Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 9 settembre 2001
Apre tra poco a Roma, il 14 settembre, presso le Scuderie Papali al Quirinale la mostra Rinascimento
• Apre tra poco a Roma, il 14 settembre, presso le Scuderie Papali al Quirinale la mostra Rinascimento. Semplicemente, tutto il meglio della pittura Italiana del ’500: 160 capolavori - da Beato Angelico al Masaccio, da Raffaello a Leonardo - che giungono in Italia direttamente dal Giappone dove per mesi sono state protagoniste di una grande esposizione nella capitale, Tokio.
Ma la mostra di Roma è anche un’occasione per vedere, attraverso l’occhio dei grandi pittori del tempo, il mondo dei nostri antenati. La Macchina del Tempo ha affidato a Nico Valerio, esperto in storia della gastronomia, un compito simile: raccontare la vita quotidiana nell’Italia di 500 anni fa usando la cucina come alfabeto.
Pavoni bolliti, poi arrostiti e ricoperti di piume, lasagne con burro, formaggio e zucchero, capponi con crema dolce di mandorle, acqua di rose e chicchi di melagrana, brodi di gallina allo zenzero e miele, minestre inebrianti di semi di cannabis, conserve di frutta in mostarda piccante, trofei di dolci canditi, sorbetti e gelati ai fiori di melangolo preparati con la neve conservata, pasticci in crosta a sorpresa da cui escono uccelli vivi. Perfino un’aquila che stringe tra gli artigli un coniglio, cotto a puntino e rivestito della sua pelle, su un vero prato fiorito.
Spesso le sorprese iniziano già al lavaggio delle mani. Aprendo i tovaglioli i commensali liberavano senza saperlo dei minuscoli uccelli che vi erano nascosti, che si mettevano a saltare sul tavolo e a becchettare qua e là. Il pubblico applaudiva per la trovata, come oggi in tv.
• Decine di portate, una dopo l’altra. A Venezia, nel 1522, il cardinal Grimani offre in onore del principe Farnese un banchetto di novanta vivande servite in quattro ore (ad una media di una ogni due minuti e mezzo). E qualche piatto trasgressivo oggi piacerebbe a un cuoco della nouvelle cuisine, come le fettine d’arancia al pepe o le quaglie con cavoli trifolati. E dopo ogni portata, intermezzi di musica, allegorie (spesso noiose), poesia epica, commedia, danza. Perfino il Buon ricordo, da portar via e cotillons, artistiche statuine di zucchero dipinto e orecchini, collane e decorazioni da distribuire a sorte tra gli invitati, come avvenne alla cena per 104 persone del duca Ercole d’Este a Ferrara, nel 1529. Ecco come si mangiava e ci si divertiva in quelle occasioni rare ed eccezionali - anche per gli aristocratici - che erano i banchetti di lusso in Italia a metà tra il ’400 e il ’500. E i commensali? Siedono, gomito a gomito, principi stranieri e intriganti dame di palazzo, capitani di ventura e contesse di provincia, ufficiali e ambigui diplomatici, artisti e cardinali. Perfino prostitute d’alto bordo, che talvolta erano grandi poetesse come Gaspara Stampa, Veronica Franco e la celebre Imperia amata da cardinali e nobili. A Roma, su 55 mila abitanti, le prostitute censite erano 5 mila, cioè il 10 per cento. Stessa proporzione a Venezia: ben 11 mila prostitute. Qualcuna di loro tiene sontuosi festini a casa propria, frequentati da aristocratici, diplomatici e cardinali, che dopocena – con l’aiuto d’un amico baro – provvede a spolpare nei giochi di carte. O in qualche partita a domino.
• Tra archi, colonne, siepi e fontane, il lusso ostentato del banchetto d’eccezione si trasforma in un vero spettacolo pubblico, il più amato dal popolo perché il più ricco: quello della gola. Centinaia di spettatori popolari sono ammessi, seduti, in appositi soppalchi tutt’intorno e, come accade nella cena per 20 commensali offerta nel 1513 a Giuliano dei Medici nella piazza romana del Campidoglio, alla fine del pasto godranno di sovabbondanti leccornie e libagioni. Solo che quella volta, racconta il cronista, il pubblico romano non dà uno spettacolo decoroso. Conigli, capretti e perfino porchette arrosto volarono sulle teste degli spettatori, ormai troppo sazi, e alla fine della battaglia il famoso selciato di Michelangelo fu tutto insozzato. Per questo nei quadri del Veronese ci sono tanti levrieri attorno alle tavole: eliminano i resti delle pietanze in modo più elegante ed economico di qualsiasi servitore.
Il banchetto è uno spettacolo, un rito signorile dell’abbondanza. E come tale, evento raro e memorabile anche per i nobili, analogo agli stravizi di Carnevale e ai miti di Bengodi del popolo minuto. Del resto è un’eredità della Roma imperiale. Veder mangiare i nobili e le belle donne, con la certezza di assistere agli intermezzi di musica e teatro o agli spettacoli di mimi, buffoni e giocolieri, e in più con la speranza di partecipare al festino, ecco l’occasione più ricercata nell’Italia del Rinascimento. Come, ai giorni nostri, poter spiare in televisione una cena privata di tutti vip: attrici, presentatori, calciatori e cantanti. Talvolta nella festa è coinvolto l’intero villaggio, seduto a lunghe tavole vicino al castello, quasi a rinsaldare anche visivamente il legame principe-popolo in una grande fiera di Cuccagna, come si vede nel dipinto di Brunswick La parabola del Grande Banchetto. La città di Tortona nel 1488, per le nozze tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, partecipa in massa ai preparativi del superbanchetto: 800 invitati.
• A giudicarlo nello ”stile” gastronomico, però, il pranzo rinascimentale appare ormai una scenografia superata. ancora medievale nell’eccesso di carni, come ai tempi in cui i miti eroici del sangue e del cibo cruento erano legati al valore virile del principe guerriero. E, visto l’ammontare dei debiti dell’epoca, appare quantomeno ingenua l’esibizione del vasellame d’oro e d’argento sulle credenze bene in vista, fatta per rassicurare il popolino che il principato è ancora ricco malgrado i prestiti e con i creditori bloccati alle porte della città.
Ma è curioso che nel Rinascimento entrambe le forme di spreco, il cibo e l’oro, infrazioni di una presunta norma morale, si alternino a frequenti digiuni e ad astinenze dalla carne prescritte da una religione invadente, in tempi in cui neanche papi, frati e monache sanno resistere al cibo e al sesso. Così nei conventi si pecca non solo introducendo amanti, ma anche dolci e carni vietate. Ecco perché il Folengo – sibilano le malelingue – nel suo poema in latino maccheronico Baldus si rivela esperto di piatti succulenti, descrivendo per esempio le lamprede del lago di Como in agrodolce con mandorle, zenzero, aceto e uva passa. E le pastinache fritte in pastella condite d’agresto (succo d’uva immatura): in fondo, dicono, è un monaco benedettino.
• Nonostante gli eccessi un evento come il banchetto non è del tutto sregolato. A Venezia, innanzitutto, si cerca di frenarne gli sprechi con leggi suntuarie che vietano i cibi più costosi (ostriche, fagiani, pavoni, storioni, ma anche dolci come meringhe e pinolate) dando il potere ai ”Provveditori alle Pompe” di interrogare e punire i cuochi che non denuncino le liste dei pranzi. Ma la legge è inosservata e colpita dall’ironia dei veneziani. A quei tempi il caviale si otteneva facilmente dallo storione che risaliva il Po e il Tevere, salandone in modo opportuno le uova. A Roma, sulla riva presso l’isola Tiberina, in Piscinula, un bassorilievo in marmo raffigura uno storione della lunghezza minima consentita per la pesca. Più efficaci sono le regole dell’igiene e delle buone maniere. Nato come un’orgia esibita del gusto, il banchetto italiano pretende almeno un’educazione mondana, che – in mancanza di quella civile – resterà nei secoli: la pulizia e il rispetto delle forme. In Italia, anche negli strati popolari, non è tollerato mangiare con le mani. Primo paese al mondo in cui non solo i ricchi – il che stupirà i turisti inglesi e francesi ancora nel Seicento – ma perfino i poveri a tavola usano cucchiaio, coltello e forchetta, perché con le dita non si tocca che il pane. Nei banchetti di corte o borghesi, ci si lava prima le mani in appositi catini (acquamanili) con acqua spesso profumata. Anche gli stecchini sono aromatizzati. Guai a chi urla, dice parole volgari, si ubriaca, si gratta, sputa e si avventa selvaggiamente sul cibo: verrebbe redarguito, e non solo in ambienti aristocratici. Sul contegno a tavola si diffondono i manuali di un’altra invenzione del Rinascimento italiano, il ”galateo”, come quello scritto dal Monsignor Della Casa.
• Nasce ora in Italia la Grande Cucina, con le sue tecniche perfette ancora in uso e la filosofia sapiente degli accostamenti. Tutta una cultura che con la fiorentina Caterina dei Medici, andata sposa ad Enrico II, approderà, insieme al dragoncello, tra i rudimentali fornelli francesi. Intanto il maestro Martino col Libro de arte coquinaria si afferma come il vate della gastronomia rinascimentale. A lui si ispira l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, un gastronomo che ha letto non solo Apicio ma Plinio e Columella e molte opere di medicina. Il suo libro Il piacere onesto e la buona salute, dapprima scritto in latino, non è solo un ricettario, ma una guida alla vita sana secondo gli insegnamenti naturinaturistici del medico greco Ippocrate (’Il cibo sia la tua medicina”). La corrente dei gastronomi colti continua con lo scalco e gentiluomo di corte Cristoforo Messisbugo (Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale), con Domenico Romoli, detto il Panonto (Singolar dottrina), e Bartolomeo Scappi (Arte del cusinare).
• Ma per noi italiani moderni la vera, incredibile, novità della cucina di corte rinascimentale è proprio il suo sapore dolciastro di base. Anche solo a leggere le ricette, meraviglia tutto quello zucchero sparso a piene mani sulle pietanze, comprese quelle che noi amiamo pensare salate: arrosti di cacciagione coperti di zucchero glassato, tagliatelle al formaggio condite col miele, brodi dolci di gallina, pasticceria al pepe, crema di petti di pollo con zucchero e mandorle. Ma sono arabi o tedeschi i cuochi del Rinascimento italiano? Tanto più che, sia prima che dopo, zucchero, miele, dolci, caramelle e cioccolato sono rari nella civiltà contadina dell’Italia continentale, in cui perfino il vino dolce di Marsala è considerato stucchevole. E’ vero, però, che la pastasciutta nasce dolce nell’antica Roma, da cui le nostre ”frappe” o ”chiacchiere” di Carnevale. Il Rinascimento rafforza la tradizione cosmopolita e coloniale di quella cucina, come poi accadrà alla cucina inglese. Non c’è ancora, per fortuna, il tabù italiano, molto provinciale, che separa il dolce dal salato e dal piccante
Ma perché questo abuso? Intanto, perché lo zucchero è costoso e poco diffuso tra i poveri. Poi perché è un conservante, e nasconde l’amaro delle muffe e il putrido, specie della selvaggina frollata, in tempi in cui non c’è il frigorifero e la neve – pressata sotto la paglia nei «depositi della neve» – è rara perfino per re e papi, e semmai è usata per fare gelati e bevande «per malati». Analoga funzione hanno le essenze odorose che si levano dai bracieri con spessi fumi, anche fastidiosi, tra le tavole del banchetto. Il dolce bilancia anche il gusto di tante salse e conserve sotto sale, sotto aceto o vino (carni, verdure e frutta), che il rinvenimento in acqua e la bollitura non eliminano mai del tutto. La selvaggina in agrodolce e il baccalà all’uvetta hanno questa origine. Più della carne, insomma, lo zucchero è il vero segno gastronomico del Rinascimento.
• Poi c’è il puro divertimento d’abilità per sbalordire, pour épater les bourgeois. A Venezia, nel 1574, nel pranzo allestito per Enrico III, tutte le pietanze, il pane, coltelli, tovaglie, tovaglioli e piatti, erano fatti di zucchero. Riferiscono, però, che il re polacco fosse molto seccato.
Certo, i menù dei grandi cuochi e le ”Cene” dipinte dal Veronese fanno pensare ai triclini più raffinati dell’antica Roma. Ma guai a prenderli troppo sul serio. Non sono una testimonianza realistica di come pranzano ogni giorno gli italiani del Rinascimento, nobili compresi. l’errore tipico delle insegnanti d’arte o di lettere, per cui "i Romani mangiavano come Trimalcione nel Satyricon" e i veneziani come raffigurato nei quadri della pittura rinascimentale. Macché.
In Italia, anche a cavallo del Cinquecento, in realtà si pranza in modo semplice, il più parco e sostanzioso possibile, senza stranezze e senza discostarsi troppo da quell’alimentazione naturale mediterranea presente fin dagli Etruschi. Ha grande successo il manuale Della vita sobria che il nobile veneziano Luigi Cornaro pubblica a 83 anni. Bottegaio o speziale, lanaiolo o barbiere, il cittadino medio, a Firenze come a Roma, Milano o Venezia, è d’una sobrietà o avarizia che meraviglia gli stranieri. «Qualsiasi inglese sta a tavola quattro ore e mangia almeno il triplo», confessa ammirato un protonotaro apostolico britannico che vive a Firenze.
L’italiano del Rinascimento è famoso perché divora grandi insalate miste o verdure, che condisce con olio e aceto. In Toscana e altrove come ”primo”, a Venezia in ultimo. Può permetterselo: in Italia crescono gli erbaggi e i frutti più abbondanti e vari dell’intera Europa. Tuttora, seimila delle undicimila specie botaniche del continente allignano sullo stivale. Pietro l’Aretino, ghiottone di tutto, è avido anche d’insalate e olive, e le serve con i fagiani agli amici Tiziano Vecellio e Sansovino. «Perché nessun poeta canta le lodi delle verdure?», si chiede. Detto fatto. Il medico e botanico Costanzo Felici scriverà un mirabile libro sulle centinaia di erbe mangerecce in uso nel Rinascimento (Lettera sulle insalate), oggi sparite dalle tavole.
• Nelle osterie e nelle locande da posta, si sa, non si mangiava bene, né cibo fresco. Ma quando Montaigne nel suo voyage en Italie, varcate le Alpi si ferma in una locanda presso Trento, scopre che non gli offrono i soliti gamberi di fiume o l’eterno bollito di bue con cavolo in salamoia e lardo, ma grosse lumache di vigna, tartufi in olio e aceto, olive, e una quantità di limoni e arance. Allora è sicuro: è proprio in Italia. Tra poco gusterà le aromatiche ”misticanze” crude, le minestre primaverili di carciofi, fave fresche e piselli, le marmellate, i marzapane, le tante specie di frutti freschi, i canditi, soprattutto le lasagne al formaggio. Ecco, secondo i francesi, le vere ”invenzioni” della cucina d’Oltralpe.
L’italiano è già noto nell’Europa del Rinascimento come divoratore di lasagne fritte o bollite, gnocchi di frumento (non ancora di patate) e ravioli ripieni d’ortica, verdure, ricotta o carne, cotti in brodo, conditi con formaggio e burro o ripassati in padella con salsa all’aglio, erbe e ortaggi, spezie e pepe. Ci sono tagliatelle, tagliolini, trenette, maltagliati e bigoli scuri fatti in casa. I migliori, a Napoli, sono quelli delle suore, il che non meraviglia vista la loro golosità. Di là da venire gli ”spaghetti” industriali, creati alla fine del ’700. Allora i condimenti sulla pasta erano molto più numerosi e vari, mentre oggi domina, incontrastato, il banale e universale gusto acidulo del pomodoro.
• Nei giorni feriali, però, contadini, borghigiani e artigiani di città si nutrono di minestre miste, polente di frumento o di mistura di cereali, come segale, spelta, miglio, panìco e sorgo (il mais non è ancora diffuso sulle nostre tavole), legumi, frittate e pane scuro, come si vede in una ”foto” dell’epoca, il celebre dipinto Il mangiatore di fagioli, del Carracci.
Viene descritta come squisita la minestra di semi di canapa (cannabis): peccato che dia uno strano mal di testa, notano Martino e Platina. Al posto degli spinaci, si mangiano atreplice, ortica, malva, foglie di fave e di piselli, buonenrico e erba di S.Giovanni. I cuochi, non i vagabondi, preparano delicate minestre di radici di prezzemolo e foglie di grano verde. Nei pranzi degli artigiani anche qualche piccione (pippione), pollastro o pesce. Di tanto in tanto, per lo più la domenica, fegatelli, polpettine di fegato o salsicce, confetture e frutta fresca a fine pasto.
Ma tutti, principi, borghesi e popolo, in pieno Rinascimento mangiano anche rondini, passeri, storni, gru, cicogne e tartarughe marine. In qualche taverna di montagna si trova perfino la carne d’orso. Sono i tempi felici e lontani di frutti oggi spariti, come corniole, carrube e lazzeruoli. Tutti, perfino gli uomini d’affari, conoscono le sottili differenze di gusto e aroma tra santoreggia e serpillo, rafano e crescione. Uno o due bicchieri di vino, sempre annacquato, accompagnano il banchetto casalingo. Bere vino schietto, come fanno i tedeschi o gli svizzeri, è per tutti gli italiani del Rinascimento ancora un’usanza strana ed esotica, così come era per gli antichi Romani. Ma inizia a diffondersi la prima, peccaminosa ”acqua di vite”. E l’atavica avversione italiana per l’ebbrezza comincerà inevitabilmente a vacillare.
• Testicoli di volpe e altri afrodisiaci.
Mangiar bene, si diceva nel Rinascimento, «favorisce il coito». Ne erano convinti anche papi, cardinali e uomini di Curia. Che, sottilmente, non proclamavano la propria castità, ma la temperanza, cioè un sano «appetito regolato dalla ragione». Il sesso, usato «in tempi e modi convenevoli», per Alessandro Petronio, medico di papa Gregorio XIII e di Sant’Ignazio di Loyola, «procura leggerezza di corpo, facilità del respirare e allegrezza d’animo». Anche per gli uomini della Chiesa, quindi, largo ai cibi afrodisiaci. Come le passere, raccomandate da Castor Durante perché secondo Aristotele «coitano 83 volte all’ora». Come i «testicoli di volpe», cioè i doppi tubercoli di Satyrium hircinum, un’orchidacea che «bollita nel latte con secacul bianco, ceci, rafano, dragontea, olio di sesamo, butirro, semi di crescione, eruca e pastinaca, zenzero, cinnamomo, pinoli, pistacchio, muschio animale, miele e succo di cipolla, fa erigere la verga virile».
Per i vecchi che hanno moglie giovane e bella i tartufi devono essere cibo quotidiano, suggerisce maliziosamente al duca di Ferrara il Trattato utilissimo di Michele Savonarola. La principessa Caterina Sforza, di Forlì, consiglia una polvere (exiccatum) di virga asini, da lei provata sui suoi amanti, per allungare e ingrossare il membro. Ma queste droghe costano. E i poveri preti? Per loro dovrebbe bastare una zuppa di pane e chiari d’uova, o un piccione cotto nel vino rosso, o il latte di pinoli. Per contadini e servitori, vanno bene anche il pancotto col vino o i semi di lino in minestra.
E se il desiderio è eccessivo? Alle giovani monache del Rinascimento sono vietati crostacei, cervella, uova di pesci, ceci, fave, menta, castagne, perfino latte e burro. Il medico e botanico Matthioli escogita rimedi per calmare i desideri della carne: pozioni di un vino ”alla triglia”, semi di sisimbrio o canfora applicati a reni e testicoli, semi di lattuga e lattice di papavero, insalata di portulaca, semi di cannabis (canapa) mangiati in abbondanza. Se il desiderio non si estingue neanche così, non resta che ricorrere al pesce-donna, dalla caratteristica «faccia muliebre», che vive in Brasile. E che, secondo il perfido missionario Filippo della Trinità, rende l’uomo insensibile e impotente.
• Gelatine (di pollo, carni varie, verdure), marmellate, confetture, canditi, pasticceria e sculture di zucchero sono tra le grandi invenzioni della cucina italiana del Rinascimento. Che saggiamente ritrova l’ambiguità dolce-salato degli antichi Romani, come prova il delizioso abbinamento di formaggio (o ricotta) e miele. Il piccante, poi, è ricondotto, com’è giusto, più al dolce che al salato. Fichi secchi, datteri e uvetta sono saggiamente tritati e impastati con zenzero e pepe. E sono i dolci più strepitosi e più facili da preparare, specialmente se vi si aggiungono gherigli di noci, mandorle e pinoli. Una conferma viene non dalle attuali ricette, ma dai nomi di ”panforti” e ”panpepati”, ancora oggi preparati ed apprezzati.
• «Tra gli antipasti, dolci di pinoli, marzapane (pasta di mandorle), biscotti al vino, panna zuccherata, fichi, vino moscato. La prima portata consiste in enormi piatti di beccafichi, quaglie e tortore arrosto, pernici in tegame alla spagnola, interi galletti cotti, poi rivestiti di piume e messi in piedi come se fossero vivi, volatili bolliti e serviti in salsa bianca, pasticci di quaglie, un intero montone con tanto di corna, cotto, rivestito della sua pelle e troneggiante in piedi in un gran piatto dorato. Seguono altre dodici o tredici portate del genere.
C’erano anche ”capponi zuccherati ricoperti d’oro fino”, ”cervellate” (salsicce di cervello) di Milano, tartufi, storione e caviale del Po di Ferrara, ostriche di Chioggia, mortadelle di Cremona, ”zuppe dorate” allo zafferano, trippe di Treviso, quaglie dalla Lombardia, oche dalla Romagna, tordi dall’Umbria, carni in mostarda di frutta. E poi dolci, marmellate, gelatine, sorbetti, canditi e frutti d’ogni tipo. Come bevande, tutti i tipi di vino (malvasia, vernaccia, Creta ecc.) e acqua gelata zuccherata e aromatizzata alle rose.