Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Montanelli
• «Mi chiamo Indro. Le ragioni per cui, al fonte battesimale, mi fu impartito questo nome, sono assai complesse e hanno un contenuto politico e sociale. Dovete sapere che Fucecchio, mia patria, è un paese di Valdarno, sito a mezza strada tra Pisa e Firenze. Poiché è buona regola di ogni borgata toscana di dividersi sempre in due fazioni, Fucecchio si divise in ”insuesi” e ”ingiuesi”. Gl’insuesi erano quelli che stavano per in su, cioè nella parte antica; ingiuesi quelli che stavano per in giù, cioè lungo le strade provinciali che menano a Firenze, a Pisa e Lucca. Il matrimonio tra mia madre, insuese, e mio padre, ingiuese, fu uno dei grossi affari della Fucecchio d’anteguerra. Mia nonna Rosmunda Dòddoli era assolutamente contraria a un ”matrimonio d’amore” tra la quintogenita Maddalena (mia madre) e il professor Sestilio Montanelli (mio padre). Decisa l’unione, questi, allora insegnante alle scuole tecniche del paese, si portò la moglie per in giù, in una villetta con giardino. Poco dopo mia madre rimase incinta. Subito Rosmunda calò dal poggio a riprendersi la figliola perché l’erede nascesse per in su. Infatti nacqui per in su, il 22 aprile 1909. Ma poco dopo, essendosi Rosmunda ammalata, mio padre venne a riprendersi la consorte e la prole e, per vendicarsi, si mise con ostinazione a cercare per me un nome che non fosse né della famiglia, né del calendario. Lo trovò».
• «Il padre di Montanelli, in gioventù studioso dilettante di sanscrito, volle chiamare Indra il figliolo, in onore del grande dio indiano. Cambiò tuttavia la finale, affinché il nome non sembrasse di femmina, e ne fece Indro. Ma dal punto di vista indianistico, aveva commesso in partenza un grossissimo sbaglio. Perché nessuno, nell’India antica, avrebbe osato mettere al proprio figlio il nome di una divinità. Un antico indiano, tutt’al più, avrebbe messo al figliolo il nome di Indratta, che vale ”donato da Indra” ».
• Bidet. «Nella mitologia familiare campeggiava il nonno Alessandro Dòddoli detto Sandrino, ricco commerciante che nel palazzotto per in su, il più fastoso di tutta Fucecchio, teneva un banco per la mercatura all’ingrosso del cotone. Veniva da una famiglia di terrieri che, pur senza più terre, manteneva antiche mentalità e abitudini, giudizi e anche pregiudizi (’perché i pregiudizi sono spesso una grande forza nella vita”). Portava la marsina e il solino duro, detestava le innovazioni soprattutto igieniche (rifiutò nel 1916 il bidet ”perché il culo bisogna trattarlo da culo”)».
• Cocaina. «Avevo diciott’anni, e studiavo a Grenoble, ambiente sano, tutto sommato, dove la droga d’uso comune erano gagliarde bottiglie di Beaujolais. Ma capitai nelle reti d’una signora russa che aveva una villa nei dintorni e che, per guarire di un grande e infelice amore con un celebre ballerino suo compatriota, ne imbastiva di nuovi ogni settimana fra noi studenti seguendoci fin sui banchi dell’Università... Lì per lì restai abbagliato da quel che di esotico aleggiava intorno alla Circe, non più giovane e nemmeno particolarmente bella, ma fornita d’un nome irto di K e di Y, di un passato misterioso e delle più inquietanti abitudini... Mi par di ricordare che le occorse poco per persuadermi a annusare con lei la cocaina. Forse mi bastò la parola per sentirmene già drogato. Ma il piacere che vi pregustai non fu quello dei Paradisi artificiali ch’essa a quanto pare procura: ma quello di poterli raccontare l’indomani in una lettera ai miei amici di Fucecchio, rimasti al bicarbonato: ”Ho scelto di bruciare la mia vita, rapidamente, in un rogo di Vizio e di Lussuria...”. Il rogo di vizio e di lussuria si trasformò, all’atto pratico, in una catinella, dentro la quale seguitai, per due giorni e due notti, a vomitare».
• Primavera. «Diciannovenne, invaghitosi di una regina dell’operetta, la bella soubrette Nanda Primavera (’apparteneva a quelle che, da noi in Toscana, traslando il termine americano girls, chiamavamo gèrle”) era scappato di casa per tre mesi facendo il boy nella sua compagnia, in frac e cilindro, nel Paese dei campanelli».
• Rimbaud e la rissa. «I mesi successivi Indro li passò a Parigi, ufficialmente per alcuni corsi alla Sorbona, che in realtà non seguì mai, perché entrò, sia pure per la ”finestra”, nel ”mestiere”. Accadde infatti che una sera, testimone occasionale di una furibonda rissa in un bistrot, ne raccontò a un cronista di Paris Soir con tale sontuosità di particolari che l’indomani il quotidiano dedicò quasi mezza pagina all’avvenimento. Il direttore del giornale, Pierre Rimbaud, volle complimentarsi personalmente con l’estensore dell’articolo. Ma il cronista, da galantuomo, gli spiegò che in realtà il merito era di un italiano, alto, biondo, e magro come un chiodo. Convocato quell’italiano, Rimbaud lo assunse. Per dieci mesi Indro restò nella capitale francese, girandola in bicicletta e scrivendo pezzi di ”bianca” e di ”nera”, in cui affilò il proprio spirito di osservazione».
• Peso forma: 65 chili per 1 metro e 86 cm di altezza.
• Alla redazione romana di Omnibus. «Leo [Longanesi] accolse Indro con un’occhiata astiosa: a lui, ”nano di Strapaese” appena sopra il metro e cinquanta, i tipi alti proprio non piacevano. Montanelli gli disse subito (l’aveva saputo pochi minuti prima da Maccari, che aveva lo studio lì accanto, in via del Sudario) che l’articolo di apertura di Carlo Scarfoglio su Léon Blum, con una grande foto a quattro colonne, aveva strappato una bestemmia a Mussolini. ”Spii? Sei una spia?” lo aggredì subito Leo, brandendo un paio di forbici. E Indro: ”Non arrivo a piegarmi, i buchi della serratura sono troppo giù. E lei?” ”Lascia perdere, dammi del tu”. La loro amicizia cominciò così».
• Ethel. «Ethel era davvero bella... C’eravamo conosciuti nella primavera del ’35 a Londra, in una Coffee House, mi piacque, le raccontai di me, delle mie aspirazioni. Poche ore dopo ero a casa sua, dietro Maiden Laine... Poi tornai in Italia, m’arruolai per l’Abissinia. Nel ’37, scrivendo ai miei, aveva saputo che stavo a Roma. Una mattina me la trovai di fronte in via del Sudario, con un bambino al collo. Giurò che era mio. Rimasi di sale. Lei pianse, mi commossi. Cedetti il giorno dopo, assicurandole che avrei badato a entrambi. Lei non volle nulla, mi disse ch’era ricca di suo. Lei firmai un riconoscimento di paternità. La mattina successiva andai al suo albergo, mi dissero che era partita. Le scrissi a Londra. Non rispose. Da allora non l’ho più rivista. E neppure il bambino...».
• Camere ardenti. «La sera del 23 luglio 2001 Letizia Moizzi [la nipote] si sentì chiedere da un medico della clinica La Madonnina se era possibile riaprire la camera ardente: ”C’è un signore dall’altra parte della strada che domani non può tornare”. Era Bonisoli [uno dei suoi attentatori, probabilmente quello che gli sparò] fu accontentato. L’ex brigatista accarezzò il volto di Montanelli e scrisse poi su un registro, dopo un migliaio di firme: ”Grazie Indro. Grazie di cuore, di tutto”».
• Una densa e articolata biografia del più celebre giornalista italiano, dai romantici esordi nell’Italia fascista, a Parigi e in Abissinia, sino all’ultima impennata di orgoglio, da hombre vertical, come lo definì il quotidiano spagnolo El Mundo, contro una destra che non riconosceva come tale, poco prima di morire.
Marcello Staglieno, giornalista genovese, è anche autore di libri storici, tra questi la biografia di Longanesi, scritta a quattro mano con Montanelli.