Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
• Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
• Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo
a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro
agli altri ed a se stesso amico
e l’ombra sua non cura
che la canicola
stampa sopra
uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula
che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba
e secca come un ramo.
Codesto solo oggi
possiamo dirti
ciò che non siamo
ciò che non vogliamo.
Eugenio Montale (1896-1981)
• Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime - l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire
Giovanni Giudici (1924)
• Se ne scrivono ancora.
Si pensa a essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non è più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi
Vittorio Sereni (1913-1983)
• Non posso più scrivere né vivere
se quest’anno la neve che si scioglie
non mi avrà testimone impaziente
di sentire nell’aria prime viole.
Come se fossi morto mi ricordo
la nostra primavera, la sua luce
esultante che dura tutto un giorno,
la meraviglia di un giorno che passa.
Forse a noi ultimi figli dell’età
impressionista non è dato altro
che copiare dal vero, mentre sgoccia
la neve su dei passeri aggruppati.
Attilio Bertolucci (1911-2000)
• I poeti son poeti perché scrivono poesie. Il Giornale 6 gennaio 2008.
Per gli scrittori è facile parlare della scrittura. Ma le rime sfuggono ad ogni ritratto fedele...
Ciclicamente, la poesia si sente chiamata a spiegare perché esiste, cosa ci sta a fare, come sta di salute, che intenzioni ha, a chi serve. E inizia a raccontarsi, a illustrarsi. Quasi a sfogarsi parlando di se stessa. A volte è convincente, a volte meno.
Ma è un poeta in carne e ossa quello che racconta e illustra. E qui tante strade si dividono e alcune non portano da nessuna parte perché ogni autore sente e intende la letteratura a suo modo. Dipende dalla poetica a cui aderisce, ma soprattutto dal ruolo che si attribuisce nella vita e (se ci pensa davvero) nella storia: funzionario dell’umanità e delle muse, travet del linguaggio, straccione inabile a tutto salvo che a far versi, semifolle che verbalizza sogni e visioni, oracolo autoconclamato, modesto mestierante imprestato alle lettere, viaggiatore notturno, semplice amateur... Infinita, la costellazione delle presentazioni, dei ritratti, perfino delle pose.
Certo, qui è accaduto un evento davvero paradossale: un autore di versi si è definito non in quanto uomo o donna o altro ma proprio e unicamente in quanto autore di versi allo stato purissimo. Ha, insomma, usato la poesia per infiltrarsi dentro se stesso nell’atto di fare poesia. E allora non si capisce più se quell’autore si è irrimediabilmente schiacciato sul suo io poetante o se ha guadagnato un punto di vista altissimo, se siamo di fronte a un irritante segno di narcisismo radicale o di autoconsapevolezza critica dignitosissima e liberatoria. O a una mistura di ambedue, a un salire che è anche un discendere. Certo, l’evento è circolare e, diciamolo ancora una volta, paradossale. Ma nelle storie ricorre. E in forme svariate, diverse, spesso opposte. Con valori letterari differenti.
Perché, passando in rassegna le 500 poesie sulla poesia lodevolmente proposte da Nicola Crocetti nel numero 223 della rivista Poesia, l’impressione è quella di intravedere, forse per la prima volta, un genere letterario trasversale, che ammette al suo interno immersioni abissali nell’io poetico e, insieme, momenti di leggerezza ironica lievissima, aerea. Una raccolta inattesa. Mi domando, allora, se in una immaginaria classifica sarebbe da preferire la lievità di chi arriva a sfiorare, verbalizzando il proprio essere poeta in azione, una sorta di metalinguaggio attraverso il quale aprirsi la possibilità di parlare ai propri versi o la «pesantezza» di chi si impegna a seguire dall’interno i momenti in cui la parola lo aggredisce e poi si dispone sul foglio. Sono, ambedue, gesti estremi, ardui. Destinati a pochi.
La strada meno convincente, in questo caso, è quella di mantenersi in una via mediana: dichiararsi autore di versi è, in fondo, facile, perfino tautologico. Il difficile è farlo dimenticando di esserlo. come arrivare a riguardare la propria opera dall’alto o dal basso. In ogni caso: da fuori. Forse, questo è un percorso che porta molto vicino al silenzio o al caos preverbale. O alle ultime parole prima del silenzio e del caos. possibile stabilire quali poeti sono realmente arrivati da quelle parti? Quali hanno, eventualmente, millantato il viaggio? E, pensando a questa immaginaria marcia, sarà lecito compilare una classifica secondo la quale vale di più chi è arrivato più vicino a tacere?
Parlare del proprio sé nell’atto di scrivere, fare «poesia sulla poesia» è un gesto costituzionalmente esposto al rischio di enfasi, di eccessi autobiografici, di apologie autoreferenziali. Forse, questo è il momento topico in cui, nella letteratura, più lontano è arrivato chi si è interrogato e poi ha taciuto. Rispondere, è stata di per sé una forma di arroganza sapienzale, di presunzione strisciante o manifesta. Meglio chi ha mantenuto profili bassi o bassissimi. O chi quei profili li ha simulati, costruiti come una maschera dietro cui nascondersi. Ottimo, se la maschera è stata credibile. Allora e solo allora il gesto di «parlare da poeta della poesia» ha rappresentato non un incentivo ma una vaccinazione contro le ricorrenti invasioni dell’enfasi, un gran controveleno, un farmaco al conformismo della retorica. E una gerarchia delle più alte e rappresentative «poesie sulla poesia» (limitata al Novecento e alla lingua italiana) dovrà, a modesto avviso di chi legge, tenerne conto.
Mario Santagostini
• Ispirazione per me è indifferenza.
Poesia: salute e impassibilità.
Arte di tacere.
Come la tragedia è l’arte di mascherarsi.
Vincenzo Cardarelli (1887-1959)
• Per nessuna ragione,
sapendo quello che succede,
mi vorrei risvegliare in questo mondo.
Ma già pensandolo (pensando
di pensarlo) so anche
che non è vero, che per quanto
ignominioso sia il presente io mai
rinuncerei, potendo scegliere,
a starci, magari di sghembo
e rattrappito d’amarezza, dentro.
Forse, mi dico allora,
non è per me che parlo,
è qualcun altro,
nato da poco o nascituro,
ad agitarsi nel mio sonno,
a premere
da chissà dove sul mio cuore,
a impastare parole
col mio fiato...
Giovanni Raboni (1932-2004)
• Quella sera che ho fatto l’amore
mentale con te
non sono stata prudente
dopo un po’ mi si è gonfiata la mente
sappi che due notti fa
con dolorose doglie
mi è nata una poesia illeggittimamente
porterà solo il mio nome
ma ha la tua aria straniera ti somiglia
mentre non sospetti niente di niente
sappi che ti è nata una figlia.
Vivian Lamarque (1946)
• Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Patrizia Cavalli (1947)
• Dagli albori del secolo si discute
se la poesia sia dentro o fuori.
Dapprima vinse il dentro,
poi contrattaccò duramente
il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait
che non potrà durare perché il fuori
è armato fino ai denti
Eugenio Montale (1896-1981)