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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Due fatali uova alla coque

• Due fatali uova alla coque. Il Giornale 24 giugno 2007. Artusi novantunenne girava quella mattina per la sua casa di piazza d’Azeglio a Firenze, in camicione lungo, insultando la cameriera sdentata. Eppure la solenne barba bianca, la maniera calma di urlare l’improperio, il contegno, ne facevano perfetta immagine di biblico patriarca. Ed in effetti aveva scritto pure le sue tavole della legge; che per la verità erano un libro, e inoltre di cucina. Ma era toccato a Pellegrino Artusi di vivere in epoca di attenzioni esclusive all’economia, dunque attenta anche alle minuzie del vivere più sostanziale e del nutrirsi. Tenuta in conto questa decadenza dell’epoca comunque egli vi occupava in Italia parte preminente. E infatti si guadagnò la gratitudine di tutte le giovani spose italiane a modo. Le quali però quella mattina si sarebbero un poco turbate. Giacché egli, così agghindato, s’era appena accorto che le due uova fresche che mangiava alla coque non erano state preparate a dovere. Aprì la latta dove le si doveva aver messe assieme ai tartufi, per profumarle, e vistola vuota, aveva preso a urlare. Anzi per dirla tutta stava per dare un gnocchino ovvero un cazzotto sulla testa della serva, quando il mondo gli si fermò intorno. Gli parve d’essere più alto. Non si accorse subito di essere morto. Piuttosto fu attratto a vedere lo spazio della sua vita svolgersi in simultaneo tempo inverso.
Perciò colui che s’era guadagnato la gratitudine delle spose e dei mariti, spiegando «cose diverse e necessarie al vitto» quel 30 marzo del 1911, rivide tutto. Per esempio come senza darsi a speculazioni azzardose, si era ben arricchito col commercio serico e s’era presa l’amante: Fiorella. Ma doveva guardarsi pur sempre dalla servitù di canaglie che gli rubava le posate d’argento. La cameriera e il cuoco di Bologna e la governante lunatica, che tenne per diciassette anni a freno solo a forza di brusche maniere. E però con ogni delicatezza scrisse nel 1891: «La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene», che stampò a sue spese in quattordici edizioni. Dovevano ogni volta essergli richieste al suo indirizzo. Aveva scritto prima un libro sulle lettere del Giusti e nel 1878 addirittura una vita di Foscolo. Chino su quel suo bancone dove lavorava ma studiando le lettere e le scienze; per decenni in riuscita pausa erotica. Si curava tuttavia sempre bene gli occhi con le pillole di Cooper e l’acqua marziale. Anche quel mattino del 17 aprile del 1859 quando risentì quello che era stato il più grande dolore della vita, la perdita di sua madre. Ma in quel tempo panoramico non ebbe più maniera di addolorarsene. E ritornò pure quella sera del 25 gennaio 1851, quando era a Forlimpopoli e stava scrivendo a un commerciante di Ancona. Qualcuno bussò. Era l’avvocato Ricci, e il padre gli aprì di malincuore. Ma dietro costui, minacciato, entrarono gli assassini che spinsero via suo padre e lo fecero svenire: era quella la banda di Stefano Pelloni, detto il Passatore, perché passava una barca su un fiume della bassa Romagna. Dopo aver assaltato il teatro dilagarono per le case del paese, e per abbonirli Artusi dovette dar loro tutti i valori di casa. Ma atterrarono pure la porta delle sue sorelle per dare sfogo alla loro libidine. Allora resistette. E così una delle sue sorelle per difenderlo si prese una coltellata tra cranio e capelli. Rivide ancora la faccia crudele di chi li comandava: l’infame prete Valgimigli. Ma intanto Gertrude, la più bella delle sue sorelle, dopo essere stata già manomessa e contaminata, era fuggita pei tetti. Finì in manicomio. Ecco perché scelse di vivere per sempre a Firenze. Ma si disvolsero anche immagini quiete, di viaggio. A quei tempi in sette giorni e per sette scudi i vetturini vi portavano dalla Romagna a Roma, e di là ai tempi di Pio IX viaggiò fino a Napoli, dov’era un’infima plebe che non si curava del domani. Era cosa molto caratteristica vedere là nei mercati «una gran caldaja di maccheroni bollenti».
Lusingato dalla rinomanza di quel cibo non vide l’ora di mangiarli; ma fu deluso dal loro modo di condirli con molto pepe e cacio piccante. Meglio i tortellini e il lesso rifatto. Ritornò nelle Romagne nell’imminenza di una nuova invasione austriaca, quando gli elementi turbolenti e malefici prevalsero, e ne seguirono delitti a iosa. In nome di Mazzini furono molti i trucidati dai settari. Perciò nel 1849 il padre lo aveva mandato sempre più spesso lontano a vendere la seta tirata. Fu una provvidenza perché studiò meglio le lettere. Quindi si rivide più giovane, nel suo carattere pronto all’ira e facile alle bravate, ma d’eccessiva sensibilità: le parole gli rientravano in gola. E riebbe accanto il maestro Buscaroli, mentre lo erudiva nel galateo di Melchiorre Gioia, e a imparare a memoria l’Inferno e il Purgatorio di Dante. Migliorò di molto la calligrafia quando andò apprendista da un negoziante a Livorno. Ma aveva ereditato dalla natura istinti erotici quasi infrenabili, per i quali, s’accorse, quasi non s’era rovinato la salute e il resto. Non fosse stato per mamma, caritatevole che appena vide quanto la servetta di casa cominciava a ingrossarsi spese molto per accomodare la cosa. E però perché non aveva sposato la Teresa? Lei che aveva incontrato, bellissima, al mercato dei bozzoli di Mendola, molto pazzamente di lui innamorata? Era stata la gran timidezza l’incubo della sua vita: non si dichiarò. Neppure rivedere la grandine di scappellotti che il padre gli diede, perché bambino dal calzolaio aveva raccolto una coccola di quercia lo tolse dal suo distacco. Vedeva ormai tutto svolgersi come da dietro un vetro, libero di sentimenti. Nel ”31 sentì le fucilate che uccisero due soldati. E il nonno finì in prigione perché papalino, ma lo aveva salvato suo padre liberale che dopo però fu salvato da nonno quando arrivarono gli austriaci.
E si ricordò, o meglio venne ricordato in quello scorrere di tutto, di molto altro ancora: del tamburello e di quando infante gli cascarono i capelli per la febbre tifoidea; e di quella convalescenza nella quale sì gustò sapori mai più sentiti; e dei gran tuffi nel mare dopo la fiera di Senigallia. La prima grande città che vide fu Bologna; e però gli fece più senso di vedere sulla porta di Pesaro due teschi purulenti che erano state teste di assassini. Si ricordò anche l’anno del nevone, quando due persone per strada non si vedevano mica. Nel 1828 gli piacque molto il dormire all’aperto per i terremoti. Ed eccola ancora prima, o dopo, dovendo giudicare al modo dei viventi, la sua balia. Mentre per insufflargli nel sangue non so che virtù gli faceva ingoiare da lattante un cuore di rondine estorto dalle viscere palpitanti. Maschio superstite tra sette sorelle, la mamma gli aveva voluto dare il nome di uno zio canonico e miope, che per questo difetto cadde in un precipizio. Non lontano da Forlimpopoli; dove Artusi si vide nato il 4 di agosto 1820, da Agostino e Teresa Giunchi di Bertinoro; la prima e l’ultima che rivide, e che come i suoi lettori gli sorrise.
Geminello Alvi
• L’anarchico che nacque principe. Il Giornale 1 luglio 2007. Nella fortezza di Pietro e Paolo, cupa e distesa sulla Neva con nerissima gravità, ma inarrivabile nella sua guglia d’oro, entrò il fratello dello zar granduca Nicola. Di molto curioso, seppur frettoloso, era costui in esubero di forze con le basette rosso biondacee tese come le vibrisse di un gatto. Gli si aprirono subito tutte le porte fino alla cella dov’era detenuto il trentaduenne Piotr Alexeievic Kropotkin, che lo riconobbe, dedicandogli il suo lento saluto. E allora con voce di basso il granduca senza indugio gli chiese come mai proprio lui, il loro Piotr, paggio dello zar si fosse riunito a quei pazzi? Lui il principe Kropotkin, anarchista. Perché? E chiedendoglielo così alla russa, familiarmente, le basette quasi gli vibrarono per lo sdegno. Ma Kropotkin tacque. «Sono stati i decabristi, ti reclutarono loro?». Lui lo negò: «No, sono sempre stato lo stesso». E il granduca, più ansioso: «Ma addirittura vi conobbi bambino» Al che Kropotkin rispose meditante: «Nel corpo ero un bambino. Ma quanto è indefinito nell’infanzia, diviene definito, si forma per sempre da adulti». Replica filosofica e tale quindi da non persuadere il granduca, che uscì dalla cella più perplesso di come v’era entrato. Kropotkin era nato discendente dei principi di Smolensk nel 1842, regnante Nicola I, per il quale la Russia era una caserma dove agli aristocratici toccava la parte dei pretoriani, alle immense plebi coscrizioni venticinquennali. L’inclinazione russa all’indisciplina venne corretta a dosi di terrore brutale. Assecondate dagli aristocratici ignavi. Nella guerra contro i turchi suo padre venne, infatti, decorato,lui, della Croce di Sant’Anna: un suo servo aveva salvato un bambino da un incendio. Tanto bastava. Ogni fervore del giovane Kropotkin provenne semmai da sua madre Ekaterina Nicholaevna Sulima, figlia del grande generale delle guerre con Napoleone: così eccentrico da essere onestissimo; e discendente di un atamano cosacco torturato a morte dai polacchi. Questa madre alta coi capelli neri e gli occhi fervidi, teneramente prediletta dai figli e dai servi, come in consimili casi la vita richiede, era destinata a morire giovane. Il pigro padre si risposò con una matrigna maligna. Il nostro undicenne però intanto leggeva Gogol, molto anche lo commovevano Puskin, il ribelle Pugachev, e gli eroi di Dumas. Fu ammesso a corte durante la guerra di Crimea, ma a distrarlo c’erano i canti funebri solenni dei contadini che piangevano i loro morti. E il granduca non sapeva che appena reclutato nel corpo dei paggi, Kropotkin era insorto contro i paggi anziani e le loro prepotenze. Gli toccarono pure dieci giorni di cella per ribellione. Ma l’istinto di quel delicato ragazzino era ormai distratto. Ammirava la natura, e l’unicità dell’uomo e lo stile di Herzen: un senso di vastità gli occupava l’anima. Nel 1861 visse perciò con sollievo l’emancipazione dei servi della gleba, e sentì la dignità paziente di quegli umili venuti a ringraziare lo zar. Persino ai paggi fu concesso di insegnargli a leggere. Ma quando venne nominato sergente, il che equivaleva a essere trattato come un ufficiale, gli toccò d’essere paggio personale dello zar. Conobbe perciò le ansie di Alessandro II, uomo infelice e quei di lui pessimi consiglieri: colui che aveva generato tante speranze non poteva soddisfarle. Lo zar risvegliò la Russia, ma dopo rifiutò di sottoscriverla. Ne ebbe anzi paura: tra il dispotismo e la resa nell’anima di quell’autocrate c’era solo il nulla. Non gli piacque quando apprese che Kropotkin, che prediligeva, s’era deciso di andare esploratore in Siberia. Lo convocò, ma non sapeva replicare agli argomenti altrui se non rinchiudendoli in una fortezza. Però il candore di quel giovane non gli richiese alcuna replica; e allora lo zar ne convenne: «Bene, andate, si può essere utili ovunque». Le repliche degli altri colmarono però le galere. E pertanto contemplò l’Amur immenso, ed imparò pure che a un uomo potevano bastare pane e tè per essere ricco. Fu sorpreso dai silenzi fraterni che gli esiliati russi dedicavano a lui, ufficiale dei cosacchi. Tutto era semplice, richiedeva solo la pace di tutto, perché l’innato amore fraterno accordasse gli uomini alla natura. Questa pace del cuore, concedeva del resto al nostro un vagare della mente libero per quant’era coerente e accurato, da ispirato. E infatti quando tornò alla civiltà gli riuscirono degli studi sterminati e geniali. Ricercò addirittura il principio delle montagne dell’Asia e si persuase che non erano del genere alpino come credevano i geografi dell’Occidente. Comparando l’altezza di quelle vette coi i diari meteorologici di cui poté disporre, sentì l’ebbrezza illuminata di una grande scoperta. Scoprì pure che le catene dell’Asia non si disponevano da nord e sud, ma da sudovest e nordest, tanto che nel 1873 col suo saggio pubblicato dalla Società Geografica Russa ispirò la mappa dell’Asia nel famoso atlante di Stieler. Infine previde nel mare dell’Artico l’esistenza addirittura di una terra sconosciuta, che dedusse dalle correnti. E infatti quando la spedizione polare austriaca scoprì la terra di Franz Joseph, i russi ne furono scontenti. Attribuirono nei loro manuali la scoperta al loro principe, la chiamarono: terra di Kropotkin. Ma titoli e denaro sono uno spreco per anime intrise di panico ascetismo. E il neppure trentenne scienziato era di intelligenza abissale, mite e alla buona, ma come le pianure dell’Asia senza limite. Era quindi già un perfetto stravagante quando si decise a visitare l’Europa anzi la Svizzera. Ovviamente finì tra i pazzi. Ma almeno disdegnò i seguaci di Karl Marx e preferì Bakunin. Non gradì i marxisti compromessi negli intrighi delle elezioni cantonali, gli parvero settari e invidiosi dottrinari com’erano. Gli orologiai anarchici del Giura e gli anarchici italiani, così mistici, invece, gli piacquero molto, e i racconti dei reduci della Comune di Parigi lo conquistarono a un mondo di eguali. Ovvio: tornato in Russia finì in prigione giacché non c’erano, non ci sono e non ci saranno mai in quello stato mezze misure tra la resa o la polizia segreta. S’era abituato al fetore della sua fortezza sulla Neva, quando seppe di suo fratello imprigionato pure lui. Ma dopo la visita del granduca venne trasferito. La volontà gli cedette nella nuova cella di dieci piedi per cinque; e nel 1876 vennero pure le malattie a logorarlo. Ma la sua mente gli rimase ben presente. Per la qual cosa escogitò un piano di evasione, cogli altri eversori che era tutto un romanzo di palloncini rossi da lanciare come segnali e mazurke da suonare al momento appropriato. Ebbe per complice anche un medico della imperatrice che morì, anche perciò, in Siberia. E venne rincorso dalla baionetta d’una guardia, convinta fino all’ultimo d’averlo preso. Ma Kropotkin al ritmo di un violino riuscì a saltare su una carrozza. E fu così che da principe divenne anarchico compiuto, e il massimo teorico del reciproco aiuto. (2. Continua) Geminello Alvi
• Il Negus sconfitto che non ci odiò. Il Giornale 8 luglio 2007. Il 5 maggio del 1941, Hailé Selassié in splendida Alfa, tutta scoperta, fendeva la folla in delirio di Addis Abeba. Cinque anni esatti dopo Badoglio, rientrava col generale inglese Wetherall da vincitore, scortato dagli etiopi a cavallo, dai suoi principi e dai sordidi dignitari copti. Con Amedeo d’Aosta sull’Amba Alagi, erano arroccati i resti vinti dell’esercito italiano, ai quali tuttavia ripensò nel suo didascalico discorso. Elencò con ogni minuzia i pretesti usati dall’Italia per cercare la guerra, le ferocie, i gas, le nefandezze di Graziani, le rivolte, e quella fulminea marcia nel Goggiam che gli ridava il trono. Ma senza odio. Ne dedusse anzi le seguenti parole: «Perché oggi è un giorno di felicità per tutti, dal momento che abbiamo battuto il nemico, rallegriamoci nello spirito di Cristo. Non ripagate dunque il male con il male. Non vi macchiate di atti di crudeltà, così come ha fatto sino all’ultimo istante il nostro avversario. Attenti a non guastare il buon nome dell’Etiopia. Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo ritornare a casa per la stessa via dalla quale è venuto». Ci si dovrebbe complimentare della grandezza dei propri nemici, giacché che cosa si ha di più intimo? Con loro si finisce per ossessionarsi, quindi vicendevolmente confondersi. Perciò avere un degno nemico implica migliorarsi e non v’è in guerra privilegio maggiore. Criterio certo difficile da intendersi in quel secolo di masse educate all’odio, tanto più per gli italiani inclini a guerre civili. Eppure pure loro, che volentieri alla cavalleria preferiscono la derisione, predilessero Hailé Selassié. Le steppe della guerra di Russia impressero nei tedeschi e negli italiani l’immensità del dolore. Ma non s’erano incarnati in una persona come accadeva invece nell’incedere enigmatico di quel re d’Etiopia: esile, suadente, capelluto: l’irrinunciabile nemico che c’era amico. Perciò pochi, in Italia si felicitarono di saperlo ancora prigioniero nel ”75. Ottantaduenne rinchiuso nel recinto del Ghebì di Menelik, da generali golpisti. Gracile, ai tratti semiti e affilati del suo viso, l’età aggiungeva un tetro pallore. Come se la vita gli avesse bruciato la carne sotto la pelle, l’avesse mutata in pergamena, indistruttibile, fragile ma posseduta da tensione della volontà ininterrotta, e inquietante. Malgrado gli occhi così intelligenti, sempre sul punto di sorridere, inclinava al deliquio; ma assistendo con solennità al suo destino. Perciò interrogato, dissimulava, sentendosi peraltro l’esistenza migliorata da quella prigionia che l’alleggeriva del potere. Galleggiava distaccato nei suoi ricordi... Era nato nel 1892, l’ultimo più terribile anno della «Grande Fame», il 23 luglio, mentre la gente cadeva morta per le strade, i contadini abbandonavano i loro campi divorati dalle locuste e dai bruchi, ed un terzo degli etiopi moriva. Il padre, Ras Makonnen, generalissimo ad Adua, chiamò Tafari quel suo figlio tutta testa. L’affidò ad un francescano francese, monsignor Jarosseau, il quale gli scelse come insegnante il mite Abba Samuel, etiope cattolico. Era costui un uomo buono e che raccoglieva con umiltà ovunque il sapere, proprio come l’ape col miele. Consacrato all’amore di Dio e del prossimo cercava le gioie dello spirito e non si curava quindi molto di morire annegato nel lago Aramaio in una gita in barca, ma dopo aver aiutato Tafari a mettersi in salvo. Lo vide arrendersi al cupo gorgo e sparirvi. Così sempre un po’ interdetto, vegliò anche suo padre, il successore di Menelik, e udì i mormorati consigli di lui morente. In esperimento della morte così precoce, tra i principi egli divenne pertanto il più equilibrato. Gli parve inerente al suo restare comunque fermo, aiutare la congiura per la quale gli ambasciatori dell’Intesa nel 1916 deposero l’imperatore Ligg Jasu. La conversione di questo stravagante all’Islam restava dubbia; ma Tafari si compiacque che lo si scomunicasse. Tuttavia mostrò un calmo coraggio nella battaglia che vinse contro gli eserciti di costui. A 24 anni si trovò cooptato in un interregno di intrighi e impotenza. Attese: il 3 aprile 1930 venne proclamato imperatore. Nella sua capitale non c’erano fogne, ed erano iene e nibbi a incaricarsi della nettezza urbana, mentre il tifo esantematico regnava endemico, e i lebbrosi mendicavano. Non di meno il nuovo imperatore si compiacque di avere un campo per le corse dei cavalli e molti archi di trionfo, tra le luride capanne. C’era il telefono, ma non esisteva l’elenco. Ma i ras etiopi presenziarono rasserenati alla incoronazione, in una ventina. Hailé Selassié, per ognuno, aveva fatto forgiare dagli orafi di Regent Street, a Londra, delle corone d’oro. Gli era inconcepibile di sentirsi colpevole di una miseria, panica ed ovvia come le liturgie della sua chiesa. E quanto capirono male gli italiani: non videro che l’Africa a cui Mussolini faceva la guerra invece era un pezzo d’Oriente. Dunque sospesa, fuori dal tempo, impermanente, perciò inconquistabile. Su quelle petraie contava il gesto, era importante per i migliori solo il dare arcaica solennità alla natura, troppo estrema e potente per essere contraddetta. La vita poteva là essere solamente una liturgia omerica, epica. Perciò il Negus non obbedì alla ragione dei consiglieri occidentali, che gli consigliavano la guerriglia contro Badoglio nel 1936 vincitore. Lui Negus Neghesti, duecentoventicinquesimo imperatore d’Etiopia, Eletto di Dio e Leone di Giuda scelse la battaglia campale. A Mai Ceu i suoi trentamila strisciarono fino alle posizioni dov’erano altrettanti nemici, meglio armati. E all’alba del 31 marzo 1936, da buche e crepacci, gli abissini s’arrampicarono verso le trincee degli alpini della Pusteria e gli eritrei. I battaglioni della sua guardia imperiale assaltarono all’arma bianca; per poco non sfondarono. Hailé Selassié, disceso nella pianura, disperato mitragliò il nemico, e i caccia degli italiani non lo colpirono. Era fervido, nel corpo esile però impassibile, compreso in una sua grazia, resistente a tutto, persino ai carnai di quella guerra. Che senso ha rimproverare a un’anima com’era la sua di non aver fatto poi la riforma agraria? O di aver ricostruito le élite etiopiche col solo criterio della lealtà personale? Trascurò difetti, incompetenze, corruzione, ma pure mischiò shohani ed eritrei, resistenti e collaborazionisti di Mussolini, appunto da re arcaico, perciò epico. Costrinse pertanto suo figlio Asfa Wossen a mettersi un pietrone sulle spalle in segno di sottomissione per aver assentito al colpo di Stato che gli fu tentato contro nel 1960. E fu sempre per sua volontà che il cadavere del responsabile venne esposto, appeso sulla forca, davanti alla cattedrale di San Giorgio. Hailé Selassié, morì soffocato nel letto la notte del 26 agosto 1975 da un generale, progressista; dunque malvagio davvero e soprattutto privo della sua sorpresa grazia solenne. (3. Continua) Geminello Alvi
• Andare alla guerra come alla pace. Il Giornale 15 luglio 2007. I denti davanti spezzati da una punta di lancia peggioravano quel coraggio senza pietà che emanava dal viso di Sokaku Takeda. E chiunque avrebbe errato a sottovalutarlo. Giacché costui era sì un esile vecchio, alto non più di un metro e cinquanta, ma anche il maestro più temuto del Daito Ryu, il più micidiale dei circa centocinquanta non miti sistemi di ju-jitsu del Giappone. Bambino, egli aveva vagato tra i cadaveri degli ultimi samurai in rivolta; e non si contavano gli uomini da lui uccisi, o gli allievi storpi. Per la qual cosa prima di mangiare, pretendeva sempre che un altro l’assaggiasse. Viveva nell’Hokkaido più selvaggio, dando lezioni e diplomi retribuiti, il che significava esibire le sue tecniche, che con uno sguardo, uno solo, gli allievi dovevano carpire. In cambio erano tenuti a massaggiarlo, servirlo in tutto, nutrirlo e pagarlo oltremodo. Anche il trentaduenne Morihei Ueshiba, di pochi centimetri più alto, ma con identica determinazione, considerato ch’era il suo migliore allievo. Sokaku Takeda era capace di meraviglie misteriose e però più pratiche di quelle che Jigoro Kano aveva organizzato nel Judo. E infatti un primo gigante volò per aria appena prese Morihei per un braccio; gli altri già in corsa si videro sfiorare la pancia, e caddero come querce. Takeda stirò le labbra, parve ancora più cattivo. Invece era contento. Si era applicato il principio «affrontate un singolo avversario come ce ne fossero molti, molti come uno solo». Morihei a sua volta gli si inginocchiò davanti, impassibile, ma pervaso d’inquietudine, malgrado la splendida prova. Fuggì nella foresta dove però temprarsi sotto le acque gelide delle cascate non lo quietò. E se ne andò lasciando a Sokaku casa e beni, tutto. Morihei Ueshiba era nato il 14 dicembre 1883 a Tanabe, dove le montagne, le fonti e l’incantevole mare interno fanno dire ai giapponesi che là dei e uomini divengono tutt’uno. Figlio di un ricco mercante, aveva la madre imparentata al clan dei Takeda. Non si curò che fosse la parte dei vinti; iniziò a studiare le arti marziali. Nel 1902 si sposò. Nella guerra russo-giapponese venne assegnato alla polizia militare: ben perito nell’uso della baionetta, trafisse banditi cinesi.Maabituatosi da bambino alle visite ai templi, pure se all’occorrenza feroce, non amava la guerra. Era estatico; ed avversò il sequestro delle proprietà eccedenti dei templi mettendosi con Kumagusu Minakata, che parlava una dozzina di lingue, e sosteneva tra l’altro, sacrilego, la non unicità dei giapponesi. Altra follia: con un gruppo di coloni nel ”12 era emigrato nell’Hokkaido. Costruì un villaggio,maincendi e carestie terminarono il suo esperimento. Morihei proseguì tuttavia a praticare le arti della spada e della lotta che sono, se ben intese, una sola cosa; e imparò anche come addomesticare gli orsi. Si accorse che il suo addestramento in quelle misteriosi arti gli generava nel cuore luce, saggezza, calore, compassione. Vi badò più che alle seimila tecniche che le componevano. Ma non fu Sokaku l’ultimo degli stravaganti a cui si votò in vita. Ad Ayabe, vicino a Kyoto, incontrò Onisaburo Deguchi. Del quale difficile è dire ciò di cui non fosse capace: mistico, calligrafo, ceramista, tiratore con l’arco, vestito di broccati e con i capelli agghindati da donna. Dopo una gioventù depravata s’era chiuso in una caverna, dalla quale era uscito illuminato. Anzi riconosciuto capo della Omoto-kyo, corrente shinto con milioni di fedeli alla meditazione chinkon-kishin. Onisaburo predicava la pace, il ritorno a un mondo di eguali, e di agreste purezza. Ma nel 1924 tentò in Mongolia un’avventura proprio con Ueshiba, che lasciò tutto per seguirlo e fondarvi l’umanità perfetta. Impressionarono i mongoli coi loro talenti, misteriosi persino in Tibet. Morihei sopravvisse alla grandine, ai cibi guasti, alle inondazioni, all’ottimismo di Onisaburo, ai corpo a corpo con i tagliagole, e divenne lama. Mani e piedi incatenati, vennero condotti dai cinesi in un campo di cadaveri sgozzati, davanti al plotone di esecuzione. Venne graziato. Ma il vedersi morto gli mancava. Rivide come un neonato la bellezza scintillante del mondo. Al ritorno si distaccò da Onisaburo. Era la primavera del ”25 quando Ueshiba si trovò a essere sfidato da un grande maestro di Kendo, lo mise fuori misura costringendolo all’ossequio, quindi alla resa. Dopo di che andò in giardino per asciugarsi all’ombra. Ed ecco quanto ne narrò. «La terra tremò, un vapore dorato fuoriuscì dal terreno, mi avviluppò trasformato in immagine dorata, leggero come una piuma, potevo capire il linguaggio degli uccelli. Compresi che la via del guerriero deve manifestare l’amore divino che abbraccia, nutre tutto. Lacrimedi gratitudine e gioia scesero lungo le mie gote. La terra era la mia casa, il sole, la luna, le stelle erano miei amici intimi». A quei tempi non era infrequente che si venisse uccisi o almeno storpiati, se sconfitti. L’invitto Morihei invece non causò più serie lesioni. Giudicando che vincere era dissolvere prima il conflitto interno, e ferire un avversario era ferire se stessi. Perciò proiettava con un sorriso assente e le sue vittime si sentivano atterratema galleggianti su una nuvola. Gozo Shioda, tra i suoi allievi più collerici e grevi, non facile ai misticismi, spergiurò di averlo una volta visto in un poligono farsi sparare e quindi schivare le pallottole. Ueshiba sostenne di poterne vedere la luce. Fuprotetto dagli ammiragli e aristocratici, suoi allievi; e anche il fatto di essere considerato il migliore matroppo mite, lo salvò dall’essere arrestato. Per parte sua egli applicò alla dittatura il principio: se l’avversario tira, lasciatelo fare tutto ciò che vuole e non sarà in grado di afferrare niente. Per la guerra tuttavia soffrì al punto di ammalarsi, ma aveva un kiai, un vigore d’urlo capace di far cadere gli uccelli in volo. Del resto la voce in armonia con il respiro cosmico è un’arma davvero potente. Il respiro lega all’universo, e Ueshiba assorbiva il cielo nell’addome come il flusso e il riflusso della marea. Guarì anche ritemprandosi in commercio vitale sulle punta delle dita con le querce. E nel 1940 ebbe un’ulteriore visione. Si sentì di avere obliato tutte le arti che aveva imparato: le rivide però tutte, in un sogno desto trasformate in una nuova arte. Si trasferì nel ”42 a Iwama, borgo rurale, per allenarsi, pregare e coltivare la terra. E fu là che iniziò a chiamare la sua scuola Aikido, arte che abbraccia e purifica, insegnando a guardare la morte in faccia, e fondersi totalmente con chi vuole procurarcela. Dopo la guerra apparve in due programmi televisivi, uno giapponese e uno americano. Il viso era sempre austero, ma non più feroce; i capelli bianchi fluenti gli oscillavano come la barba mentre con un sorriso beatifico vinceva chiunque. Il suo dojo a Tokio venne visitato da membri della famiglia reale, politici, sacerdoti, uomini d’affari, maestri marziali, attori Kabuki, scienziati. La luce illumina tutto, aureola fiammeggiante, o leggero fulgore. E perciò venne premiato con solennità dall’imperatore, e morì il 26 aprile 1969 ottantaseienne, a Tokio ed armoniosamente. (4. Continua) GEMINELLO ALVI
• Il mattatore della guerra spettacolo. Il Giornale 15 luglio 2007. La vita d’attore di Buffalo Bill era iniziata nel 1872. Da almeno tre anni libretti come quelli di Ned Buntline, con il collo storto da un’impiccagione fallita, davano al ventiseienne William Frederick Cody il privilegio di vivere nell’epica di se stesso. Ma non vi badava, né s’era montato la testa. Era splendido a cavallo; protetto dalla barbarie, che gli rendeva ovvio spedire alla moglie gli scalpi di indiani uccisi in duello, inorridendola. Ma andare a caccia non fruttava, né poteva vendere la splendida pelliccia che il Granduca Alessio gli aveva donato. E i ricconi dell’Est da portare nelle praterie scarseggiavano, quando arrivò la lettera di Buntline che gli offriva di diventare attore. Alla moglie disse di accettare per mantenere la famiglia. Ma a deciderlo fu il contorno più infantile della celebrità: la gozzoviglia. Banchetti di femmine educate, ma lascive, che finalmente gli davano sempre e solo ragione, tra aranciate etiliche, salcicce mandorlate al cioccolato e amicali sbornie estatiche. Il Buntline ornato di medaglie era arrivato nel 1872 a Chicago deciso a divenirvi agente di assicurazione contro gli incendi. Ma un tale gli aveva chiesto di assicurare un cadente salone, fatto d’assi e tetto telato. Buntline rifiutò accortamente. Ma si convinse che lì poteva iniziare il trionfo teatrale suo, di Buffalo Bill e di Texas Jack Omohundro, altro esagitato. Così Buffalo Bill arrivò a Chicago, rinunciando al non lucroso seggio nel parlamento del Nebraska. Ma da subito Buntline ci dovette litigare. Dov’erano i venti pellerossa che Buffalo Bill doveva portare? E del resto neppure Buntline aveva scritto una sola riga di copione. E mancava una settimana alla «prima». Ricopiò un testo già plagiato. Tuttavia né William Cody, né l’analfabeta Texas Jack, tantomeno Buntline, avevano mai recitato. Pensò d’ingaggiare l’italiana signorina Morlacchi, e a lei toccò la parte di Occhio di Tortora. Per rimediare all’assenza di indiani ingaggiò la feccia dei quartieri bassi. Ecco come la signora Cody annotò le prove in camera d’albergo: «Dall’esterno si udivano suoni simili ai brontolii provenienti da una tana di animali selvaggi. Ogni cinque minuti i camerieri attraversavano la hall con brocche di ghiaccio tintinnante, porgevano le bibite attraverso la porta, e se n’andavano inquieti». E infatti Buffalo Bill al debutto era emozionato, malgrado l’alcol ingurgitato. In scena non gli venivano le battute. Buntline non si scoraggiò, ripeté più volte: «Sei stato a caccia di bisonti con Milligan vero?». Il tutto evolvette a intervista. Finché col tempismo di uno schizofrenico in manicomio, gli venne di gridare: «Gli indiani ci attaccano!». Arrivarono gli scioperati del quartieri poveri in mutandoni e dipinti. Buffalo Bill si riprese, sparando. Ma venne fatto prigioniero dagli indiani. Buntline aveva a quel punto inserito un linciaggio; torturato ad un palo, si votò poi a un’orazione sulla temperanza. Ed intanto Buffalo Bill s’era liberato e catturava gli indiani con il lazo. Per quanto al calo del sipario esplodesse un’ovazione, il Tribune di Chicago diede sintesi dell’evento deprecandolo. A St. Louis la replica fu rovinata da un giudice che arrestò Buntline per atti di sovversione commessi un anno prima. Giudicando che Buffalo Bill, solo per il fatto di avervi a che fare, meritasse identica sorte. Usciti di prigione non ci tornarono neppure quando un attore, che recitava la parte di Lupo Grosso, morì in scena, in una mischia per eccesso di realismo. Ma a New York fu il trionfo. Passarono più di trent’anni. E che privilegio ancora nel 1913 era vedere Buffalo Bill, invecchiato e però vestito di camicioni fioriti, fibbie smisurate, stivaloni, mentre sfilava molto più che sessantenne nel corteo del suo circo! Da cavallo salutava ruotando il cappello in aria, esibendo pizzo e capelli argentei, credulo, leale, prodigo, capriccioso, modesto, come una volta; ma depresso. A prostrarlo non erano le palle di vetro mancate nell’arena. Ma il prestito di ventimila dollari non ridati al grassoccio, odioso ex barista, Mr Tammen, il quale a garanzia gli aveva estorto il circo. Non gli restavano che ipoteche e il perfido scritto che costui l’aveva costretto a firmare. Esso lo vincolava a non bere più di un litro di whisky al giorno. Perciò a Kansas City, davanti al manifesto di Bronco Billy, attore cinematografico di western, Buffalo Bill non vagheggiò i monti lontani e violacei, ma molto, molto denaro. E in quel desiderio si sentì illuminato: non più arene polverose, e il dileggio. Ma il cinema. E al cinema: il suo duello con Mano Gialla, la morte di Custer, la danza degli spettri, Wounded Knee. Assieme a Tammen visitò Broncho Billy. Ottenne che la sua Essanay, prima casa cinematografica degli Stati Uniti, approvasse l’impresa. Del resto Broncho sin da bimbo era un suo tifoso e gli concesse un terzo dei profitti. Così l’Essanay si decise per un film su quella che ancora era chiamata battaglia, e non massacro, di Wounded Knee. Non fu troppo complicato persuadere il Dipartimento della Guerra a fornire truppe di cavalleria ed equipaggiamenti per il film. Il segretario degli Interni concesse persino di usare gli indiani della riserva di Colorado Springs, per rifare la battaglia di ventitrè anni prima con gli stessi attori. Buffalo Bill in riva al fiume Wounded Knee Creek, dove aveva installato i villaggi indiani, montò una giostra per rallegrare adulti e bambini. Il tenente generale in pensione Nelson A. Miles, che era al comando durante la battaglia, non si vergognò di ripeterla. Furono scritturati altri ufficiali. Tra i capi indiani c’erano Toro Corto, Coda di Ferro, che era già stato salariato nel Wild West Show, e Senza Collo. Un problema fu la megalomania degli attori che, indiani o soldati, insistettero in pose ostentate. Ma il peggior affanno lo provocò il generale Miles che reclamava maniacale precisione e che la battaglia venisse ripresa dov’era avvenuta; quindi sul sacrario delle ossa di molti indiani morti. L’idea provocò la rivolta degli indiani vivi. Ma Buffalo Bill, stremato, li assicurò che almeno il film avrebbe loro reso giustizia, narrando quanto davvero era stata Wounded Knee. Credette di quietarli: invece arrivò il capo Coda di Ferro, a dirgli che il giorno dopo i più facinorosi avrebbero usato proiettili veri, non quelli a salve: la seconda battaglia di Wounded Knee sarebbe stata una vittoria indiana. Solo riunendo a mezzanotte un consiglio di indiani, s’evitò una strage. Ma l’ultima recita di Buffalo Bill, e la più sobria, fu quella del gennaio 1917, quando lo misero a letto e ce lo lasciarono. Appena chiese quanto gli restava da vivere risposero: non più di trentasei ore. Buffalo Bill allora chiamò il cognato, e gli disse: «Non pensiamoci, e facciamo una partita a carte». Si concesse, evitando di cedere alla moglie che voleva chiamare un prete, una morte da pagano. E nella bara di bronzo i capelli argentei ricadevano sulle sue spalle quadrate: era ancor lui il più bello. Una delegazione delle sue amanti, obese non solo dai ricordi, sedette intorno alla tomba e vegliò la bara accanto alla moglie. E appena il vetro, da cui si vedeva ancora il suo bel viso, cominciò ad appannarsi, una delle signore s’alzò: rimase regale col parasole di raso nero, ben fermo a ripararlo. (5. Continua) Geminello Alvi
• Lo storico del «complotto anglofilo». Il Giornale 29 luglio 2007. Carroll Quigley nel 1966 per la prestigiosa Macmillan di New York pubblicò un tomo di 1348 pagine: Tragedy and Hope. Libro di una erudizione sconfinata, nel quale tra l’altro si prevedeva che la Cina avrebbe, dopo il 2000, rappresentato un problema maggiore della Russia. Se i puntigli e l’intento universale potevano far dire Quigley lo storico americano forse più simile a Spengler, ben altra era la sua praticità. Il nostro insegnava alla Georgetown University, era stato professore ad Harvard e a Princeton. Per la qualcosa quanto si lesse nel suo libro fece più impressione. Il professore ammetteva infatti l’esistenza di un network, di una rete di insider che avrebbe pilotato i destini del mondo: «Esiste ed è esistito per generazioni un international Anglophile network... Sono a conoscenza delle azioni di questo network, perché l’ho studiato per vent’anni e per due anni nei primi anni Sessanta mi è stato concesso di esaminare le sue carte, i suoi incartamenti segreti». Se ne distingueva, è pur vero, per avere obbiettato all’idea che l’Inghilterra non dovesse federarsi all’Europa. «Ma la mia principale differenza d’opinione è che esso desidera restare sconosciuto; mentre io credo che il suo ruolo nella storia sia stato tale da dover essere conosciuto». Seguiva un elenco di nomi obliati, ma i più importanti nella finanza e nella politica: «La branca newyorkese era dominata dagli associati della banca Morgan». A loro obbediva il «Council of Foreign Relations». E tra loro v’erano Allen e Foster Dulles, Russell Leffingwell, i Whitney, Douglas Dillon, Thomas Lamont. Lazard Brothers, la Morgan & Co., i Rockefeller la sostenevano materialmente. Essa aveva in Inghilterra il proprio ispiratore in Cecil Rhodes. Comprendeva Lord Milner, Curtis, Lord Lothian, e disponeva dell’esclusivo The Round Table Magazine e del «Royal Institute of International Affairs». La branca americana «estendeva la sua influenza attraverso... il New York Times, l’Herald Tribune, Christian Science Monitor, il Washignton Post...». Non c’è evento del ”900, in cui non ricorrano del resto questi nomi. E altri storici ammettono che la politica estera degli Stati Uniti fu appaltata ai soci della Morgan o agli Harriman. Ma Quigley sosteneva che v’era un fine ulteriore rispetto a quello di far denaro. Quale? Orientare gli eventi così da favorire la Anglosaxon Idea, uniformarvi il Secolo. Spregiudicatezza, commerci con Hitler o complicità coi comunisti, ne sarebbero stati non il fine, ma i mezzi. Gli italiani disputano dal liceo d’ideologie di sinistra e quindi di una storia provinciale e finta. Hanno ingigantito l’inessenziale, e figure di terza fila. Banalità fuorvianti, cimeli sentimentali, dispute esauste. Ecco la storia che piace agli italiani. Della storia americana sanno ben poco, se non banalità da rotocalco su Kennedy che piegano però ai loro tifi casalinghi. E che questi nomi dicano loro assai poco è prevedibile. E invece appunto sono tutti gli uomini che hanno fatto il Novecento quanto è stato un Secolo Americano. Comunque sia a scrivere frasi come quelle di Quigley sono anche in America per solito stravaganti, pasticcioni incolti. Egli era invece un’autorità. E quando un ex ufficiale della FBI, W.C. Skousen, gli chiese il permesso di pubblicarne alcune parti, Quigley avvedutamente rifiutò. Costui, incurante, le copiò in un volumetto: The Naked Capitalist. Ne vendette un’enormità. Nel frattempo il libro di Quigley era divenuto introvabile nelle librerie. Allen reiterò il successo miliardario con Not Dare Call It Conspiracy. Ma altri pratici effetti e verifiche il libro intanto li otteneva lo stesso. Studente alla Georgetown University, Clinton, proprio lui, nel 1964, scriveva ad una amica: «Non ci crederai ma i professori vogliono che io mi candidi per una borsa di studio della Rhodes Foundation ad Oxford». Non credeva lì per lì di avere molte chance. Ma, aiutato da Quigley e Fulbright, a sua volta Rodhes Scholar, l’impresa riuscì. Spiega il suo amico Harold Snider: «Bill e io trovavamo Quigley affascinante, elettrizzante e brillante. Ci incoraggiò ad andare in Inghilterra per studiare ancora. So che scrisse delle lettere di raccomandazione per noi due e fu orgoglioso e contento che ambedue saremmo andati a Oxford. Il Professor Quigley fu il nostro mentore e il nostro amico. Lasciò un’indelebile impronta nelle nostre vite». Tutto questo accadeva negli anni 1966-67. Era appena uscito Tragedy and Hope, e il giovane Clinton nel 1968 veniva reclutato in quella Rhodes Foundation che era ad Oxford il fulcro inglese del network anglofono da lui descritto. E del resto Clinton, uscito da Oxford, e divenuto governatore, mise a frutto le idee più spregiudicate di Quigley. Frequentò i salotti di Pamela Harriman e i moderati del DLC, Democratic Leadership Council, emanato dal suo ambiente. E così nel 1990 un articolo di Time spiegava: «Clinton è l’uomo perfetto per un’organizzazione che celebra l’etica del lavoro dell’uomo della strada, mentre dipende interamente dai cinquecento di Fortune per i suoi fondi». Il 6 novembre del 1992 divenne quindi presidente del DLC. E la Harriman, intervistata dopo le elezioni, disse di Al Gore e di Clinton: «Li ho scelti, invitati da noi e con loro abbiamo parlato...». Nel ”93 sarà nominata ambasciatrice in Francia. Ma i suoi titoli erano altri. Pamela, inglese, era stata sposata col figlio di Churchill. Viveva a Downing Street ed Harriman la frequentò lì durante la guerra. Poi, rimasti vedovi si sposarono, ottant’anni lui, cinquanta lei. A sua volta Averell Harriman, nato da un magnate delle ferrovie, aveva fondato nel 1920 col fratello Roland una banca d’investimento. Loro partner era Prescott Bush, padre di George Bush. Ma si dedicò anche alla politica. Una foto lo ritrae tra Churchill e Stalin al Cremlino. Diverrà una tra le più influenti personalità della politica estera dell’establishment. Nel luglio del ”47 lui e i suoi amici del «Council on Foreign Relations» elaborano la strategia del Containment. Walter Isaacson e Evan Thomas, nell’autorevole libro The Wise Men, scrivono: «Persone come Acheson, Harriman, Lovett... e Kennan, ognuno le sue macchie e i suoi errori; da solo nessuno di loro avrebbe potuto pilotare il Paese verso il suo nuovo ruolo di superpotenza. Ma riunito questo piccolo gruppo di uomini possedeva la giusta mescolanza di fantasie e talenti...». Esempio perfetto di network anglofono, come quelli elogiati da Quigley. Senza del quale del resto è difficile capire anche il libro di Samuel P. Huntington. Nel suo famoso articolo dell’estate 1993 e nel libro successivo, noi torniamo del resto a un intento storico che è lo stesso di Quigley. E infatti in The Clash of Civilization and the Remaking of World Order gli studi di Quigley sulle civiltà sono tra i più citati. Ritorna la storia letta secondo la griglia di Rodhes e delle élites anglofone, quella di sempre. Huntington riporta le tesi di Quigley secondo cui le civiltà attraversano setti stadi il cui culmine è l’impero universale. Più avanti la applica. «L’Occidente sta sviluppando l’equivalente di un Impero Universale sotto forma di un complesso sistema di confederazioni, federazioni, regimi e altre istituzioni cooperative...». L’euro e la Ue, insomma, ridotti a inoffensivi modi per articolare l’impero anglofono. L’altro storico assai citato nel libro è Arnold J. Toynbee, che nel 1922, esaminò il formarsi e il decadere di 26 civilizzazioni. Ne dedusse che s’erano formate nella leadership di minoranze creative composte da élites di leader. Direttore del RIIA e più tardi del Foreign Office, riteneva il mondo plasmato dalle forze dello spirito e non dell’economia. Era del resto il nipote dell’omonimo economista del XIX secolo, intimo di Lord Milner e Rhodes, poco prima che organizzassero la loro secret society. E a cui costoro dedicarono la Toynbee Hall. Altre ricorrenze, delle quali neppure il lettore dovrebbe più sorprendersi. L’impero universale ormai esiste e parla inglese. Non solo, tutta la storia si sta riconfigurando secondo schemi culturali. I Club anglofoni, le loro aristocrazie hanno del resto sempre pensato in termini di civilizzazioni; mai di ideologie. (6. Continua) Geminello Alvi
• Andò nel pallone per la bella reporter. Il Giornale 5 agosto 2007. A sessantuno anni Jules Verne aveva già vissuto tante vite, finte, e forse perciò più vere, negli abissi del mare, della terra o del cielo. Tuttavia ne ritrovò un’altra, obliata nel cassetto dov’era il ben strano manoscritto Paris au XX siècle. Lo aveva concluso nel 1863, venticinquenne, dopo Cinq semaines en ballon e Les Anglais au Pole Nord, inviandolo subito al suo editore Hetzel. Rigirò tra le mani, indugiando la lettera di risposta di costui. Ne disvolse la carta ingiallita, rilesse: «Sono desolato di quanto devo scriverle... consideri un disastro per il suo nome la pubblicazione di quest’opera. Farebbe pensare che Cinq semaines en ballon sia stato solo un colpo fortunato. Lei non è maturo per questo libro; lo rifaccia tra vent’anni...». Di anni ne erano passati più di venti, ma come non convenirne? Il consiglio di Hetzel era stato perfetto. Quel suo scritto descriveva una Parigi di cinque milioni di abitanti; ferrovie e viadotti; immane ragnatela di fili elettrici e pubblicità a lettere di fuoco; uffici con telegrafia fotografica. Non gli piaceva, e perciò, capì, non poteva piacere neppure ai lettori. Rilesse una frase del protagonista, Jacques: «Questo mondo non è altro che un mercato, un’immensa fiera». Insomma aveva previsto e biasimato un mondo di fretta economica, nel quale il desiderio di viaggiare, arricchirsi uccideva i sentimenti. La ricerca di avere meno figli vi regnava generale; il matrimonio era evoluto a eroica inutilità, la fretta aveva rovinato le donne. Ma non volle ripensarci. Lo rinfilò nel cassetto, e andò alla stazione. Nel 1889 un uomo sessantunenne aveva ancora il privilegio di poter apparire vecchio, e quindi reso solenne dai capelli color neve. Inoltre Verne, più alto del suo metro e settanta, emanava quiete. Una barba bianca gli contornava la bocca, e nuvole di aria respirata contornavano il mazzolino di fiori ch’egli reggeva goffamente in una mano. Arrivò sotto le volte della stazione di Amiens e attese. Trepido, come i vecchi che s’emozionano non meno dei bambini, neppure badava alla moglie che pareva più vecchia di lui, ma aveva una pelle di quelle mai esposte al sole, tenera e infantile. La vista del locomotore precedette il gran cigolio sferragliante del treno da cui tra i viaggiatori spiccava una ragazza piuttosto ben formata, ma con un cappellino che un’europea mai avrebbe osato mettersi sulla testa. Eppure quell’anglofono esotismo, il vestito verde a scacchi, il naso all’insù la rendevano come Verne se l’era già immaginata. Lei, che si chiamava Nellie Bly ed era giornalista americana, scendendo era preoccupata che il viaggio non la facesse apparire troppo trascurata. Tacquero sorridendosi, nell’imbarazzo di non parlare la lingua dell’altro. Sfilò, comunque incuriosita dai negozi, in carrozza, fino alla casa di Verne dove il cane nero la festeggiò esageratamente, facendola inciampare davanti al celebre scrittore. Entrarono poi nello splendido giardino d’inverno. E la Bly si meravigliò del bel contrasto con cui il colore di tanti fiori esaltava sopracciglia e barba di quel vecchio entusiasta. Impaziente delle domande e risposte che l’interprete, intanto arrivato, doveva tradurre, Verne spiegava: «Io mi sforzo di tenermi al corrente di tutto quello che succede negli Stati Uniti e sono felice delle centinaia di lettere che ogni anno ricevo dagli americani che mi leggono. E non so immaginare nulla di più desiderabile che di visitare l’America tutta, da New York a San Francisco». Però imbarazzandola gli spiava la caviglia. Elizabeth Cochrane, questo il vero nome dell’americana, era nata in Pennsylvania venticinque anni prima, graziosa con insolenza e pratica per quant’era volitiva, era pronta a tutto. Tanto che un anno prima non aveva temuto di farsi rinchiudere per dieci giorni in un famoso manicomio sull’East River, pur di farne un resoconto per The New York World. Era questo il giornale che Lord Joseph Pulitzer possedeva a New York, in concorrenza perpetua con gli altri quotidiani. E per stupire ancor di più, il 14 novembre del 1889, era apparso in prima pagina un titolo inconsueto: «Il gran sogno di Jules Verne può divenire realtà?». E di seguito la spiegazione: «A migliaia avete letto del giro del mondo immaginario che Jules Verne, questo principe dei sognatori, ha fatto fare al suo Phileas Fogg in ottanta giorni. Oggi alle nove e trenta la ben nota Nellie Bly, partirà per un periplo del mondo che durerà meno d’ottanta giorni». Così dal giorno dopo il The New York Word prese con ritmo a spiegare di treni mancati e poi ripresi e di naufragi evitati per miracolo. Il 22 novembre titolava «Nellie Bly sull’altra costa dell’Atlantico», spiegando: «Visita a Jules Verne in Francia; se ci riesce senza perdere troppo tempo». L’inciso finale, scortese, trascurava, che proprio il giornale della Bly, per calcolo pubblicitario, aveva brigato affinché Verne invitasse ad Amiens la forsennata. Frettolosa, ma lusingata per l’attenzione che ad arte Verne le ostentava, la Bly gli spiegò il suo itinerario: da Amiens a prendere la nave che da Calais la porterà a Brindisi, quindi l’imbarco per Porto Said, Ismailia, Suez, Aden, Colombo, Penang, Singapore, Hong Kong, Yokohama, San Francisco, New York. Quando Verne, deluso, le domandò perché non passasse per Bombay come il suo eroe Phileas Fogg, rispose: «Ho più voglia di guadagnare dei giorni che di salvare una giovane vedova». «Ma forse», le replicò Verne, «salverete un giovane vedovo prima del vostro ritorno». L’americana sorrise ostentando disinteresse. Quindi visitò la stanza dove Verne scriveva. Era stretta, appena illuminata da una finestrella, disadorna: sulla scrivania, in bell’ordine, giacevano vari manoscritti che lui le mostrò. Ella s’accorse che v’erano molte cancellature, ma neanche un’aggiunta. A conferma che la più disadorna austerità eccita la fantasia. La Bly persino riuscì malgrado e contro tutti a prendere il treno italiano che ovviamente ritardò, fino a Brindisi. E il 26 gennaio 1890, tutta la prima pagina era solo per lei. «Record battuto, migliaia urlano a New York fino a perdere la voce per accogliere Nellie Bly, che ritorna in settantadue giorni, sei ore, undici minuti dal giro del mondo, la nazione tutta raggia entusiasta fervore». Un altro titolo segnalava le felicitazioni di Verne. Al corrispondente di The New York World a Parigi, la quieta Honorine, moglie del maestro, si disse a sua volta felicissima del successo della Bly: «Non fosse perché adesso mio marito si calmerà». Dal giorno di quella visita Verne aveva trascorso il tempo a infilare spilli sulle carte geografiche. E confidò che volentieri, fosse stato giovane, avrebbe accompagnato la Bly. Fu allora che l’anziana signora Verne s’indispettì e mormorò noiosa: «Cela ne m’aurait pas plu du tout». (7. Continua) Geminello Alvi
• Il paleontologo della teologia. Il Giornale 12 agosto 2007. L’ascetico quarantacinquenne, che vagava nel 1926 attraverso le foreste di Hong Kong, emanava la compitezza seducente e ricca della vecchia Francia. Districava i bambù con delicato charme aristocratico e pareva ancora il signore della magione dov’era nato in Alvernia. Invece era gesuita, ma senza tonaca alla ricerca di fossili, essendo uno dei più eruditi paleontologi del mondo. Scostato un intreccio di cespugli, si vide davanti lo squallido paesaggio di una foresta bruciata per far posto all’albero della gomma. Chiunque, e forse pure lui che aveva gran bontà nel cuore, ne sarebbe divenuto furioso, o almeno inconsolabile per lo scempio ecologico. E invece proprio quella desolazione a lui pareva la conferma di quanto da tempo aveva inteso nelle sue ricerche: «Stiamo assistendo alla nascita di una nuova zona di vita attorno alla Terra, e sarebbe assurdo rimpiangere la scomparsa d’un antico strato che deve cadere...». Da quella ossessione per i fossili e le pietre che l’aveva posseduto sin da bambino Pierre Teilhard de Chardin aveva dedotto infatti una potente teologia. Alla sua percezione di mistico, e però anche di scienziato, pareva in atto un convergere della natura e degli Io, straziante solo a obliarne l’esito. Il Cristo dava modo all’umanità di portare a riunione la Terra in superiore coscienza. Mentre l’emanazione della Natura creata si disfaceva, una noosfera umana compiva via via la Terra in un Corpo di Gloria che era il suo fine. L’evoluzione era insomma il complicarsi di tutti i nessi di vita nei quali però poteva riconoscersi una tendenza unitiva, verso il punto Omega: l’Apocalisse che implicava il compimento del fenomeno umano. Estasi, abbraccio conclusivo del Cristo ad Adamo che Teilhard vedeva scritto negli strati fossili come nei destini. In Cristo «la materia... prende coscienza di sé solo in noi». Questa mistica della materia l’aveva posseduto del resto sin da giovane, quando in devozione a un ritratto del Sacro Cuore, ne aveva visto dissolvere i contorni. Come se «la separazione tra il Cristo e il mondo circostante si fosse trasformata in una fascia vibrante in cui tutti i limiti si confondevano... vi passavano scie fosforescenti, che rivelavano un loro continuo sgorgare di vita fino alle sfere estreme della Materia». Al noviziato presso i gesuiti ad Aix en Provence nel 1899, dodici anni più tardi era seguita l’ordinazione nel Sussex. Giacché gli studenti gesuiti s’erano dovuti esiliare in Inghilterra sotto la Terza Repubblica. Ma nel frattempo aveva applicato tutte le sue altre energie alle scienze naturali. Anche in Egitto dove insegnò dal 1905 per tre anni. E fu in quest’Oriente bevuto avidamente nella sua luce, e nei suoi deserti che sentì di potersi tuffare in Dio per mezzo della Natura. Nel 1912, lavorò al laboratorio di paleontologia del Muséum d’Histoire Naturelle di Parigi e ad Altamira in Spagna. Ma poi arrivò la grande Guerra e Teilhard venne mobilitato come infermiere in un reggimento coloniale. Una medaglia al valore e il cavalierato della Legion d’onore, premiarono il suo coraggio. Dopodiché proseguì gli studi alla Sorbona e prese tre lauree in geologia, botanica e zoologia. Maître de conférence a Parigi, dottore nel 1922, finì a Tien Tsin, dove per due anni partecipò alle massime scoperte paleontologiche di quegli anni. Fu quando nel deserto di Ordos in Mongolia scrisse La Messe sur le Monde. Che riprese poi nelle conferenze che tenne a Parigi agli allievi della scuola Normale e del Politecnico. Gli uditori furono entusiasti, e i testi delle sue conversazioni iniziarono a circolare sotto forma di dattiloscritti. Alcuni teologi di Lovanio gli chiesero però di redigerle. Così nel 1925 scrisse alcune pagine in cui sostiene la necessità di stabilire un accordo tra il dogma del peccato originale e le nuove scoperte della paleontologia. Bastò perché il testo arrivasse a Roma e lui venisse pregato di lasciare la sua cattedra di Parigi per ritornare in Cina. Eppure era a ben vedere insensato sospettare Teilhard de Chardin di darwinismo. Darwin era stato moderno perché, dicendo d’Adamo che era una scimmia specializzata, aveva fatto divergere dall’uomo la cosmicità divina. Col darwinismo veniva ripudiata ogni sapienza, che permettesse di veder convergere la Terra in un Adamo divino. Teilhard de Chardin invece era importante, perché nella materia riscopriva un movente unitivo, un convergere dell’umano e della Natura: il Cristo era il fine della materia trasmutata dagli uomini, redenta. Per vent’anni in Cina proseguì a studiare nei fossili le onde di questa sua materia sempre meno distinguibile dallo spirito. Notevole una lettera del 1927: «...vedo crescere la possibilità di un’altra ipotesi: che i cinesi cioè siano dei primitivi arrestati, degli ”infantili” la cui stoffa antropologica sarebbe inferiore alla nostra... la loro massa emana una insuperabile forza di livellamento e di ”dissoluzione”. Tra loro, tutto ciò che tende a elevarsi viene immediatamente riportato a zero. Tutto ciò che vive a lungo in mezzo a loro è psicologicamente sminuito, snervato. Ho una buona mezza dozzina di amici che non sembrano corrispondere a questo modello, saranno forse individui eccezionali, terminali». Studiò accuratamente la storia dei mammiferi nella Cina del Nord e raccolse le prove che il Sinantropo era un Homo faber che praticava il taglio delle pietre e conosceva il fuoco. Ma era solo una delle scoperte che gli diedero fama e onori. La morte della madre e della sorella, nel 1936, gli diede un dolore più grande di quelli che aveva conosciuto in guerra. Vedeva nelle donne una energia luminosa e casta, portatrice di coraggio, ideali e bontà. Applicò questa cavalleria alle molte con cui corrispose, e si sentì unito. Aveva sessant’anni quando lasciò la Cina che stava per patire l’inizio della dinastia di Mao. Un infarto non gli evitò che a Roma gli rifiutassero la pubblicazione del libro Il Fenomeno Umano. Ma i superiori lo stimavano e la Compagnia di Gesù lo considerava un figlio prediletto. E quanto egli vedeva era già smisuratamente più vasto e maestoso di tutte le inerzie e gli ostacoli. Però dovette lasciare Parigi. Dal 1951, visse negli Stati Uniti, ma recandosi in Sud Africa a indagare giacimenti di Australopitechi. L’Africa è il solo continente che permette una collezione completa dei differenti livelli dell’industria litica. Infine si ritirò presso una Fondazione, a New-York, e si vide libero a sorpresa dalla mente. Il 15 marzo 1954, durante un pranzo al Consolato di Francia, Padre Teilhard confidò ad alcuni parenti: «Desidererei morire il giorno della Resurrezione». Agli inizi del 1955 in una lettera il desiderio era già evoluto a quasi certezza: «Se non ho preso abbagli, chiedo al Signore di morire il giorno di Pasqua». E il 10 aprile 1955, in una splendida giornata, dopo aver assistito alla solenne funzione nella Cattedrale di San Patrizio, Teilhard si recò a un concerto, poi a casa di amici. Colloquiò elegante e mite, e sorseggiando il té crollò per un infarto. Era quel giorno della sua morte appunto una domenica di Pasqua. (8. Continua) Geminello Alvi
• I fratelli sempre sul piede di guerra. Il Giornale 19 agosto 2007. Nel 1970, alla partita di apertura dei campionati del mondo, Pelé interruppe l’arbitro per chiedergli di annodarsi le scarpe, ma proprio all’ultimo studiato momento. E così sorridente offrì infantile ai televisori di tutto il mondo il più bel primo piano delle sue scarpe Puma. Affilate, parevano muoversi da sole, e su quei piedi sembrarono a chiunque di una morbidezza che la concorrenza si poteva solo sognare. Fosse davvero poi così importava poco; contava la pubblicità. Come ben sapeva il proprietario delle Adidas: il settantenne Adolf Dassler, Adi con le manone, e quei tratti robusti di chi aveva parecchio lavorato e s’era pure arrabbiato. Come quel giorno davanti alla tv, mentre la concorrenza gli aveva soffiato Pelé. Anzi fosse stata soltanto la concorrenza non gli avrebbe fatto così tanta rabbia. S’immaginava quasi il viso del proprietario della Puma, a fargli il verso. E costui si chiamava Dassler pure lui, ed era Rudolf, suo fratello di due anni più vecchio. Calcolò a più di centomila dollari la somma sborsata dalla concorrenza fraterna per la pubblicità. Ma di certo non minore fu il dispetto che a sua volta Rudolf si sentì d’aver patito dopo che al figlio di Adi riuscì due anni più tardi un colpo mirabile. Far sollevare a Marc Spitz nelle Olimpiadi un paio di Adidas, in una delle sette premiazioni. Insomma, caro lettore, mentre ragazzi sceglievamo l’una o l’altra marca, noi inconsapevoli entravamo in una guerra fratricida. Iniziata a Herzogenaurach, cittadina della Franconia, pure lei ormai divisa in due. Eppure chi avesse visto nei freddi mesi del 1920 i due fratelli Adolf e Rudolf al lavoro, chini coi tre lavoranti a cucire scarpe, si sarebbe commosso. Ogni sera in bicicletta per le strade di quella loro cittadina impoverita pure lei dalla fame del terribile dopoguerra, alla ricerca di pezzi di pelle. Da strappare persino dagli elmi di guerra e dai sacchi vecchi per mutarli in suole o parti delle scarpe. Che prima dell’alba loro erano già lì a cucire in serenità nella lavanderia della madre, che non aveva più clienti. Ma il ventenne Adi ne era certo: il loro era un affare da insistere e comunque c’era ben poco da fare anche per Rudolf dopo cinque anni di guerra in trincea. Era costui più verboso e però più freddo, adatto a convincere i clienti e a vendere, che non Adi, che aveva la tenacia invidiabile del boxeur dilettante che era stato. Egli era anche artigiano migliore e aveva ragione: gli anni Venti colmarono la Germania di debiti ma anche di stadi per le Sei giorni di ciclismo o ogni altra mania sportiva. Perciò anche la società Fratelli Dassler, fondata con cautela il primo luglio 1924, crebbe in misura esponenziale. E crebbero pure i due Dassler che misero su famiglia. Rudolf sposò la giudiziosa Friedl; Adi invece s’invaghì della biondina Kaethe, infantile almeno per quant’era graziosa. Le due erano fatte per non intendersi, s’ingelosirono. Né ad Adolf piacquero sguardi e riguardi che il fratello dedicava a sua moglie, e per i quali la gente spettegolava. Il fastidio si sommò ai primi litigi sul da farsi nella Grande Depressione. Ma quell’eccitazione sportiva, che agli Hitleriti serviva per ipnotizzare la nazione, favorì i Dassler. Ricompose i loro dissidi. Rudolf con seriosità, e Adi con sobria praticità aderirono al regime. Ma la loro vera mania era la morbidezza delle scarpe, l’urgenza di venderne il maggior numero. Perciò, nel 1936, Adi Dassler montò sulla Opel Olympia, luccicante di fabbrica, e virò verso l’autostrada per Berlino, pure lei appena costruita. Aveva con sé una pila di splendide scarpe con ogni cura cucite e incartate, quando arrivò dov’erano gli americani al Villaggio Olimpico. Chiese di Jesse Owens, che in soli quarantacinque minuti alle selezioni americane aveva battuto quattro record del mondo. E si trovò di fronte quell’educato nero aggraziato, che Hitler disprezzava. Ma i Dassler avevano riconosciuto in lui il migliore, dunque quello che aveva più chance di vincere, e fare pubblicità alle loro scarpe. Adi lo persuase a indossarle. Owens vinse le sue medaglie, per il dispetto di Hitler e la felicità dei Dassler, che videro le loro scarpe ottenere fama mondiale. Nel 1939 erano arrivati già a venderne duecentomila paia. Ma la guerra significò pure produzione pianificata; fu loro concesso di produrne non più di seimila paia al mese. E nel ”41 dovettero quasi del tutto abbandonare la produzione sportiva. Fu circa quando il congedo inatteso di Adi sconcertò Rudolf e il litigio tra i due ritornò più testardo di prima. Così nel 1943 durante un bombardamento dentro il rifugio, dove era anche Adi, arrivarono Rudolf e la moglie, e si sentirono dire: «Sono arrivati i bastardi». Per quanto poi Adi pretendesse d’essersi riferito ai bombardieri inglesi, il fratello non gli credette. Incattivito pure di venire richiamato alle armi, lui il più vecchio, in Polonia, mentre Adolf restava in fabbrica. Per ripicca arrivò ad augurarsi che gliela chiudessero. Non avvenne. Ma la fabbrica fu riconvertita per produrre pezzi di ricambio per panzerfaust. Rudolf poi quasi non venne fucilato dalla Gestapo; furono i panzer dell’Armata Rossa a salvarlo, ma non a terminare i suoi guai. Il 25 luglio venne imprigionato dagli americani, accusato di aver collaborato coi nazisti. Neppure gli ordinati istinti dei tedeschi evitarono il caos alla denazificazione. La moglie Friedl lo ritrovò chiuso in cella, ancora più incattivito. Un ufficiale americano gli aveva detto che stava in galera perché qualcuno lo aveva denunciato. Inutile dire chi Rudolf pensava fosse stata la spia. Tuttavia gli americani stavano giovando non poco alla fratelli Dassler. Ordinavano camion di scarpe da baseball e basket. A fine 1945 partì persino la produzione di quelle da hockey su ghiaccio. E infine Rudolf il 31 luglio 1946 fu rilasciato. Subito s’adoprò per nuocere ad Adi come meglio poteva; denunciò che lui aveva gestito la riconversione militare della fabbrica. Ad Adi toccò una multa ingente. Nell’aprile del ”48 inevitabile arrivò la fine della loro società. Pratico, Adolf chiamò la sua parte Adidas, sintesi perfetta del suo nome e cognome. Rudolf tentò di imitarlo, chiamando la sua Ruda. Ma era un troppo eccellente venditore; capì subito che non funzionava. Così il nome evolvette a Puma. Il fiume Aurach iniziò a dividere in due la cittadina e i suoi abitanti che presero l’abitudine di non rivolgersi nemmeno la parola se le loro scarpe non erano quelle giuste. Persino Lothar Matthäus, figlio d’un operaio della Puma, avrà i suoi guai quando una squadra vorrà imporgli le Adidas. Comunque nella spartizione tutta l’amministrazione e il settore vendite furono per Rudolf. La produzione invece si disse per Adi. La rivalità s’estese, non meno feroce, ai campi sportivi. A Zàtopek furono infilate le Adidas, anche se i comunisti gli imposero di togliere una striscia. Però le scarpe da pallone di Rudolf erano più eleganti. Tuttavia, nel 1954, al suo trionfo mondiale, la nazionale tedesca indossava le Adidas, coi tacchetti svitabili. La rivalità feroce s’estese ai figli e i due persino morirono senza rappacificarsi. Può dirsi pertanto non trascurabile particolare che la Nazionale italiana agli ultimi mondiali abbia indossato le scarpe della Puma, e non le altre. (9. continua) Geminello Alvi
• Il Giornale 26 agosto 2007. Il 24 luglio 1802 emersi dal parto nerastro, e quasi strangolato dal cordone ombelicale emisi un gorgoglio, respirai, evolvetti al viola. Per il sollievo di mia madre, la quale due mesi prima s’era fermata al teatrino delle marionette dove Pulcinella era tirato all’inferno da un diavolaccio, che l’aveva impressionata. Tanto da convincersi che gli sarei assomigliato.
Ma, per essere bruno, non avrei avuto bisogno del diavolo. Quel cinque di Termidoro nell’altra stanza c’era infatti anche mio padre, il quarantenne mulatto Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie. Colosso, nato a San Domingo dalla schiava Marie Cessette-Dumas, amante del marchese Davy de la Pailleterie. Mio padre, dragone di un metro e 95 ed epico gigione, divenne generale di divisione nell’Armata d’Italia. Nei fienili si afferrava alla trave maestra, e si sollevava da terra, cavallo compreso. Era uso pure infilarsi una canna di fucile per ognuna delle dita di una mano, e col suo braccio teso tenere le armi in perfetta linea orizzontale. Al Moncenisio trecento prigionieri alla volta; ma piangeva al ritorno d’ogni battaglia per i nemici uccisi. Quindi repubblicano, complottò, e finì in prigione. Ne uscì cieco d’un occhio e per sempre provato. Ma tra le quietissime nuvole di Villers-Cotteret trovò un riparo e la moglie.
Fu lui Porthos, ma non durò a lungo. Ma abbastanza per portarmi a quattro anni da Paolina Bonaparte discinta. Pure lui era stato suo amante. Mi piacque. Sei mesi dopo ero in un sonno beatissimo, con l’ossuta ma popputa cugina che mi badava, giacché mamma vegliava mio padre malato. A mezzanotte un colpo alla porta mi destò. Balzai in piedi, così sdegnato che saltando spaventai mia cugina, che tirò su le coperte e mi chiese: «Che c’è?». E io con la solennità dei bambini risposi: «Vado ad aprire a papà, viene a dirci addio». L’indomani per casa c’era confusione. Parenti, serve in preghiera, e un correre di tutti, dall’una all’altra stanza. Mi spiegarono che lui era morto. Ci pensai nell’aria di stordimento generale, e poi mi ritrovarono al piano di sopra. Ero salito su una sedia. Staccato dalla parete a fatica un fucile due volte più grande di me, lo abbracciavo, e sarei uscito così. Mi fermarono. Mia madre uscì chiedendomi dove andavo. Risposi: «In cielo». Lei pianse, e io: «Lasciatemi passare. Vado ad ammazzare Dio che ha ucciso papà».
Quale migliore debutto nel gioco della vita: per d’Artagnan, il quarto moschettiere. L’Impero non provvide alla vedova del generale in disgrazia; Bonaparte finì all’Elba, e tuttavia Mme Dumas ottenne una tabaccheria. Di pressoché totale ignoranza, giocavo però a biliardo con strabiliante perizia; a caccia: perfetta mira. Inetto al calcolo aritmetico, dunque economico; avevo però magnifica calligrafia. Mi misero perciò a bottega da un notaio, davanti al negozio dov’era Anne, che vendeva passamaneria. Un anno di corteggiamenti, baci furtivi, dita aggrovigliate e lei preferì un pasticcere. L’amore disilluso è ottimo in letteratura, tanto più essendo già inclini a divenire puttanieri. Evitai il seminario. Favorito in ciò da Adolphe de Leuven, discendente di svedesi regicidi. Costui era in campagna, a riprendersi dai vizi di Parigi. Mi leggeva versi di poeti, e proprio come Aramis era effeminato, non invertito.
D’Artagnan arrivò a Parigi dal capitano dei moschettieri del re, Signor di Tréville, a cavallo d’un ronzino e senza la lettera del padre. Io diciottenne ci arrivai senza neppure il cavallo, ma pervaso dallo stesso entusiasmo. Nel 1822, infatti, scappai dal notaio dove lavoravo e diressi per i boschi verso la capitale. Senza soldi, avevo il fucile; pagai in cacciagione gli alberghi per strada. Due notti a Parigi mi costarono quattro lepri, dodici pernici e due quaglie. E c’era la Comédie Française. Ne salii le scale. Non c’erano moschettieri in duello; ma attrici discinte, cervelli evaporati. Eppure pervasi pure loro della solennità che contornava Talma: quarant’anni di teatro, l’attore preferito di Napoleone, sopravvissuto al cambio di regime. Come in sogno, arrivai nel suo camerino, e Talma, che aveva conosciuto il generale mio padre, viziosamente tese la mano. Mi squadrò e tornando a essere serio, che per lui significava recitare, consigliò: «Toccatemi la fronte, Alexandre, vi porterà fortuna». E, in perfetta pausa, aggiunse: «E sia, ti battezzo poeta, in nome di Shakespeare, Corneille e Schiller».
Bastò perché decidessi di lasciare la provincia. Ma non mi feci rubare come d’Artagnan la lettera di raccomandazione per il generale Foy. Costui mi ricevette e chiese cosa sapevo fare. Quando, onesto, gli risposi «niente», ne dedusse ch’ero adatto all’amministrazione statale. Come Luigi XIII non poteva negare nulla al Signore di Tréville, così il duca d’Orléans non negava nulla a Foy, tribuno liberale. Folle di gioia, copiavo in bella calligrafia documenti; ma a Parigi. Due mesi e incontrai la mia signora Bonacieux. Si chiamava Labay. Era come Costanza, distante dal marito, graziosa, bionda, adatta al mio carattere infantile, essendo di poco più vecchia. Nel 1824 le diedi un figlio. Ma né lui, né la dozzina che ebbi da altre, mi ostacolarono. Vent’anni dopo ero già famoso, quando scoprii i libri noiosi su un guascone: Charles de Batz Castelmore detto d’Artagnan, e moschettiere di Mazzarino, morto con la gola squarciata nel 1673 all’assedio di Maastricht. Capii che v’era materia per scrivere, quietare i creditori e l’appetito.
Ero infatti nel 1844 già un ciccione, coi gilet setati tesi sulle curvature della pancia. Goloso di leccornie, ai pranzi ammettevo poveri e ricchi, con cordialità, pure se non erano invitati. Avevo gli occhi ottimisti, di chi è intento in perenne colazione. Gli occhi di chi non può essere giudizioso, perciò è felice. Ma deve scrivere per dilapidare denaro in lauti pranzi e donnoni. Convocai il buon Maquet. E lui compose la prima stesura del romanzo di d’Artagnan. La rividi, vi aggiunsi accelerazioni, divagamenti, pause, e la generosità di quell’inno all’eroismo e all’amicizia, che è il romanzo. Cavalcate, trappole, tafferugli, amori, osti, dame. Mi riuscì il miracolo di far credere a ogni lettore di poter mangiare e amare come i quattro moschettieri. Scrissi invero romanzi a decine usando «negri», come Maquet. Dovevo l’abbondanza delle facoltà artistiche al dispendio che ne facevo. E come d’Artagnan, abbisognavo d’eccessi di vita. E da quella scrittura plurima uscì il miracolo di un libro a strati, ma sentito da tutti, come quelli d’Omero.
Allora gli invidiosi pretesero che Dumas fosse un altro o non esistesse. Sommo privilegio omerico. Abbracciai, e in pubblico elogiai Maquet; lui pianse. Ero io quel Dumas che non crebbe mai, e perciò riuscì a dare epica perfetta alla giovinezza. Quella d’un incosciente che venne a conquistare le simpatie più preziose, quelle dei cani, delle donne bugiarde, dei figli. Perciò un giorno mio figlio mi scrisse: «Caro grand’uomo, ingenuo e buono, che mi avresti dato la tua gloria, come mi davi i tuoi quattrini quando ero giovane e pigro, sono felice di inchinarmi davanti a te... ». Il perfetto elogio di Athos a me, vecchio d’Artagnan.
(10. Fine)
Geminello Alvi