Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 8 novembre 1999
La Nato sta diventando una potenza imperiale stabilizzatrice
• La Nato sta diventando una potenza imperiale stabilizzatrice. La Nato fu fondata nel 1949 come alleanza intesa esplicitamente a difendere l’integrità territoriale degli Stati membri. «Durante la guerra fredda le sue forze non spararono un colpo. La loro prima operazione militare non è consistita nel difendere un membro dell’Alleanza da aggressioni esterne. Invece, la missione iniziale ha avuto luogo in Bosnia: con i bombardamenti aerei contro le posizioni serbo-bosniache [...]». La Nato si è poi impegnata nel conflitto fra la Serbia e la sua provincia del Kosovo, di etnia prevalentemente albanese, «lanciando attacchi aerei contro uno Stato sovrano che non aveva aggredito né minacciava di aggredire alcun membro dell’Alleanza, e nemmeno uno Stato vicino. In altre parole, la Nato ha affermato il diritto di bombardare un paese perché esso rifiuta di accettare la soluzione, imposta dall’Alleanza, di una controversia internazionale [...] L’Alleanza è avviata a fungere, in tutta la regione balcanica, da potenza imperiale stabilizzatrice; a essere, di fatto, l’erede degli imperi ottomano e asburgico» (Ted Galen Carpenter).
• La missione tradizionale della Nato, gestione di difesa collettiva, sta lasciando il posto a quella, molto più vaga, di gestione delle crisi e degli interventi «fuori zona». Nella primavera del 1997 Clinton dichiarò: «Stiamo costruendo una nuova Nato. Rimarrà, con forze più piccole e flessibili, la più forte alleanza della storia, pronta a combattere per la nostra difesa ma anche addestrata a mantenere la pace [...] Non più rivolta contro un blocco ostile di nazioni, sarà invece un’alleanza destinata a promuovere la sicurezza di ogni paese democratico d’Europa - senza distinzione tra vecchi membri, nuovi membri e non-membri della Nato». Tra gli entusiasti di questa nuova Nato Madeleine Albright («L’Alleanza dovrebbe diventare una forza di pace dal Medio Oriente all’Africa centrale») e Tony Blair, secondo il quale il principio basilare dell’ordine internazionale di non interferenza negli affari interni «va delimitato sotto importanti aspetti». «Quando l’oppressione produce massicci flussi di profughi che sconvolgono i paesi vicini, è giusto parlare di ”minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali”» (Ted Galen Carpenter).
• Prima dell’azione Nato in Kosovo nessun intervento era stato caratterizzato in termini così chiari e marcati come intervento umanitario. Questo precedente ha scatenato un dibattito globale sulla liceità dell’intervento umanitario. Per gli Stati cosiddetti ”conservatori” (Cina in testa, secondo la quale nel corso del 1999 in nome dell’’umanitarismo” e dei ”diritti dell’uomo” si sono compiute alcune tra le più gravi violazioni della legalità internazionale) l’intervento d’umanità rappresenta solo un pretesto per coprire finalità egemoniche ed una minaccia all’ordinamento giuridico internazionale, in particolare al principio di sovranità su cui questo è fondato. Il gruppo di paesi ”legalitari” nega in via di principio la possibilità di ricorso all’azione militare se non su espressa autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu (la Russia indica il pericolo del ”doppio standard”, cioè l’intervento a protezione dei diritti dell’uomo esclusivamente in quelle aree dove sono presenti interessi geopolitici delle grandi potenze). Gli Stati ”revisionisti” tendono, invece, a rivedere i limiti che il principio di divieto della minaccia e dell’uso della forza impone agli Stati. Secondo il ministro degli Esteri danese, di fronte all’incapacità di agire del Consiglio di sicurezza la comunità internazionale deve intervenire «senza riguardo delle frontiere, per fornire assistenza alle vittime delle violazioni dei diritti umani». Più sfumata la posizione americana: «Gli Stati Uniti risultano poco disposti ad adottare una posizione generale a favore dell’intervento d’umanità per il timore che l’affermazione di questo principio possa significare un loro coinvolgimento in tutte le situazioni ove si verificano catastrofi umanitarie» (Fabrizio Pagani).
• La Nato prenderà il posto dell’Onu. «Le Nazioni Unite hanno svolto un ruolo di forte deterrente dopo la seconda guerra mondiale, sino alla fine della guerra fredda. Da allora il loro ruolo si è notevolmente ridotto. La mancanza di un meccanismo efficiente in grado di far rispettare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza ha costantemente eroso l’autorità delle Nazioni Unite.
Il prossimo, inevitabile passo per le Nazioni Unite sarà quello di devolvere alla Nato le sue funzioni di problem solver mondiale. Questo ruolo darà rinnovato impeto allo sviluppo dell’Alleanza e provocherà il declino delle Nazioni Unite. Nei prossimi 15-20 anni, l’Onu cederà la guida nelle mani della Nato e si ritirerà dalla gara» (Solomon Passy e Lyubomir Ivanov, rispettivamente presidente fondatore e membro fondatore del club atlantico di Bulgaria).
• La maggioranza dei membri del Congresso americano non ha nemmeno il passaporto e si avventura - politicamente - oltreoceano soltanto in occasione di crisi imminenti o di decisioni non procrastinabili sul finanziamento di operazioni all’estero. «In questi anni di grandi e talvolta brusche oscillazioni nell’atteggiamento dell’amministrazione Clinton rispetto agli ”interventi umanitari”, il Congresso ha posto - sebbene a intermittenza e spesso con obiettivi cinicamente interni - alcuni quesiti fondamentali. A che scopo esattamente l’esecutivo impegna l’attenzione e le risorse degli Stati Uniti in tutti i conflitti e le crisi lungo i confini dell’ordine europeo? Esiste un piano d’azione complessivo, oppure l’America è davvero cronicamente succube di un colossale ”effetto Cnn”? Se pure vi fosse un coerente interesse americano nel coltivare un grado così elevato di costante coinvolgimento internazionale, la Nato è davvero talmente preziosa da essere intoccabile? Esiste dunque la concreta prospettiva di far pagare un prezzo decisamente più alto ai ricchi e ambiziosi alleati europei in cambio dei servizi che gli Stati Uniti continuano a fornire? [...]» (Roberto Menotti).
• Vassallaggio atlantico. «Oggi la Nato dipende dagli Usa; un esercito europeo affiancato alla Nato dipenderebbe dagli Usa; una nazione che si staccasse dalla Nato non beneficerebbe del sostegno Usa e perderebbe qualsiasi capacità internazionale. Paradossalmente, la condizione di tutti i paesi Nato, presi nel loro insieme, è più vicina alla condizione di vassallaggio nei riguardi degli Usa che alla condizione di alleanza. La Nato non è in grado di condizionare la politica degli Stati Uniti perché in effetti la sua esistenza dipende da essi» (Fabio Mini).
• L’attacco alla Jugoslavia non sarebbe stato possibile senza le basi militari italiane, ma né l’importanza della posizione strategica né le proposte ragionevoli bastano per contare in seno alla Nato. Soprattutto quando è fragile la struttura sottostante di un paese. Nel 1998 la Francia ha destinato al bilancio della difesa l’equivalente di circa 70 mila miliardi di lire (2,8% del prodotto interno lordo), la Germania 55 mila (1,5% del pil), la Gran Bretagna 60 mila (2,7% del pil), l’Italia 40 mila (2% del pil). Dopo il Lussemburgo, l’Italia è il paese dell’Alleanza che attualmente impiega la maggior quota del proprio bilancio per la difesa in spese per il personale (il 72%, che va soprattutto in pensioni militari e mantenimento del sistema della leva). Alle spese per equipaggiamento nel ’98 restava solo il 12,7% del bilancio, contro per esempio il 27% del Regno Unito. «Europei e italiani dicono che vogliono avere più voce nell’Alleanza, noi diciamo loro: allargate i cordoni della spesa per le tecnologie militari. Da anni incoraggiamo l’Italia a farlo. In Kosovo, gran parte delle missioni d’attacco erano compiute da aerei americani perché erano, semplicemente, quelli che più difficilmente sarebbero stati buttati giù» (un negoziatore di Washington) (Federico Fubini).
• La guerra del Kosovo ha dimostrato che il gap tecnologico e operativo fra Stati Uniti e alleati europei sta crescendo in modo intollerabile, soprattutto per l’Italia. Un paese che spende poco e male i pochi soldi disponibili a causa di «disfunzioni organizzative e strutturali non ha alcuna speranza di recuperare il gap che lo separa dai partner». Stati Uniti a parte, l’Italia ha «seri problemi a restare agganciata non solo a Francia, Germania e Gran Bretagna, ma persino a Spagna o Olanda, per non parlare di Grecia e Turchia. Spendiamo in media per l’ammodernamento 4-5 mila miliardi di lire all’anno, mentre ne servirebbero almeno 8-9 mila. [...] L’unico sistema per trovare un po’ più di soldi sembra quello di chiedere ai soci europei di fissare anche per la difesa dei parametri di convergenza comuni, ai quali sia obbligatorio adeguarsi - una specie di Maastricht in grigioverde [...]» (Andrea Nativi).
• Per giocare un ruolo attivo nella Nato che consenta di far pesare i propri punti di vista, l’Italia si deve trasformare da consumatrice a produttrice di sicurezza. Deve cioè abolire la coscrizione e rimilitarizzare le sue Forze armate: «La consistenza quantitativa delle Forze armate necessarie all’Italia è un dato variabile a seconda degli obiettivi politici che si intendono perseguire, in particolare del ruolo che si intende giocare nel contesto atlantico ed europeo. Un aumento dell’autonomia politico-strategica dell’Europa richiederà all’Italia uno sforzo maggiore. Nella Nato la preponderanza americana è e rimarrà un dato di fatto. Tutto sommato, ora equilibra la nostra debolezza rispetto agli altri principali paesi europei, anch’essi deboli relativamente agli Stati Uniti. In un’Europa unita non sarà così [...] Non vi saranno sconti, né rendite geopolitiche. Se non saremo in grado di contribuire qualitativamente e quantitativamente a livello analogo a quello degli altri tre grandi paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna) finiremo prima o poi con l’essere esclusi dal direttorio che si costituirà di fatto in Europa» (Miles).
• L’arsenale di armi nucleari americane installate in Europa è costituito da circa 180 bombe situate in sette paesi diversi. Si tratta di bombe per aereo destinate ai cacciabombardieri F16 o ai Tornado, o bombe del tipo B-61. «Queste bombe hanno una potenza variabile. Il loro numero esatto è segreto, ma è possibile formulare ragionevoli ipotesi sulla loro distribuzione, considerando i nuovi depositi nucleari costruiti nei paesi ospitanti [...]».
Giovedì scorso un dispaccio dell’Agence France Presse ha annunciato che gli Stati Uniti si preparano a ritirare gli ordigni nucleari che ancora mantengono nei paesi europei, come deterrente contro un attacco nemico. Il ritiro completo potrebbe essere annunciato il 2-3 dicembre prossimi a Bruxelles nel corso di un incontro dei ministri della Difesa della Nato. Ma né Washington né il quartier generale della Nato hanno confermato la notizia: è di pochi mesi fa la dichiarazione contenuta nel ”Principio Strategico dell’Alleanza” approvato dai capi di Stato della Nato secondo cui «L’Alleanza atlantica, per garantire che la sua posizione nucleare sia credibile, deve continuare a esigere dagli alleati europei coinvolti nella pianificazione della difesa collettiva un ruolo attivo nelle questioni nucleari, lo spiegamento di forze nucleari sui loro territori in tempo di pace e la partecipazione ad accordi per gestire il comando, il controllo e la consultazione» (Paolo Cotta-Ramusino e Maurizio Martellini).