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 1999  giugno 21 Lunedì calendario

Mauro del Vecchio, comandante del contingente italiano in Kosovo: «Alla luce di quel che ho visto qui mi sono fortemente convinto: se prima ci poteva essere qualche dubbio, e non potevano non esserci dopo ottanta giorni di intensi bombardamenti, ebbene ora è stato completamente eliminato dopo aver constatato quanto è successo in Kosovo

• Mauro del Vecchio, comandante del contingente italiano in Kosovo: «Alla luce di quel che ho visto qui mi sono fortemente convinto: se prima ci poteva essere qualche dubbio, e non potevano non esserci dopo ottanta giorni di intensi bombardamenti, ebbene ora è stato completamente eliminato dopo aver constatato quanto è successo in Kosovo. Non ho mai visto niente di simile». Lei è stato anche al comando dell’operazione italiana in Bosnia e dice di non aver mai visto niente di simile: cosa l’ha colpita di più? «Nell’area tra Pec, Decani, Djakovica, ci sono chilometri e chilometri di territorio completamente deserto, intere zone dove c’è una distruzione quasi totale e condizioni durissime per le popolazioni che sono rimaste». Si può parlare di uno sterminio da parte dell’esercito delle forze di Belgrado contro i civili? «Non posso dire esattamente cosa sia successo, ma qui è avvenuto qualcosa di biblico: non c’è più nessuno». Da qualche parte si erano avanzati dei dubbi sui racconti dei profughi e si attribuiva ai bombardamenti della Nato questa fuga di massa: lei cosa ne pensa? «Posso dire che di tutto si è trattato, tranne che di un fenomeno dovuto ai bombardamenti: la distruzione delle case, di interi quartieri e villaggi, è stata chiaramente un’opera di distruzione compiuta ad arte, un’opera di distruzione sistematica attuata con mezzi come l’incendio e il cannoneggiamento. Nel racconto dei profughi non c’era nessuna esagerazione. L’opera di distruzione ha avuto proporzioni gigantesche, da lasciare esterefatti. Molti hanno abbandonato le case anche per il timore di violenze e rappresaglie, poi l’opera di demolizione è stata allargata per impedire il ritorno, esattamente come è successo in Bosnia».
• Che fare del Kosovo? Gli Ultranazionalisti del Partito radicale serbo di Seselj vorrebbero sopprimerlo in quanto territorio politico; Milosevic vorrebbe conservarlo con la ridotta autonomia attuale; la Nato e la comunità internazionale vorrebbero dotarlo di una nuova autonomia; i leader albanesi del Kosovo vorrebbero renderlo indipendente, o almeno farlo diventare la terza repubblica della Federazione Jugoslava; altri lo vorrebbero unito alla Macedonia meridionale (dove esiste una forte presenza di albanesi) in un progetto di Grande Albania etnica.
• Spartizione della regione. «Il criterio della maggioranza demografica applicato alla spartizione del Kosovo non è agevole da usare. Associato al criterio di contiguità, porterebbe a lasciare alla Serbia solo i tre comuni di Leposavic, Zubin, Potok e Zvecan, contigui al territorio della Serbia in senso stretto. Si tratta di una zona montuosa di media altezza attraversata dalle gole dell’Ibar, con una popolazione disseminata e stanziale e, per quanto riguarda il comune di Zvecan, di un frammento dell’agglomerato urbano e industriale di Mitrovica. L’insieme del territorio ospita soltanto il 10% della popolazione serba del Kosovo, il rimanente è sparso in un arcipelago di villaggi, o di gruppi di villaggi, e in parte nelle città, nessuna delle quali è a maggioranza serba. [...] Come che sia, questo criterio lascerebbe alla Serbia soltanto l’otto per cento del territorio kosovaro, a meno che non si moltiplicassero le enclave. Un negoziato preoccupato di mantenere più o meno l’equilibrio delle parti in campo, come è stato il caso della Bosnia, non potrebbe fondarsi essenzialmente su tale criterio».
• L’Uck non ha interesse a far terminare la guerra. «Vuole rafforzarsi sul terreno, prendere e controllare il maggiore territorio possibile. Stiamo assistendo all’occupazione del Kosovo da parte dell’Uck parallelamente all’arrivo del contingente Nato. Anzi, molto spesso precede la Nato. Chi pensava, con qualche leggerezza, che sarebbe bastato Ibraim Rugova ad evitare tutto ciò è stato subito smentito: Rugova non ha armi nè soldati» (il generale Carlo Jean, rappresentante italiano all’Ocse).
• 2P?si ritornati nei loro villaggi preparano la vendetta verso i serbi? «Per garantire la sicurezza la Nato deve imporre la legge marziale per sei mesi e cinquantamila soldati sono troppo pochi, ne devono mandare almeno altri 20 mila. Aspettiamo a pensare a democrazia e istituzioni. L’unica legge che serve subito è quella sul ”prezzo del sangue”, per stabilire quanto deve avere chi ha perso un parente, ad esempio se il risarcimento deve essere di 5 o 10 mila marchi. Poi bisogna scendere a livello locale, quello tipico della società albanese e kosovara, e rivolgersi ai capifamiglia per dirgli chiaramente che gli aiuti arriveranno solo se si cessa di sparare e se finiscono le faide» (il generale Carlo Jean, rappresentante italiano all’Ocse).
• «Da quando è asceso a protagonista del fronte Kosovaro, l’Uck ha subito una profonda trasformazione organizzativa e politica. L’obiettivo geopolitico iniziale era quello dell’Albania etnica o vera Albania, cioè lo stato di tutti gli albanesi comprendente Albania, Kosovo e parti di Montenegro e Macedonia. Questo progetto deriva dal movimento politico da cui è scaturito l’Uck, lo Lpk, l’unico partito panalbanese, con membri provenienti da tutte le regioni dell’Albania etnica. Quando nell’estate del 1998 l’Uck diventa un attore importante sulla scena internazionale, esso decide di accantonare il sogno panalbanese, limitandosi a chiedere la liberazione del Kosovo. Fino a quel momento l’Uck era il braccio armato dello Lpk. [...] Le ragioni del distacco dallo Lpk erano due. La prima era geopolitica: gli Stati Uniti non avrebbero appoggiato il progetto panalbanese, dunque bisognava metterlo in un cassetto. La seconda era politico-ideologica: lo Lpk era considerato di estrema sinistra e l’Uck non voleva essere marchiato politicamente. Infatti lo Lpk nasce negli anni ’80 sulla spinta degli antijugoslavisti e degli antititoisti, mirando a unirsi all’Albania comunista di Enver Hoxha. Lo Lpk sostiene di aver adottato il principio dell’organizzazione clandestina e non la dottrina comunista ma l’argomento non è molto convincente».
• Il generale britannico Michael Jackson afferma che l’accordo sul disarmo dell’Uck è imminente. «E Jackson con chi firma l’accordo? Con Hashim Taqhi che non controlla certo tutti gli armati. Alcuni ufficiali croati, turchi e inglesi hanno molta più influenza di lui nelle rispettive unità kosovare. L’Uck non ha una catena di comando verticale come l’esercito jugoslavo e non è una realtà unitaria perché è composta da un serie di frazioni ognuna con il suo riferimento politico locale» (il generale Carlo Jean, rappresentante italiano all’Ocse).
• Come si possono disarmare i kosovari? «L’unico sistema è puntare sulla frazione più forte dell’Uck e assorbirla nelle strutture amministrative locali come è stato fatto con il Frelimo-Renano in Mozambico. A meno che la Nato non voglia iniziare un’azione di contro guerriglia su larga scala iniziando a bombardare anche gli albanesi dopo i serbi. Siamo arrivati a questo punto perché il potere aereo può garantire la vittoria militare ma non quella politica. Non aver impiegato le truppe di terra è stato semi-criminale. Il risultato è che ora non c’è controllo del territorio e bisogna impiegare le truppe di terra contro gli albanesi». Esiste anche il rischio di azioni della guerriglia serba? «I guerriglieri serbi mi sembrano un rischio ridotto» (il generale Carlo Jean, rappresentante italiano all’Ocse).
• Vitalij Tret’Jacov, giornalista russo direttore di ”Nezavisimaja Gazeta”: «Ormai è chiaro che l’Occidente guidato dagli Usa o per meglio dire da Washington per mezzo della Nato, inebriato da un senso di impunità e di onnipotenza militare, non potrà accontentarsi di nulla di meno della fine della Jugoslavia. [...] La Russia in quanto stato e nazione dovrà trarre delle lezioni da quanto accaduto e correggere di conseguenza la sua politica estera e interna. [...] Alla Jugoslavia seguirà qualcosa d’altro. Non è esclusa la regione del Dnestr (in Moldavia), dove sono stanziate truppe russe e in genere vivono cittadini russi. O il Caucaso. Insomma non è escluso che la prossima testa di ponte usata dalla Nato per scatenare l’ennesima guerra «al fine di contrastare una catastrofe umanitaria» possa essere un territorio abitato dai russi o adiacente alla frontiera della Russia. [...] L’Europa non esiste. Esiste un ”governatorato generale dell’Europa” americano amministrato dalla Nato. Dunque che senso ha praticare la diplomazia nello spazio europeo? irragionevole cercare accordi con i vassalli quando tutto viene deciso dal sovrano. [...] La sola scelta che la diplomazia americana lascia al suo partner è quella tra morire o essere a stelle e striscie (ma di seconda classe). Trattative strategiche possono essere intavolate solo con coloro che non sono diventati a stelle e strisce e non intendono farlo. Come la Cina, l’India, il mondo islamico».
• Dopo vent’anni la Cina ha riscoperto il suo diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza, bloccando il rinnovo del mandato alla missione dell’Onu in Macedonia, sponsorizzata dagli americani. «Questo perché la Macedonia aveva riconosciuto Taiwan, in cambio di sostanziosi aiuti finanziari. [...] Calando l’asso del veto, la Repubblica popolare cinese faceva valere la sua forza di ricatto nei confronti degli USA. [...] Se dopo il Kosovo scoppiasse la Macedonia, tutti volgerebbero il capo verso oriente, per saggiare la reazione cinese. Ma questa forza di ricatto non significa capacità di intervento globale. Per questo obiettivo Pechino non è attrezzata sotto nessun profilo».
• Se i paesi della Nato decideranno di continuare a essere i poliziotti internazionali dovranno velocemente rivedere i loro eserciti. «La guerra nei Balcani ha messo alla frusta le strutture militari alleate. Persino gli Stati Uniti si sono presto resi conto dell’inadeguatezza delle proprie forze armate nel far fronte a uno sforzo così prolungato nel tempo, dovendo nel contempo tamponare l’incancrenita crisi con l’Iraq (i media non ne parlano, ma scontri con l’antiaerea di Saddam e attacchi aerei da parte delle forze aeree statunitensi britanniche sono all’ordine del giorno) e senza dimenticare altri punti caldi, primo fra tutti la Corea».
• Il ruolo di Blair. «Il primo ministro britannico è diventato un cavaliere templare della realtà virtuale che applica nei Balcani meridionali la sua personale versione della moralità stile Guerre Stellari. Mentre la cosa non sconvolge più di tanto il pubblico britannico, essa si fa sempre più preoccupante per gli amici e gli alleati all’interno della Nato. Parafrasando il duca di Wellington quando passava in rassegna le truppe nella sua campagna della guerra peninsulare ”non faranno paura al nemico, ma di certo fanno paura a me”. [...] La posizione del primo ministro britannico sulla guerra in Jugoslavia è presto detta. Blair e i suoi sostenitori hanno sempre considerato necessaria una qualche forma di campagna militare di terra, offensiva o benevola, per riportare a casa entro l’inverno un numero significativo degli oltre un milione di profughi kosovari. In parte si tratta di uno slancio, di una convinzione personale. In parte dei consigli strategici militari forniti dagli alti comandanti britannici. [...] E dunque, perché riguardo al Kosovo Tony Blair ha scelto una linea tanto precipitosa, rischiosa e, in defintiva, tendente alla spaccatura? In primo luogo è una questione di convinzione personale. Egli ha visitato personalmente i campi profughi in Albania e in Macedonia in due occasioni distinte. In maniche di camicia si è seduto a gambe incrociate nelle tende dei rifugiati di Pristina e di Pec e ha promesso loro che ”saranno aiutati a tornare a casa entro l’inverno”. curioso che, proprio in questa epoca di supremo cinismo della politica, egli ne sia davvero convinto. In questo Blair è completamente diverso dal suo amico Bill Clinton, le cui dichiarazioni sul Kosovo sanno di astuzia leguleia. La retorica e le chiacchiere davanti al fuoco di Clinton sono piene delle clausole ”liberatorie” delle polizze vendute porta a porta. [...] Bill Clinton, al pari di Slobodan Milosevic, conosce il gioco della sopravvivenza. Tony Blair, invece, crede in ciò che dice, e sa che questo potrebbe mandarlo a picco insieme al partito, al governo, all’elettorato. Lo spettro della crisi di Suez del 1956, che fece naufragare il primo ministro Anthony Eden, non è lontano. Molta parte della determinazione di Blair deriva dalla religione. Lui è anglicano e la moglie Cheri è una cattolica praticante. Blair è esponente di spicco di un nuovo genere di socialismo cristiano. Ma la moglie, avvocatessa d’alto bordo di livello internazionale, lo ha accompagnato nella visita ai campi profughi in Macedonia. Si è commossa fino alle lacrime, cosa che nel mondo del Nuovo Laburismo non va assolutamente nascosta [...] Il socialismo cristiano di Blair è diventato il Vangelo del Nuovo Laburismo. Esso è emerso prepotentemente con la morte della principessa Diana, ”la principessa del popolo”. [...] Malgrado gli sforzi improntati ai metodi della modernità e della postmodernità sussiste un che del controllo, del tormento spirituale, e del dominio politico caratteristico del tentativo operato da Olivier Cromwell di governare la ribelle Gran Bretagna repubblicana del XVII secolo. Nel suo socialismo cristiano c’è molto poco di nuovo. Il primo Partito Laburista aveva solide radici nel movimento metodista dei pastori protestanti John e Charles Wesley. In effetti Blair è un esempio della famosa massima secondo cui ”il Partito Laburista deve più al metodismo che a Marx”. Con la crisi del Kosovo, la leadership è costretta ad affrontare un problema chiave per il quale è possibile che egli si senta spiritualmente, ma non per questo politicamente, preparato».