Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005 La bomba atomica su Hiroshima
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
La bomba atomica su Hiroshima.
Il colonnello Paul W. Tibbets era uno dei piloti a bordo dell’Enola Gay quando dall’aereo venne sganciata la bomba atomica su Hiroshima, alle 8.15 del 6 agosto 1945. Tibbets ha lasciato l’Usaf (United States Air Force) il 31 agosto 1966. Oggi ha 90 anni e vive a Columbus, nell’Ohio.
Un sonoro ”blip” alla radio avvertì i B-29 di scorta che la bomba sarebbe caduta entro due minuti, e poi Tom (il puntatore Thomas Ferebee, ndr) si affacciò dal gabbiotto della punteria e mi fece segno: sarebbe andato tutto bene. Fece segno all’operatore radio che poteva dare l’ultimo avvertimento. Partì un segnale continuo che diceva agli aerei di scorta: "Fra 15 secondi parte". Il segnale continuo finì, la bomba cadde, Ferebee mollò la punteria. Io staccai il pilota automatico e feci virare l’Enola Gay. Misi gli occhiali antiabbaglianti, ma non riuscivo a vedere, ero cieco. Li gettai per terra. Una luce fortissima riempì l’aeroplano. La prima onda d’urto ci colpì. Eravamo a diciotto chilometri e mezzo in linea d’aria dall’esplosione atomica, ma tutto l’aereo scricchiolò e cigolò per il colpo. Urlai: "Contraerea!", pensando che una batteria pesante ci avesse scoperti. Il mitragliere di coda aveva visto arrivare la prima onda; era un luccichio dell’aria, ben visibile, ma non sapeva che cosa fosse finché non ci colpì. Quando arrivò la seconda onda d’urto ci mise in guardia. Ci girammo a guardare Hiroshima. La città era nascosta da quella nuvola orribile, ribollente, a forma di fungo, terribile e incredibilmente alta. Per un momento non parlò nessuno, poi si misero a parlare tutti. Ricordo che Lewis mi batté sulla spalla dicendo: "Guarda là Guarda là!". Tom Ferebee si chiese se la radioattività ci avrebbe resi tutti sterili. Lewis disse di sentire il sapore della fissione atomica. Disse che sapeva di piombo.
Testimonianza tratta da Richard Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, Rizzoli 2005
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
Alì contro Foreman.
Don Attyeo, scrittore e giornalista di origini australiane, andò a Kinshasa, nello Zaire, per raccontare l’incontro di pugilato più famoso di sempre, quello nel quale Muhamad Alì si riprese da George Foreman la corona dei pesi massimi, il 30 ottobre 1974.
Ero di fianco al ring, un passo dietro in prima fila. Pensai che questo sarebbe stato il canto del cigno di Alì, ed ero a Kinshasa per trovare qualcosa da riportare in un libro su di lui, in un’ottica non-sportiva. Alì era già un’icona per la sua presa di posizione contro la guerra in Vietnam, quindi ero lì a vedere un eroe della controcultura. Non ero mai stato prima a un grande match come questo, e ne fui travolto. Quella notte era pieno di gente del luogo che faceva un ”muro di rumore” per Alì. Lo Zaire era un posto incredibile. La gente aveva una insana devozione per Alì, gonfiata dall’eccitazione anti-coloniale. Il match fu magnetico – due che si prendono a cazzotti, un diluvio di sangue, muco e sudore. Quando Alì vinse, il pubblico fece irruzione sul ring. Fu l’unica volta che provai terrore durante quella notte. Mi rifugiai sotto i sedili, per non farmi pestare. Ma il Rumble in the Jungle fu più di un semplice incontro di boxe, per quanto elettrizzante. Durante la preparazione, Foreman si fece un taglio all’occhio, e l’incontro fu rimandato per sei settimane. Così, in totale, restai nello Zaire per circa tre mesi. Tutti fecero le valigie e se ne andarono, per tornare dopo, ma io non potevo permettermelo. Era una noia mortale, Kinshasa un posto tremendo. Dicevano che dovesse essere una celebrazione afro-americana, l’America Nera che torna alle sue radici, ma nessun personaggio famoso si fece vedere in giro come si supponeva. Avevo la sensazione che i pugili e la stampa fossero come alla deriva. Ero lì, abbandonato con Alì, e siccome a quei tempi non c’erano assistenti personali delle celebrità, alla fine ci bazzicammo per giorni e giorni. Alì era l’uomo più grande che avessi mai incontrato. Fede della boxe una piattaforma per cambiare il mondo. Era un leader, lo capivi quando vedevi gli zairiani, e loro non avrebbero potuto avere un modello di comportamento più distinto. Stare intorno ad Alì, guardarlo precipitarsi fuori dall’auto nei mercati rionali, era umanità al lavoro, e questo cambia la vita. C’era la sensazione che se Alì, un pugile, poteva ottenere tutto questo, che cosa allora potevamo fare noi? Che avesse vinto o perso l’incontro, sapevo che quello era un grande uomo.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
L’assasinio di JFK.
Ann Atterberry era una giovane reporter di Dallas quando andò a vedere il presidente John Fitzgerald Kennedy e sua moglie Jackie attraversare in auto la città, il 22 novembre 1963.
Allora facevo la reporter per il Dallas Morning News. Con tre colleghe del settore femminile eravamo già state a vedere Jackie in pausa pranzo. Ricordo che oltrepassammo la fine del percorso del corteo perché volevamo sederci sul marciapiede e mangiare un sandwich. Finimmo per fermarci tra il Deposito e il Triplo sottopassaggio. Li vedemmo svoltare l’angolo, poi udii come dei petardi, e mi guardai in giro per capire da dove il rumore provenisse. Sentii due colpi ancora, e vidi il corteo di auto accelerare, mentre la gente si buttava per terra. Sembrava irreale. Allora provai orrore. Tornammo indietro al giornale in lacrime. Più tardi fummo intervistate dall’Fbi e dalla Cia. Soltanto da poco tempo mi sento a mio agio nel parlarne, a causa del brutto impatto che il fatto ebbe sulla città e sul Dallas Morning News, dove lavorai fino alla pensione, nel 1999. In seguito all’assassinio il giornale fu messo sotto accusa perché aveva pubblicato quella mattina la pubblicità di un gruppo che criticava la politica di Kennedy. Mi pesò profondamente: una sorta di rovello mentale. Molte persone non sanno che fui una testimone. Ma non vorrei non essere stata lì. Fu un momento storico e una delle cose più importanti in tutta la mia vita.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
La caduta del muro di Berlino.
Romano Tomassini, lussemburghese di nascita ma italiano d’origine, è violino dei Berliner Philharmoniker dal marzo 1989. Il 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro, era appena rientrato a Berlino da un viaggio in Italia.
Arrivai in città che era già sera e non riuscivo a capire che cosa fosse successo. Vedevo per le strade uno strano movimento, ma per me era inconcepibile che il muro potesse franare così, improvvisamente e quasi senza far rumore. Mi affrettai verso casa, accesi il televisore e solo allora compresi. La calca nelle strade del centro era impressionante, le guardie di confine avevano aperto i punti di accesso per Berlino Ovest e permettevano alla gente di entrare: migliaia di ragazzi e ragazze dell’Est abbracciavano i coetanei del blocco occidentale, in una festa che durò tutta la notte. Berlino era una città libera. La mattina per le strade dovevano esserci 2-3 milioni di persone. Tutta la zona centrale di Berlino era diventata una enorme isola perdonale, camminare era quasi impossibile, il traffico era paralizzato. Qua e là qualche vecchia Trabant traballante oltrepassava i check-point. Cominciarono molto presto a formarsi delle code interminabili davanti a tutti gli sportelli delle banche perché il governo aveva deciso di distribuire 100 marchi a ogni cittadino dell’Est come forma di benvenuto. L’euforia era alle stelle. Ma l’emozione più forte la caduta del muro me la regalò qualche giorno dopo. Il 12 novembre 1989 la Berliner Philharmoniker diretta da Daniel Barenboim eseguì un concerto gratuito su musiche di Beethoven per i visitatori arrivati da Berlino Est: il ”concerto del muro”, a pochi passi dalle macerie di quello che per trent’anni era stato il simbolo di divisione tra i berlinesi. Quel giorno la gente tornò ad abbracciarsi in un auditorium gremito fino all’inverosimile. Ero coi Berliner soltanto da pochi mesi e quella è stata l’esperienza più toccante della mia carriera.
Francesco Esposito
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
Il primo uomo sulla luna.
Gene Kranz era il direttore del controllo di volo della Nasa a Houston il 21 luglio 1969, quando Neil Armstrong scese dall’Apollo 11 e mosse i primi passi sulla superficie della Luna.
Di quel giorno ho un ricordo un po’ sfuocato. Mi alzai presto, poi mia moglie preparò un pranzo abbondante, ma non ricordo di aver guidato , solo di aver parcheggiato nel mio posto auto. Le sei ore che precedevano la discesa sulla Luna trascorsero molto rapidamente. Prima che la navicella cominciasse la fase finale, si poteva sentire poteva sentire il conto alla rovescia nella sala, tutti i controllori sfoggiavano quelle che chiamo ”facce da missione”. Ci fu subito qualche problema di trasmissione con la navicella, poi problemi di traiettoria: stavamo puntando troppo verso la testa della zona di atterraggio, la linea di fronte, così Neil Armstrong dovette prendere il controllo manuale dei comandi. Normalmente si atterra con due minuti di carburante residuo, così quando raggiungemmo quel punto l’orologio cominciò a ticchettare, e noi fummo lasciati con una decisione secca: atterrare o fallire. Il solo suono nella stanza allora era la voce del carburante residuo: 60 secondi rimasti, poi 30, e giù fino a ”quin...”, quando capii che eravamo atterrati. Fu una sensazione di euforia. Quando finì il mio turno, andai a una conferenza stampa, e non mancava molto al momento in cui l’equipaggio avrebbe cominciato la sua camminata, così arraffai una tazza di caffè e poi mi misi comodo a guardare.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
Il disastro di Chernobyl.
Nikita Konstantinov fu uno dei numerosi inviati in Ucraina per le operazioni di bonifica in seguito al più grave incidente nucleare al mondo, il 26 aprile 1986, quando 31 persone furono uccise e migliaia costrette a lasciare le loro case. Oggi è principal manager presso il Dipartimetno di Sicurezza Nucleare della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
Nel 1986 ero uno studente di ingegneria nucleare a Mosca. Fui inviato a Chernobyl per misurare i livelli radioattivi. Non ero nervoso: quello era il mio lavoro. Conoscevo i pericoli. La bonifica di Chernobyl fu una enorme operazione militare. C’erano migliaia di persone, pesanti macchinari, bulldozer, team tecnici. Viaggiammo in autobus con le finestre oscurate da fogli di piombo. Ognuno doveva portare uno strumento che registrava la dose di radiazioni. A volte c’era chi aveva ricevuto una dose molto alta, e allora veniva caricato su un’ambulanza e trasportato con un volo speciale fino all’Ospedale radiologico a Mosca. Non so se qualcuno morì. Una volta volai in elicottero sopra la centrale. Il compito del pilota era di sganciare assorbitori di neutroni dentro il reattore. Sul pavimento dell’elicottero c’era uno spesso strato di piombo; ma non bastava a proteggere i piloti dalle radiazioni, visto che dovevano volare proprio sopra il reattore. Alcuni morirono. Questi ragazzi sono eroi. Poiché dovevamo occuparci della salute della gente, avevamo dei pass con su scritto ”dovunque”, alcuni invece erano ammessi solo in certe aree. Questo pass era un segno distintivo e in seguito mi è servito anche per altri scopi (meno nobili). Quando a Mosca Gorbaciov diede una stretta sugli alcolici, diventati difficili da comprare, usai il mio pass per bermi un drink. La gente era molto riconoscente per quello che avevamo fatto. Provai orrore alla vista del reattore, ma Chernobyl non mi fece concludere che la mia carriera fosse uno sbaglio. Al contrario , Chernobyl fu un esempio di che cosa non si dovrebbe fare.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
La finale del mondiale di calcio del 1982.
Gianni Mura prima firma dello sport di Repubblica era al Santiago Bernabeu l’11 luglio 1982 quando l’Italia vinse il Mondiale battendo la Germania 3 a 1.
Sembra buffo, ma io di quella finale non scrissi una riga Repubblica non uscì in edicola il giorno dopo. Tra l’altro era la prima volta che vedevo giocare l’Italia, la seguiva sempre Gianni Brera. Quella sera io e lui eravamo seduti uno accanto all’altro. Brera disse che in caso di vittoria sarebbe andato col saio alla processione dei battenti di San Bartolomeo, il suo paese. C’era nell’aria la certezza della vittoria finale che in genere porta rogna. Invece il clima non cambiò neppure dopo il rigore sbagliato da Cabrini per il fallo di Briegel su Bruno Conti. Sembravano due fumetti: Briegel alto, spalle da armadio, Conti piccolo con una zazzera nera improbabile. Poi arrivarono i gol. Brera era emozionatissimo, ebbe anche una specie di aritmia alla rete di sinistro in controbalzo di Tardelli. Saltava, gridava. Io invece cercavo di restare distaccato. La cosa che ricordo di più è un dettaglio tecnico: un doppio palleggio di Scirea, a destra sul vertice dell’area, e Bergomi, in area. Smentiva in modo solare l’idea ”catenacciara” dell’Italia: il libero e lo stopper dentro l’area avversaria. E poi Pertini che dava i numeri, faceva un tifo spaventoso, al terzo gol prese a saltare. Fu una finale bellissima, molto meglio del 4-3 del 1970 in Messico, partita orrenda. Alla fine andai a festeggiare al ristorante con un collega del Corriere. Parlammo tutta la sera in francese per evitare i tifosi ubriachi di gioia e di cognac che assediavano ogni locale della città.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
La prima notte dello studio 54.
David Noh era un diciottenne che studiava recitazione alla Stella Adler School quando il leggendario nightclub di New York spalancò le sue porte il 26 aprile 1977.
Un giorno andai a scuola e trovai un annuncio con su scritto: ”Attori/modelli cercasi per l’apertura di una nuova discoteca”. Superai la selezione e la sera dell’inaugurazione io e gli altri arrivammo verso le 5, ci diedero delle uniformi, un paio di shorts stretti da palestra, una canottiera e un berretto tondo. Mi passarono un’inutile paletta per la spazzatura, una spazzola e dissero: ”Ritira i bicchieri sporchi in galleria”. Quella era una posizione molto vantaggiosa. Aprirono le porte alle 9 circa, ed era come alla scuola di ballo: nessuno voleva essere il primo sulla pista. Quindi il dj mise su Got to Give it up di Marvin Gaye e Margaux Hemingway si alzò, strepitosa nel suo abito Giorgio di Sant’Angelo. Sentii dire che c’erano code tutto intorno all’edificio. Agli ingressi respinsero Warren Beatty e Frank Sinastra. Guardai giù verso il dancefloor e c’erano Grace Jones da un lato, Cher e la sua corte da un altro, mentre lo stilista Halston e Andy Warhol si davano anche loro da fare. La gente era così ”aperta”: seduta sulle panche sniffava cosa, fumava polvere d’angelo. I ricchi e famosi si sentivano a proprio agio così. Fu quello che in seguito si sentì dire, persino di più. Ogni volta che vedo un film sul 54, penso: ”Non avete nemmeno cominciato a grattare la superficie”.
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
La strage di piazza Tienanmen.
Jonathan Mirsky è uno scrittore e giornalista esperto di Cina. Era a Pechino il 3 e 4 giugno 1989, quando l’Esercito di Liberazione del Popolo represse con violenza i manifestanti per la democrazia.
La mattina del 3 giugno c’erano più di mezzo milione di persone in piazza. Io ero in piedi su uno dei ponti presso le mura della città, e guardavo in basso. Alle 10 l’altoparlante intimò: ”Dovete andarvene adesso”. Alle 11 arrivarono in marcia i soldati, sparando in aria. Quindi i carri armati rovesciarono alcune tende di operai. L’intenzione era di schiacciarli, ma riuscirono a scappare. Un’autoblindo sopraggiunse come uno scarafaggio, inseguendoli. Riuscì a investire qualcuno: ricordo di essere rimasto sconvolto da come avesse spiaccicato la vittima. La gente trascinò a terra l’equipaggio, massacrandolo di botte: quello fu il primo e l’unico atto di violenza commesso dai manifestanti sulla piazza. Sul ponte vicino al mio, un uomo convinto che la polizia non usasse proiettili veri si accasciò, un cerchio rosso di sangue si allargava sulla sua maglietta. Quindi i soldati cominciarono a sparare verso di me. La gente veniva colpita e poi abbattuta. Fui salvato dal viceconsole italiano che mi corse incontro, disse: ” il momento di andarsene”, e mi porto via. Con due denti saltati, un braccio rotto e le costole fracassate, tornai la domenica mattina. Centinaia di genitori stavano di fronte ai carri armati chiedendo di poter raggiungere la piazza per trovare i loro figli. Un ufficiale disse: ”Andatevene. Conto fino a cinque e poi sparo”. Gridai che lo avrebbero fatto, ma parlavo straniero: nessuno se ne accorse. I carri armati spararono in mezzo alla folla. Arrivò un’ambulanza. Spararono ai dottori e alle infermiere. Io strisciai via.
Clare Dwyer Hogg
• Io c’ero, Vanity Fair, 11/08/2005
L’attacco al World Trade Center.
Paul Neal lavorava nella torre nord del World Trade Center quando fu attaccato l’11 settembre del 2001. Oggi ha 44 anni, ed è un consulente in transport management a Londra.
Ho lavorato per il mio cliente, l’Autorità Portuale di New York e del New Jersey, dal mese di aprile e il nostro quartier generale era al 63° piano. Ero in ufficio da appena 20 minuti quando l’edificio prese ad oscillare di almeno 3 metri, facendo cadere le piastrelle dall’alto. Non mi preoccupai troppo. Scesi le scale fino all’atrio e guardai fuori dalla finestra. Il terreno era coperto dai detriti di metallo, alcuni dei quali ancora incendiati, e punteggiato di brandelli che in realtà erano persone, e a ogni istante qualcun altro cadeva e faceva quell’orribile rumore sordo. I comandanti dei pompieri ci diressero verso un’altra uscita. Mentre mi allontanavo, ci fu un rumore di tuono e la seconda torre cominciò a collassare. Ero a 100 metri di distanza dalla base. Pensai: ” impossibile che qualcuno di noi possa correre abbastanza forte prima che tutto ci arrivi addosso. Moriremo tutti”. Era terribile vedere la polizia in preda al panico tanto quanto noi. Mi buttai giù per le scale di un sottopassaggio e alla fine sbucai vicino al ponte di Brooklyn (sul lato opposto di Manhattan). Fu come emergere in una tempesta di neve. Quindi vidi collassare la torre nord e pesai che tutti i documenti su cui stavo lavorando se n’erano andati. Ero così sconvolto che mi era impossibile avere pensieri razionali. Andai al mio appartamento, che dominava dall’alto la scena, e telefonai a mia madre per dirle che ero salvo. Rimasi a New York finché non terminai il mio progetto, nel 2003. Non volevo abbandonarlo. Restai nello stesso appartamento. A ogni cadavere trovato il suono delle attrezzature si fermava e la bara veniva portata via. Gli amici dissero che ero impazzito. Non riuscivo a concentrarmi nel lavoro. Ma poi dissi a me stesso che questo era un evento che segna il mondo, che sarebbe restato con me per tutta la vita e che dovevo reagire. Funzionò. Certo, mi ha reso più riflessivo: oggi valuto in modo differente le cose.