Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
«Molta gente non riesce a spiegarsi la sorte che mi è toccata
• «Molta gente non riesce a spiegarsi la sorte che mi è toccata. Credo fermamente di essere stata creata per il lavoro che compio e per la vita che faccio. Ogni ingiustizia, fin dove giunge la mia memoria, mi duole nell’anima come una ferita. Confesso che un’ambizione mi guida, una sola, grande ambizione personale: vorrei che il nome di Evita comparisse un giorno nella storia della mia patria» (Dall’autobiografia di Evita Peron, ”La razon de mi vida”).
• Evita Duarte e Juan Peron si conobbero il 15 gennaio del 1944 durante una manifestazione in favore delle vittime del terremoto di San Juan. Lei indossava una gonna a pieghe, una camicia chiara adorna di una grande rosa di stoffa e un buffo cappellino. L’incontro avvenne alle dieci e quattordici minuti della sera. Quando il presentatore del festival di beneficenza annunciò l’arrivo del generale Peron, Evita si alzò tremante dalla poltrona. Nel salutarlo sentì il calore delle sue mani ferme, maculate di lentiggini, le cui carezze tanto aveva sognato.
• Svegliatasi da uno svenimento durato più di tre giorni, Evita, che aveva solo trentatré anni, ebbe la certezza che stava per morire anche se i dottori volevano convincerla del contrario. I dolori al ventre erano terminati, solo l’idea della morte imminente la tormentava ancora. «La cosa peggiore della morte era il vuoto, la solitudine dall’altra parte: il corpo in fuga come un cavallo al galoppo».
• Nel giugno del 1952, sette settimane prima che Evita morisse, Peron convocò nella residenza presidenziale il dottor Ara, conservatore di corpi. Gli estimatori di Evita volevano erigerle un monumento di centocinquanta metri nella Plaza de Mayo, ma il presidente aveva un desiderio: che il popolo potesse continuare a vederla viva in eterno. Il 26 luglio 1952 Evita era in agonia. Pedro Ara non immaginava l’arduo compito che lo aspettava. Gli diedero il corpo alle nove di sera. Evita era morta alle otto e venticinque. Era ancora calda, ma i piedi stavano già diventando viola e così l’imbalsamatore iniziò il suo lavoro in tutta fretta. «L’imbalsamatore aprì l’arteria femorale dell’inguine, al di sotto della tuba di Falloppio e, contemporaneamente, entrò dall’ombelico in cerca del limo vulcanico che le minacciava lo stomaco. Senza aspettare che il sangue fosse drenato completamente, iniettò un torrente di formaldeide...La sua attenzione volava dai bulbi oculari che si stavano appiattendo alle mandibole che si sfaldavano, alle labbra che si tingevano di cenere».
• Doña Juana, madre di Evita, volle vedere le copie del corpo imbalsamato della figlia. La prima cosa che vide fu una gemella di Evita così identica che neppure lei sarebbe stata capace di partorirla. Un’altra copia perfetta era sdraiata su alcuni cuscini di velluto nero, ai piedi di una poltrona dove una terza Evita, avvolta nella stessa stoffa bianca delle altre, leggeva una cartolina spedita sette anni prima da Madrid.
• «Diciassettemila soldati si schierarono per le strade per renderle omaggio. Dai balconi furono lanciati un milione e mezzo di fiori tra rose gialle, viole delle Ande, garofani bianchi, orchidee delle Amazzoni, piselli odorosi del lago Nahuel Huapì e crisantemi mandati dall’Imperatore del Giappone su aerei da guerra».
• Per molta gente, toccare Evita era come toccare il cielo. Almeno cento gli oggetti usati, baciati o toccati dalla Dama dei descamisados (il termine che designava i poveri tanto amati da Evita per il fatto che portavano la camicia fuori dai pantaloni) che sono serviti a fomentarne il culto. Tra questi: il canarino imbalsamato che Evita regalò al dottor Campora quando era presidente della Camera dei Deputati; la macchia di rossetto che lasciò su una coppa di champagne durante una serata di gala al teatro Colón, prima di partire per l’Europa; il flacone di Gomenol che il professore Américo xCali comprò nel 1936; i ciuffi di capelli che le vennero tagliati quando morì. Ancora oggi si vendono ciocche in alcune gioiellerie del centro di Buenos Aires; una vestaglia bianco sporco con scollo a V e maniche corte.
• Alla caduta di Peron, nel 1955, i nuovi padroni dell’Argentina sono ossessionati dalla salma di Evita. L’obiettivo che si prefiggono è di farla sparire (assieme alle tre copie fatte dall’imbalsamatore) per impedire che il popolo possa continuare a venerarla. Ma il trafugamento del corpo si tinge di giallo. Le menti del colonnello Moori Koenig e del maggiore Edurdo Arancibia non reggeranno allo strano incantesimo che aleggia attorno alla salma di Evita. Il primo si trasformò in un mistico e morì senza sapere che non aveva seppellito Evita, ma una copia, il secondo si suicidò. Moori Koenig avrebbe evitato per sempre la parola ”evita”. «L’avrebbe chiamata Cavalla, Puledra, Serpe, Scarafaggio, Friné, Estercita, Milonguita, Butterfly: avrebbe usato uno qualsiasi dei nomi che circolavano, ma non quello proibito, non quello che stillava disgrazia sulle vite che lo invocavano. La morte è vita, Evita, ma anche Evita è morte».
• La salma di Evita Duarte Perón rimase per 16 anni sepolta al cimitero Maggiore di Milano, sotto la lapide che riportava il nome: Maria Maggi De Magistris. Il feretro, per arrivare in Italia, viaggiò in nave da Buenos Aires poggiando su un piedistallo di ferro, vicino allo scafo, a prua, nascosto tra la mobilia di un diplomatico e gli archivi di Toscanini.
• L’ordine è più che una mania per il colonnello Moori Koenig. Nel suo studio si trova un bozzetto che raffigura la passeggiata del filosofo Immanuel Kant. La leggenda racconta, infatti che i vicini, quando Kant usciva, rimettevano gli orologi tanto il filosofo era abitudinario. "Sotto il disegno, una didascalia proclama in tedesco: ’La mia patria è l’ordine’”.