Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Il lungo viaggio del Natale
• Il lungo viaggio del Natale. Il Venerdì 23/12/2005. Anche se la pioggia somiglia ormai a quella di Blade Runner e la crisi a un tunnel della Tav, l’avrà vinta un’altra volta, la frenesia. Anche se Ratzinger, al suo primo Natale da papa, esorta un ritorno alla sobrietà, alla gioia intima, al raccoglimento. E, di nuovo, per molti sarà una frenesia gaia, per quanto faticosa e consumista, mentre per altri sarà più oscura e inquietante. Perché il Natale, lieto evento che muove milioni di persone e di euro, smuove pure temi e patemi antichi come l’uomo: il corso del tempo, i bilanci, l’attesa, il compimento, la nascita, la morte, la fame, la sazietà, l’unione, la separazione e tutti i dualismi sui quali si sono strutturati l’inconscio e le culture. Così, andar per regali, preparare albero, presepe, cenoni e pranzi, rivedere parenti dimenticati dal Natale scorso non è solo una corvée più o meno gratificante, ma un ritorno alle radici più sommerse dell’umanità. Per dirla un po’ difficile, una di conti con il simbolico, in cui ognuno gioca la sua parte. L’antropologo Marino Niola ha appena pubblicato ”presepe” (l’Ancora del Mediterraneo, pp.145, euro 15), un saggio che racconta bene cosa c’è dietro questo fantasmagorico bricolage del sacro esploso a Napoli alla fine del 1600: la riproduzione seriale domestica, anzi addomesticata, della Natività rappresenta l’ansia di miniaturizzare l’assoluto per controllarlo, prenderci confidenza, averne meno timore. Sarà per questo che ancora oggi il per cento degli italiani, credenti o meno, mantiene la tradizione di fare il presepe o l’albero. Oppure tutti e due. «I riti sono principi d’ordine: hanno funzione di ridurre l’angoscia, la complessità sociale» dice Niola. «Un rito, definizione, ricorre e questa ricorrenza una delle poche certezze che resistono nel mare tempestoso che circonda persone. una bussola: orienta, rassicura, costituisce l’architettura della realtà». Come fa il Natale a mantenere questa funzione, visto che per molti ha perduto ogni senso religioso? «Un rito non è necessariamente religioso e in questo caso parlerei di ritualizzazione: non si condivide l’intero spirito della festa, se ne scelgono alcuni aspetti che vengono rifunzionalizzati. Poi, il Natale è una specie di enciclopedia del festivo, perché a differenza di molte altre ricorrenze, compresa la Pasqua, racchiude la dimensione pubblica, quella privata e perfino quella cosmica». Nel senso del cosmo? «Ha un fortissimo legame con il solstizio invernale, dopo il quale le giornate cominciano ad allungarsi e l’oscurità allontana. Non dimentichiamo che Natale è una sincretizzazione delle feste romane per il Sol Invictus, il Sole Invitto. Secondo molti calcoli, Cristo sarebbe nato a marzo, ma nei primi secoli la Chiesa avrebbe strategicamente spostato la data a dicembre per sovrapporla ai Saturnali, alle feriae decembris che andavano da metà dicembre ai primi di gennaio. A dir la verità, agli albori del cristianesimo di Natali ce n’erano due: quello di Gesù e quello di San Giovanni, che cadeva intorno al solstizio d’estate. Anche Giovanni era un personaggio mitologico per antonomasia, un trasformatore: quello che trasforma Cristo battezzandolo. Una rete di simboli così complessa e stratificata da far tremare». E cos’è che fa tremare nel Natale? « una notte incantata che, per incanto, sovverte la realtà». In tutte le culture? «Il più antico folklore cristiano riprende i temi di quello pagano e mediorientale riadattandoli ai suoi scopi. E così giorni dal Natale all’Epifania era previsto che gli uomini perdessero la parola gli animali l’acquistassero, insieme facoltà di comandare sugli uomini. Come i bambini sugli adulti, al punto esigere i doni, che non erano una graziosa concessione ma un diritto rituale. una notte ricca di prodigi, quella di Natale: la stella cometa, il ritorno dei morti, la venuta del bambinello. In molte altre culture, anche lontanissime dalla nostra, sono i bambini ad avere il rapporto privilegiato con i morti, e nelle feste erano i piccoli a recitarne la parte, perché sono l’incarnazione del ciclo che unisce vita e morte, un ciclo che noi abbiamo spezzato. Anche Mitra era un dio bambino e, per di più, nato in una grotta». Il presepe, vivente e non in miniatura, nasce a Greccio, per opera di San Francesco, nel 1223. Perché è stata Napoli, quattro secoli dopo, a impadronirsi e a incrementare la tradizione fino a diventarne la capitale mondiale? «Prima dell’exploit napoletano c’era la diffusa tradizione del ’500: natività con pochissime statue – sacra famiglia, bue e asinello – allestite dalle chiese e quindi istituzionali, ma la commitenza perse presto il controllo. Gli aragonesi chiamarono a Napoli gli Alamanni, scultori tedeschi operanti in Italia e quelli, a San Michele a Carbonara, fecero una natività con le sibille che annunciavano il prodigio. Il primo presepe veramente napoletano fu quello degli Scolopi nel 1627, subito dopo, quello dei Gesuiti. I primi facevano nascere il bambinello in una grotta, rivisitando gli umori sotterranei della città. I secondi sceglievano come location le rovine di un tempio pagano e anche questo ha un suo senso: la proiezione verso l’altro e l’intenzione di sovrapporsi al persistente paganesimo. La macchina teatrale si stava mettendo in moto, ed essendo Napoli la città più teatrale del mondo era inevitabile che la scena si delocalizzasse da Betlemme al Vesuvio. Con delle connotazioni sociali rivoluzionarie». Il presepe di Masaniello? «Non fino a questo punto, ma il presepe diventa subito una passione borghese, piccolo-borghese e più in là anche popolare. Segna l’emergenza di una classe che strappa alla Chiesa e all’aristocrazia il monopolio della devozione e delle sue forme». Con tutte le contaminazioni del caso, a partire dalla figurina del salumiere che espone le sue collane di salsicce di maiale, che gli ebrei di Betlemme non avrebbero certo acquistato. «Il rito non è una macchina storica ma acronica, quindi mette in scena tutti i tempi in tutti i luoghi, incorporandone miti e tradizioni. A Napoli questa stratificazione si è verificata rapidissimamente. Le salsicce rappresentano il piacere della carne, le botti di Ciccibacco, oste che rimanda chiaramente a Bacco, rimandano allo spirito orgiastico della festa. L’orgia, in greco orgheia, non era solo un’abbuffata e quant’altro, ma la manifestazione del sacro con il quale si poteva entrare in contatto». Questi elementi sono riscontrabili anche nell’ebbrezza postprandiale dei Natali di oggi? «Questa ebbrezza è quantomeno la rappresentazione di un contatto: con i commensali, i parenti, la comunità. Un contatto che magari non c’è, perché la gente non è più abituata a stare insieme». Rappresentare qualcosa che non c’è non è potenzialmente esplosivo? «Certo che lo è. Ma lo abbiamo detto fino adesso: le feste sono una resa dei conti. E ogni tanto i conti bisogna pur farli».
Paola Zanuttini
• Unico indizio: una gerla, la stessa usata dagli orchi. Il Venerdì 23/12/2005. San Nicola di Mira (Asia Minore), vescovo del IV secolo, in seguito all’avventuroso rapimento delle sue spoglie da parte di alcuni marinai pugliesi, divenne patrono di Bari. Poi un’evoluzione ultradarwiniana l’ha fatto diventare Babbo Natale: il portatore di doni e di tutto l’apparato simbolico che i doni si portano dietro. Protettore dei bambini, delle ragazze da marito, dei ladri, dei marinai, delle vittime di iniqui processi e di molte altre categorie sociali in bilico, si trova anche lui un po’ in bilico se, dall’agiografia, si passa all’antropologia. Perché avrebbe tutta l’aria di un orco: anche queste figure terrificanti portavano una gerla che, invece di balocchi, conteneva piccole vittime. E il suo miracolo più noto, la ricomposizione dei bambini fatti a pezzi da un oste cattivo, accentua il dualismo di questa figura di vecchio prima malefico e poi benefico. In ogni caso era un taumaturgo, capace di assemblare e trasformare miti diversi diffondendo la sua fama dal Mediterraneo al Polo Nord, dove, per comodità, si è dotato di otto renne. Nella seconda metà dell’Ottocento era già una star internazionale, ma la responsabile della sua globalizzazione è la Coca-Cola. Per aggirare una legge che impediva l’utilizzo di immagini di bambini nella pubblicità della bibita, inadatta ai piccini per via della caffeina, l’azienda puntò sul testimonial più amato dall’infanzia: Santa Claus, cioè Babbo Natale. Il disegnatore svedese Haddon Sundblom, ispirandosi forse a un robusto vicino di casa, lo fece ingrassare, gli sfilò definitivamente il mantello verde delle creature silvane e codificò con il rosso Coca-Cola il trend dei toni accesi emerso nell’800. I primi no global a contestarlo furono i bambini di Digione che, nel 1951, bruciarono il suo fantoccio davanti alla cattedrale. Lévi-Strauss scrisse sulla vicenda un saggio oggi molto rivalutato: Babbo Natale giustiziato.
• I regali? Un simbolo per dire: ti offro una parte di me. Il Venerdì 23/12/2005. Il valore simbolico del dono era il cavallo di battaglia di Marcel Mauss, padre dell’etnologia francese. l’immagine della molteplicità che diventa unità, della comunità che si mostra coesa dal legame di questo scambio cerimoniale. Insomma, una pietra angolare delle relazioni sociali. Perché offrendo un dono si offre sempre una parte di sé. «Claude Lévi-Strauss racconta che i Maori attribuiscono al dono un’anima: si chiama Haue prima o poi spinge il dono a tornare indietro, noi diremmo a essere ricambiato» spiega l’antropologo Marino Niola. «E la cosa fondamentale è che i due momenti non vanno staccati, ma sono parte di una relazione, la reciprocità». Nelle lingue indoeuropee, la radice « da», che origina la parola dono, significa sia dare che ricevere. Un’ambiguità che persiste in certe forme del linguaggio. Anche nostre: vedi alla voce «dare un ricevimento».
• Una pianta senza radici: che prodigio! Il Venerdì 23/12/2005. Il vischio ha anche lui il suo consistente portato simbolico. Nasce senza radici, ospite di un’altra pianta: una nascita diversa, come quella di Gesù o di Mitra, figli di madri vergini. Senza contare che nelle aree mediterranee si sosteneva spuntasse dove era caduta una folgore. Perfino la parola strenna avrebbe un’origine silvana: i Sabini offrivano rami sacri colti nel bosco in cui veneravano la dea Strenia.
• L’abete è sempreverde e ignora il tempo che passa. Il Venerdì 23/12/2005. L’uso di appendere i sempreverdi era già in voga fra i Romani, che li esponevano durante i Saturnali. Lucentezza e capacità di resistere al ciclo delle stagioni rappresentavano la vita che continua. D’altronde, molte mitologie ritenevano fosse un tronco d’abete il perno ideale su cui ruotava la Terra: l’asse del mondo. La tradizione ha attraversato i secoli, ma le prime cronache di abeti decorati con mele, zucchero e gingilli verrebbero da Strasburgo, nel 1605. Quello che fece più notizia e lanciò la moda fu però l’albero fatto erigere nel 1840 da Elena di Meclemburgo, duchessa d’Orléans, alle Tuileries di Parigi. Inutile dire che il puntale simbolizza la cometa, come pure l’aspirazione verso l’alto, mentre le palle sono le stelle, il riflesso, la magia della notte più incantata e luminosa dell’anno.
• E dopo il magro, un pane ricco con le uvette come monetine. Il Venerdì 23/12/2005. Se Cristo nel Vangelo diceva: «Sono il pane della vita» e se Betlemme, in ebraico Beit-lehem, vuol dire casa del pane, perché la città era un vero granaio, è inevitabile che il pane e i suoi derivati abbiano una fortissima rilevanza nei riti natalizi. Finita la vigilia di magro, si accendeva il ceppo di Natale, accanto al quale si cuoceva il pane, poi si spruzzava il vino sul fuoco e lo si faceva bere a tutta la famiglia. Nel caso ce ne fossero, si buttavano sulle fiamme anche delle monetine. Una volta cotto, sulla superficie del pane veniva incisa una croce. Al cerimoniale, e alla ricetta, nel corso del tempo si aggiunse lo zucchero, l’uvetta che, come le monetine allude alla ricchezza, ma per molto tempo non il burro, grasso animale proibito nel regime di magro. Dalle ricche cucine della Serenissima veniva invece il pandoro, che deve il suo nome alle sfoglie d’oro non proprio penitenziali che lo ricoprivano. Fino al secondo dopoguerra il panettone non aveva diffusione nazionale, ogni regione aveva il suo dolce di Natale. Poi il marketing ha prevalso. La forma alta, potremmo, dire ascensionale, del pandoro e del panettone richiamerebbe l’aspirazione ad innalzarsi, mentre la lievitazione lenta e la preparazione lunga (il Christmas puddinginglese si prepara mesi prima) rappresentano un’architettura del tempo dilatata, quella della festa, che scalza i ritmi quotidiani.
• Quando a estrarre i numeri era direttamente Saturno. Il Venerdì 23/12/2005. Saturno, dio dell’agricoltura e della fertilità, aveva il potere di redistribuire le sorti degli uomini per il nuovo anno. Sparigliava anche le carte perché, durante i Saturnali, una delle feste più antiche del calendario romano, l’ordine e le convenzioni erano sovvertiti: gli schiavi potevano trattare i padroni da pari a pari, e il gioco d’azzardo non era più proibito. I giochi di numeri, dei quali la tombola è una gloriosa rappresentante, hanno sempre avuto forti connessioni con il sacro e la divinazione. Erano officiati da figure sacerdotali, da mediatori col soprannaturale, spesso di incerta identità sessuale. Dice l’antropologo Marino Niola che, ancora oggi, a Napoli, le «tombole segrete» sono condotte dai femminielli. Si sceglievano cerimonianti omosessuali perché erano nello stesso tempo l’uno e l’altro, ovvero portatori di un’endiadi, e perciò erano ritenuti in grado di mettere in relazione il terreno e l’ultraterreno. Alla capacità di sdoppiamento, che è poi anche quella degli attori, cui si richiede di uscire da se stessi, si sommava una spiccata teatralità. Dote fondamentale anche oggi per animare una tombola come si deve.
• Il miele che fa dolce il digiuno. Il Venerdì 23/12/2005. Mandorle, nocciole, ma anche lenticchie, mandarini, uvette, insomma: semi, grappoli e spicchi simbolizzano abbondanza e fecondità, l’unità che diventa moltitudine. Si spiega così, oltre alla reperibilità stagionale, la grande diffusione di certi elementi nel torrone e sulla tavola del Natale. Anche il miele ha le sue valenze simboliche oltre che pratiche: la sua vischiosità supplisce alla mancanza del burro, proibito dal regime di magro, ma vuole la leggenda che le stille di miele siano le lacrime di Gesù. Gli struffoli, dal greco strongulos(forma rotonda), antichissimo dolce napoletano, sono un monumento a questa simbologia di dolce fecondità.
• Chi mangia l’anguilla al cenone ”giustizia” il serpente di Eva. Il Venerdì 23/12/2005. Se, in moltissime culture, il serpente è un simbolo di vita eterna e continuità, sulla tavola degli italiani tocca al capitone assolvere questa funzione. L’immagine circolare della serpe che si mangia la coda rappresenta il tempo che rinasce, ma al povero capitone tocca anche incarnare il maligno tentatore che mise nei guai Eva e con lei tutta l’umanità. Quindi bisogna esorcizzarlo, sacrificarlo, mangiarselo, insomma. Perché assumere dentro di sé l’elemento inquietante è un atto di potente valore apotropaico. Cioè, scaramantico. Tradizione diffusa in molta parte d’Italia con punte parossistiche a Napoli. L’anguillona sacrificale fa la sua invisibile apparizione anche in Natale in casa Cupiello di Eduardo: nel secondo atto sfugge (dalla finestra) alla padrona di casa che, tentando di farle la festa, scivola e batte la testa. Terribile auspicio che si invera nel terzo atto. Secondo un’altra interpretazione, più pragmatica, l’anguilla è il cibo d’elezione natalizio perché è un pesce d’acqua dolce e di pantano che si pesca anche quando il tempo è brutto e le barche non possono uscire in mare.