esecuzione capitale di schiavi compiuta dal padrone.
• Lo schiavo di città. Le vie delle città romane brulicavano di schiavi. Il lavoro manuale, poco considerato dai cittadini liberi, era compiuto in gran parte da schiavi-artigiani in appositi negozi. Masse enormi lavoravano agli ordini dei grandi architetti, nei cantieri sparsi in tutto il paesaggio urbano: erano altamente specializzati nella costruzione di infrastrutture, ponti, strade, acquedotti e case.
Altri schiavi, i cursores e i viatores, erano addetti a accompagnare il padrone per le strade, per proteggerlo da agguati e rapine. C’erano poi gli atrienses, schiavi domestici, sempre al servizio diretto del padrone. A loro spettava una condizione più favorevole perché erano responsabili della buona riuscita del più importante momento di socialità dei romani: il convito. Alcuni erano preposti al ricevimento degli ospiti, a cui dovevano fare un bagno caldo e un pediluvio; altri, nel frattempo, preparavano il vino per il banchetto. I più belli e educati servivano gli invitati. Dovevano portare i capelli lunghi con cui gli ospiti si asciugavano le mani, mescere il vino e servire le pietanze, preoccupandosi di tagliare il cibo in piccole parti. A banchetto concluso, altri schiavi pulivano la tavola e spazzavano. Ogni invitato aveva con sé uno schiavo personale (il servus ad pedem) pronto a soccorrerlo nel caso di ubriachezza o indigestione.
Ancora più importante era il ruolo degli schiavi nel divertimento pubblico. I romani consideravano il mestiere dell’attore cosa disdicevole, indecorosa e indegna di un libero cittadino (le donne che recitavano avevano una pessima reputazione) da praticare nascosti dietro una maschera che raffigurasse il personaggio. Così la maggior parte degli attori erano schiavi.
Così pure gli aurighi che percorrevano le piste sulle bighe e sulle quadrighe. Portavano un elmo di metallo, con una mano frustavano i cavalli e con l’altra tenevano le redini. E quando non finivano in terra potevano sempre essere oggetto delle intemperanze del pubblico rivale. Ma i giochi preferiti erano le lotte dei gladiatori, nella maggior parte schiavi che attraverso i combattimenti cercavano di riscattarsi. Introdotte a Roma nel 264 a.C., le lotte divennero il divertimento prediletto dal pubblico romano, a tal punto che si crearono vere e proprie scuole d’addestramento di gladiatori con tanto di maestri specializzati. Schiavi erano anche gli addetti alla manutenzione degli anfiteatri dove si svolgevano le gare, costretti a togliere dal campo i cadaveri, a portare sabbia pulita per ricoprire le macchie di sangue e preparare gli incontri seguenti.
• ...e quello di campagna
La vita in campagna per uno schiavo era più dura: poteva essere tenuto in catene (vinctus), ma quasi sempre si preferiva lasciarlo a piede libero (solutus), per farlo lavorare meglio. Il vilicus (fattore-schiavo) governava la villa (la residenza di campagna dei grandi proprietari terrieri) e supervisionava il lavoro degli altri, mentre la sua vilica si occupava delle attività domestiche. Vivevano in abitazioni con il pavimento di terra in gruppi di quaranta, suddivisi in unità da dieci elementi (decuriae) sorvegliate da quattro monitores. Gli schiavi comuni (bovari, operai, vignaioli) stavano in celle da quattro o sei posti. I custodi del raccolto (i promi) dormivano in un altro edificio più isolato.
Gli schiavi di campagna avevano a disposizione una discreta quantità di cibo al giorno: 1,18 kg di pane, 0,14 litri di olio, 0,9 litri di vino o lora (il vinello dei mesi invernali), ma anche uova, legumi, formaggio, olive, e in un anno circa 10 kg di sale per condire i cibi. Forse mangiavano di più e meglio degli operai delle prime grandi industrie dell’800.
Quelli che si occupavano del bestiame ricevano un trattamento più duro e spesso erano abbandonati a loro stessi; per contro, lontani dall’occhio vigile del vilicus, godevano di una maggiore libertà. E, non appena se ne presentava la possibilità, anche a costo di grandi rischi, qualcuno tentava di scappare o cercava di organizzare delle rivolte.
• Spartaco e gli altri. Episodi di ribellione degli schiavi si susseguirono lungo tutta la storia centenaria di Roma. Matrice comune di quasi tutte le rivolte erano le difficili condizioni di vita degli schiavi di campagna. Tra le più note, quella dei pastori siciliani (139 circa - 132 a.C.), raccontata da Diodoro Siculo e ripresa da Carcopino, passata alla storia come prima guerra servile: «Da principio aggredivano e uccidevano le persone più in vista, sorprendendole isolate. Poi, riunitisi in bande, cominciarono ad assalire di notte le ville più indifese: devastavano, saccheggiavano, ammazzavano chi faceva resistenza». Nel 135 a.C. formarono un esercito di 70.000 schiavi comandati da tale Euno, un mistico siriano che si faceva chiamare re Antioco. Gran parte della Sicilia cadde in mano sua per quasi tre anni finché non venne battuto da Publio Rupilio. Ma la rivolta più famosa è quella di Spartaco: originario della Tracia, era stato ausiliario nell’esercito romano finché non aveva disertato. Catturato, ridotto in schiavitù e portato in Italia come prigioniero di guerra, fu inviato vicino Capua alla scuola per gladiatori più famosa e rinomata della penisola, da dove fuggì con altri 70 compagni nel 73 a.C. In meno di due anni sconfisse quattro eserciti romani, finché il senato non decise di inviargli contro Marco Licinio Crasso che lo uccise sul fiume Silaro (l’odierno Sele) nel 71 a.C. In età imperiale episodi di questo tipo scomparvero e la normalizzazione dei rapporti schiavo-padrone poté dirsi conclusa.
• Una schiera di liberti. Scappare o rivoltarsi non era l’unico modo per rompere il giogo della schiavitù. Uno schiavo poteva riscattare la propria libertà pagando un prezzo pari al suo valore. Oppure, alla morte del proprio padrone poteva diventare un liberto, in virtù di una clausola testamentaria, guadagnando la possibilità per la sua discendenza, di esercitare i diritti politici. E ancora, il padrone poteva dare sepoltura da uomo libero a un proprio schiavo deceduto. L’emancipazione era regolata giuridicamente dall’istituto della manumissio (manomissione). Con quest’atto lo schiavo diventava liberto del suo antico padrone, verso il quale conservava doveri di assistenza e servizio. Durante la cerimonia indossava il pileus, un berretto di feltro portato dai romani nei giorni di festa e nei conviti e dato agli schiavi in segno di libertà.
Si poteva ricorrere alla manumissio in vari modi: il più comune prevedeva un finto processo davanti al pretore (manumissio per vindictam), che percuoteva con una verga (vindicta) lo schiavo, dichiarandolo libero. Dopodiché lo schiavo riceveva uno schiaffo dal padrone che infine lo lasciava andare. La manumissio poteva anche essere di gruppo e decisa per disposizione testamentaria del padrone: l’ottenimento della condizione di liberti, però, era vincolata alla creazione da parte del gruppo di schiavi di un’associazione che gestisse in comune i beni lasciati in eredità. Queste concessioni si diffusero sempre più in età imperiale, perché i ricchi padroni gareggiavano tra loro per chi avesse più liberti al seguito, a testimonianza del proprio potere e della propria influenza. Così le procedure divennero molto più rapide: erano sufficienti una lettera del padrone o una dichiarazione di fronte a testimoni durante un convito. Augusto, per fermare questa inflazione, impose un minimo e un massimo di età, 18 e 30 anni, per potere essere emancipati. Ma l’illegalità imperava e durante l’’impero di Traiano circa l’80% della popolazione era di origine schiava, con discendenze più o meno lontane. E nel 284 d.C. sarebbe diventato imperatore il figlio di un liberto, Diocleziano.
• Prestigio e ricchezza. Gli schiavi, nel corso dei decenni, finirono per diventare uno status symbol, un segno esteriore che denotava la condizione sociale di un cittadino, un indice di ricchezza e di prestigio. Scriveva Marziale nel primo secolo d.C. che i più modesti proprietari dovevano apparire in pubblico alla testa di almeno otto schiavi per non mettere a repentaglio la propria credibilità. Anche Giovenale prendeva di mira, quale inutile pomposità, l’esibire schiavi, con un discorso che non sarebbe difficile riferire anche ai nostri giorni: «Fidimus eloquio? Ciceroni nemo ducentos / nunc dederit nummos, nisi fulserit anulus ingens. / Respicit haec trimum qui litigat, an tibi servi / octo, decem comites, an post te sella, togati / ante pedes» (Confidare nell’eloquenza? Nessuno darebbe duecento soldi di questi tempi a Cicerone, se non portasse un enorme anello al dito. Chi intenta una causa prima di tutto si interessa se hai almeno otto schiavi, dieci clienti, una lettiga al seguito e qualche togato che ti preceda).
• Il commercio degli schiavi era un’attività molto redditizia al punto che alcune città divennero veri e propri mercati specializzati. A esempio, a Delo, durante l’apogeo del periodo repubblicano nel III-II secolo a.C., si arrivava a vendere anche 10.000 schiavi in un solo giorno. A Roma il primo mercato fu allestito nel 259 a.C., ma notizie frammentarie datano la prima asta per la vendita degli schiavi intorno al 396 a.C.
I mercanti di schiavi si dedicavano alla loro attività pubblicamente, nelle strade o in veri e propri negozi. Ogni schiavo esposto aveva un suo prezzo che variava a seconda dell’età, della forza fisica e della cultura. Di solito per rendere noti i requisiti e le particolarità del proprio prodotto, i mercanti appendevano al collo degli schiavi un cartello che garantiva la loro provenienza e le loro abilità specifiche, con lo stesso valore dell’odierno ”made in”. Questo valore, a parte alcune eccezioni, restava invariato nel tempo e era equivalente al prezzo da pagare per l’acquisto.
• L’imperatore aveva nella sua dimora fino a 20.000 schiavi, senza contare quelli sparsi per l’Impero. Per ogni vestito c’era lo schiavo specializzato: gli abiti da città erano curati dagli a veste forensi, quelli da indossare nella residenza imperiale dagli a veste privata, gli a veste triumphali si occupavano delle divise per le parate, gli a veste castrensi di quelle militari, gli a veste scaenica prendevano in consegna gli abiti per il teatro, gli a veste gladiatoria quelli per andare al circo.
A corte ogni stanza, ogni vasellame, ogni oggetto aveva il suo schiavo-addetto specifico. E ogni parte del corpo dell’imperatore era assegnata alle cure di uno schiavo specializzato: c’erano gli aliptae (i massaggiatori), gli ornatores (i parrucchieri), i tonsores (i barbieri).
I vari cerimoniali erano suddivisi in tanti gesti diversi, ognuno dei quali svolto da uno schiavo particolare, come in una moderna catena di montaggio. Ecco, allora, i nomenclatores che annunciano all’imperatore il nome dell’ospite, gli ab admissione che lo introducono nelle segrete stanze, i velarii che aprono le cortine per mostrare alla vista del padrone di casa il nuovo arrivato. La cucina era organizzata intorno a un esercito di schiavi valletti, degustatori, camerieri. E certo non mancavano a corte gli schiavi preferiti dagli imperatori, quelli che li facevano divertire, ovvero coristi, ballerini, nani e buffoni.
• Quando nei primi anni del II secolo d.C. le vittorie di Traiano allargarono i confini dell’impero, i prigionieri e le prigioniere ripresero a arrivare a migliaia
a Roma. Questa nuova ondata di schiavi creò turbative
profonde nelle unioni familiari. I ricchi aristocratici piuttosto che sposarsi o lottare con le mogli legittime, sceglievano una schiava per un più semplice concubinato (che Augusto aveva reso lecito, ma non pari al matrimonio).
Anche l’imperatore Marco Aurelio dopo la morte della moglie
fece in questo modo.