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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Elisabetta Bertol

• Pagine. Ungere col solfuro di arsenico le pagine di un libro sulla caccia al falcone, espediente consigliato alla regina Caterina di Francia per avvelenare Enrico di Navarra. Il piano non riuscì perché il volume passò prima per le mani di un paggio, che morì tra atroci sofferenze.
• Acqua e uova. Sembra che Enrico di Navarra, futuro re Enrico IV di Francia, durante il suo soggiorno al Louvre mangiasse soltanto uova che si cuoceva da solo e bevesse acqua attinta dalla Senna con le sue mani.
• Teriaca. Miscuglio composto da moltissimi elementi, in alcuni casi polveri di perle, topazi, smeraldi. Giudicato infallibile, nel Seicento, contro i malanni più vari: "debilità di memoria, passione isterica, mutazione d’aere paludoso e letifero, febbri maligne, putride, terziane, quartane, linfatiche" eccetera.
• Sandracca. L’arsenico, descritto già nel IV secolo avanti Cristo da Aristotele col nome di ”sandracca”.
• Adultere. All’epoca della Roma repubblicana, gli avvelenamenti si moltiplicarono a tal punto che fu necessario emanare una legge al riguardo. Sembra che il veneficio venisse commesso molto più dalle donne che dagli uomini, in particolare dalle adultere che, per disfarsi del marito, ricorrevano all’arsenico. Di qui, il detto romano "adultera, ergo venefica".
• Fattucchiere. Giulia Tofana, cortigiana e fattucchiera vissuta a Palermo all’inizio del Seicento. Confezionava una miscela tossica in fiaschette di circa un quarto di litro che vendeva a cento doppie d’oro ciascuna: poche gocce versate nel vino o nella minestra bastavano a uccidere una persona nel giro di circa quindici giorni. Costretta a fuggir da Palermo, riparò prima a Napoli e poi a Roma, dove organizzava cene sontuose a base di cacciagione, dolci d’ogni genere e frutta esotica (sembra tra l’altro che anche qui trovasse modo d’arricchirsi con la sua famosa "acqua"). Morì, probabilmente per cause naturali, nel 1651, anche se diverse fonti la vogliono invece reclusa in convento o gettata in carcere e sottoposta a tortura.
• Calici. Il cardinale Giovan Battista Orsini, convinto a venire a Roma (benché avesse cercato fino all’ultimo di starne lontano), appena giunto in Vaticano fu arrestato e condotto in Castel Sant’Angelo. Alla madre venne concesso di fargli visita dietro versamento di duemila ducati "e una magnifica perla": una mattina, però, le fu detto che il figlio era morto all’improvviso durante la notte. Stando alle cronache del Burcardo, maestro di cerimonie pontificio, il cardinale "beberat calice ordinatione et iussu papae sibi paratum", cioè "aveva bevuto dal calice per lui preparato per ordine e imposizione del papa", Alessandro VI Borgia.
• Coppe d’argento. I vini dell’epoca rinascimentale, molto speziati e spesso cotti in precedenza con fragole, ciliegie e melograni. L’aggiunta del veleno, dato il sapore forte, passava del tutto inosservata, anche perché il vino veniva versato non in bicchieri di vetro ma in coppe d’argento o stagno, non trasparenti. Stesso discorso per la carne, di solito ricoperta col succo di frutti acidi come arance e limoni o insaporita con salse a base d’aceto, mostarde piccanti, chicchi di grano pestati. Il pane dell’epoca, simile a una galletta, insaporito non col sale (costoso) ma con polvere d’anice.
• Metà e metà. Altro espediente, ungere coi sali arsenicali un lato soltanto della lama di un coltello. In questo modo, tagliando un frutto, una metà veniva a contatto col veleno e l’altra no: per l’avvelenatore era quindi facilissimo offrire la parte tossica e mangiare quella innocua, senza che nella vittima sorgesse alcun sospetto.
• La camicia avvelenata, detta anche ”camicia all’italiana”. Per ottenerla, si prendeva un pezzo di sapone grosso come una noce e lo si mescolava con dell’arsenico: il tutto veniva poi sfregato sulla parte inferiore della camicia, che una volta indossata provocava eritemi e ulcerazioni nella zona dei genitali (le lesioni erano quindi attribuite alla sifilide e la possibilità di un avvelenamento non veniva nemmeno presa in considerazione).
• Pastrocchi. "I confessori non devono ricevere donne arricciate, truccate, ”impiastricciate”, adorne di gioielli, e il cui viso non sia nascosto da un velo ma da un tessuto opaco; i preti minori di trent’anni non possono confessare le donne senza l’autorizzazione del loro superiore; e in ogni modo lo faranno soltanto di giorno, mai di sera, e in confessionali situati in punti ben illuminati della chiesa" (dalle ”Istruzioni ai confessori” di San Carlo Borromeo).
• Sciarpe. Giulia Tofana, fattucchiera e cortigiana vissuta a Palermo all’inizio del Seicento, raffigurata ne ”Il Maestro e Margherita” di Bulgakov nella schiera dei grandi criminali presenti al ”Ballo di Satana”: zoppicante per via dello ”stivaletto spagnolo” che le era stato applicato durante la tortura e con al collo una sciarpa verde per nascondere i segni dello strangolamento (secondo la leggenda, infatti, la Tofana sarebbe stata uccisa dai suoi carcerieri, inorriditi per il gran numero di misfatti da lei commessi).